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N. 101 - Maggio 2016 (CXXXII)

VITTORIO SERENI E L’ALGERIA
DIARIO DI UNA PRIGIONIA

di Elisa Temellini

 

Vittorio Sereni è stato uno dei maggiori poeti del ’900. La sua poesia, lontana da ogni spiritualismo e da qualsiasi tipo di virtuosismo linguistico, è ai più ancora sconosciuta. Paradossalmente la sua personalità, schiva e per niente mondana, l’ha reso un artista d’elite.

 

Sereni nacque nel 1913 a Luino, un piccolo paese situato sulla costa italiana del Lago Maggiore. Dopo pochi anni la famiglia, a causa del trasferimento del padre, funzionario di dogana, andò a vivere a Brescia dove Vittorio compì gli studi liceali. S’iscrisse a Lettere e Filosofia a Milano. Nel 1936 si laureò con Banfi in estetica con una tesi sulla poesia di Guido Gozzano. Mentre insegnava italiano in diverse scuole superiori, collaborò a varie riviste d’interesse poetico come Corrente. Nel 1941 usciva il suo primo volume di poesie: “Frontiera”. Sempre nello stesso anno fu richiamato alle armi, in un battaglione che doveva combattere in Africa Settentrionale. Due anni dopo Sereni fu fatto prigioniero e deportato in un campo di prigionia in Algeria. Da questa esperienza nacque la seconda raccolta di poesie: “Diario D’Algeria”. A guerra finita, tornò a Milano, dove continuò a lavorare ma soprattutto a scrivere fino alla sua morte avvenuta nel 1983 a causa di un aneurisma.

 

Ottenne numerosi premi letterari e alle sue opere come quelle già citate o come “Negli immediati dintorni”, “Gli strumenti umani” e “Un posto di vacanza” sono dedicate alcune pagine delle antologie poetiche del Novecento italiano.

 

Sereni non può essere considerato un poeta ermetico o realista. È un artista a sé stante che ha saputo coniugare la poesia alla propria esistenza e la vita del singolo alla storia universale in maniera magistrale.

 

La realtà che Sereni usa racchiudere nelle proprie composizioni è descritta con un vocabolario ristretto quasi esclusivo. I termini, volutamente ripetuti, esprimono l’essenzialità del vissuto e “Diario d’Algeria” altro non è che una pagina di storia raccontata da uno dei protagonisti.

 

Per riuscire a comprendere meglio il Diario, bisogna conoscere la situazione in cui fu scritto.

 

Tra il 23 e il 24 luglio 1943, la vigilia della caduta di Mussolini, Sereni si trovava con il suo plotone in Sicilia, nella zona di Trapani. Dopo la facile cattura dei militari fascisti, gli americani, sbarcati sull’isola, li ammassarono dentro il campo sportivo tra polvere e afa e poi separarono gli ufficiali, tra cui Sereni, dai soldati semplici. Da un paio d’anni il reparto del poeta cercava di raggiungere l’Africa del Nord senza risultati. Ci riuscì in quell’occasione, ma non come invasore ma come prigioniero. Partirono per Orano intorno a Ferragosto. La preoccupazione più grande dei prigionieri italiani era quella di cadere nelle mani dei francesi, sicuramente non così magnanimi come gli anglo-americani. Restarono, fortunatamente, sempre prigionieri degli americani in vari campi della zona di Orano e per gli ultimi sei mesi in Marocco a Fedala, nei pressi di Casablanca.

 

Sereni non la descrive come una dura prigionia. I reclusi furono sempre trattati bene tanto che alcuni prigionieri, giunti lì da altri campi, non esitarono a definire quella sorte di prigione un paradiso terrestre. La fame non fu un problema se non i primi giorni, come pure l’alloggio. Potevano giocare, studiare e recitare.

 

Dall’8 settembre, giorno dell’armistizio, ai prigionieri fu data anche la possibilità di collaborare (una sorta di firma che dava l’opportunità di lavorare negli aeroporti, nei porti e nelle strade dell’Africa del Nord). Spesso erano gli stessi prigionieri che si offrivano come mano d’opera per uscire da quella situazione d’inerzia. Ma c’era anche chi non si muoveva avvolto nel torpore di quel clima secco aspettando la temuta morte. E anche lo stesso poeta si lasciò sopraffare dalla totale passività caratterizzata da un’atroce inerzia.

 

Ciò che più lacerava Sereni era l’estraneità forzata al corso della storia. Non avevano molte notizie degli avvenimenti in Italia e la resistenza partigiana, di cui avevano solo una frammentaria conoscenza, li metteva di fronte a una possibile scelta cui non avevano mai pensato. Altri stavano costruendo la storia, non loro.

 

I giorni passavano tra noia e angoscia con il rimorso di non aver accettato la condizione di prigioniero-lavoratore e la voglia di tornare, che negli ultimi tempi si era trasformata in paura di arrivare in un’Italia trasformata e sconosciuta. Sarebbe realmente arrivato in un paese cambiato, rinnovato da quel movimento di resistenza a lui estraneo. Il rapporto che avrebbe avuto con gli altri al suo rientro, con chi aveva saputo vivere con coraggio la storia, divenne complicato. Uno strappo irreparabile, un rimorso che si sarebbe trascinato per tutta la vita.

 

La prima edizione del Diario fu pubblicata da Vallecchi nel 1947 ma solo nel 1965 uscì la versione definitiva, revisionata dallo stesso poeta. L’anno in cui il Diario fu pubblicato per la prima volta, fu un anno molto importante per la letteratura italiana. Contemporaneamente, infatti, uscì “Il dolore” di Ungaretti, “Giorno dopo giorno” di Quasimodo, “Quaderno gotico” di Luzi e altri testi di autori importantissimi. Il Nobel fu però assegnato a Gide, quasi a voler cancellare il dolore narrato troppo direttamente.

 

“Diario di Algeria” non descrive un tormento personale ma la delusione di un’intera generazione che si trovò inerme, incapace di fare qualcosa di fronte alla tragicità della storia. I protagonisti del Diario passano dall’esperienza di vincitori in Grecia, a vinti in Sicilia, a prigionieri in Algeria e ahimè da esclusi in Italia, a guerra finita. Oltre a contenere alcune delle più belle poesie del Novecento, Diario si propone come una fotografia della nostra storia. In queste pagine è descritto il modo di sentire la guerra di un’intera generazione.

 

Strutturalmente la raccolta è divisa in tre parti: La ragazza d’Atene, Diario d’Algeria (che dà il nome all’intera opera) e Il male d’Africa. La prima, scritta nel periodo di prigionia, dal 1943 al 1945, tratta di temi che riguardano esperienze immediatamente precedenti alla cattura. La seconda, scritta sempre negli stessi anni, invece riunisce le poesie proprie della prigionia. La terza parte invece è stata composta in seguito e cerca di mostrare quanto quella esperienza lo abbia segnato indelebilmente. Stilisticamente è una lirica a versi liberi, senza rime.

 

Ma addentriamoci nel diario soffermandoci sui versi più indicativi che meglio descrivono un tempo ormai passato. “Periferia 1940” è la prima poesia che, in realtà, nell’edizione del 1947 non era presente. Venne inclusa nell’edizione successiva. Sereni inizia parlando della giovinezza che si sta allontanando, temporanea e luminosa come il tramonto in una città, ma trapela il presentimento di qualcosa di orribile. Il dramma del secondo conflitto si legge nella preoccupazione per il futuro che presto sarà ingannato da false e pericolose illusioni. Chissà, forse si riferisce all’ideologia fascista che con la sua retorica ha effettivamente illuso migliaia di giovani.

 

In “Città di notte” il poeta è già inquieto in una città che è costretto a lasciare. Si allontana in treno mentre tutto dorme. Le luci sono sinistre e forse qualcuno sta morendo. Da notare come lentamente introduce la tragicità della guerra. Si vede nei volti delle persone che si trasformano in bestie e nei fiori primaverili che presto saranno distrutti, si sente nelle amare musiche che escono dalle finestre. Il sottotenente Sereni non riesce a essere contento. Un triste presentimento lo attanaglia.

 

Nelle poesie successive come “Belgrado” e in “Italiano in Grecia” è già guerra. Il militare, in quei luoghi, non trova certo accoglienza. Descrive i due paesi stranieri ostili e freddi. Non dimentichiamoci che faceva parte, seppure non volontario, di un reggimento fascista e sappiamo bene di quali crimini si macchiarono in quel paese i nostri. Ora anche lui è un bruto, un fascista, un violento. Le quotidianità, le consuetudini di quella vita militare sono analizzate nel dettaglio come quando descrive la foto di una pin-up appesa alla parete della caserma vicino a Trapani vista per la prima volta un pomeriggio di luglio. Il giorno dell’attacco, precipitatosi in caserma per comunicare la situazione ad un superiore, trova solo la foto appesa della giovane, svolazzante e la immagina parlante. Chi avrebbe vinto la guerra e chi l’avrebbe persa quel giorno? E perché si combatteva?

 

Con il triste ritaglio che si affloscia raffigurante la ragazza, Sereni probabilmente ci vuole offrire un’ultima immagine della gioventù ormai forzatamente passata.

 

La seconda parte che dà il nome all’intera raccolta non ha poesie intitolate, ma un’unica lunga lirica: il resoconto dei suoi giorni di prigionia in Africa Settentrionale.

Ora è un prigioniero, un dannato in un girone fatto di polvere e sole.

 

Diario è dedicato a un suo compagno di campo, Remo Valianti, un commilitone che udì piangere piano nella branda accanto alla sua. La toccante tristezza di questo splendido ricordo ha talmente colpito il poeta da dedicargli l’intero libro. In questi versi scritti nel dicembre 1944, Sereni è cambiato, è rassegnato. Ricorda le persone care sotto un cielo che non sente più pericoloso in quelle prigioni dove riesce anche a scorgere un po’ di verde.

 

La poesia giudicata migliore da quasi tutti i critici è indubbiamente “Non sa più nulla, è alto sulle ali”.

 

Una notte, mentre Sereni dorme, qualcuno gli tocca la spalla chiedendogli di pregare per l’Europa. Quel qualcuno potrebbe essere il primo morto nello sbarco in Normandia. Il poeta, però non prega, si rifiuta. Lascia pregare lui, il soldato morto. A lui basta quello che ha. Anche lui è morto se non fisicamente almeno mentalmente. E’ in uno stato di rassegnazione, e anche la religione che avrebbe potuto confortarlo non gli interessa. E se mentre in questa poesia lui è il solo il protagonista, nelle altre parla per tutti.

Non sanno di essere morti

i morti come noi,

non hanno pace.

 

La terza ed ultima parte del Diario è completamente diversa dalle prime due. Sereni alterna brevi brani di prosa a poesie, scritte al ritorno in Italia quando la prigionia è solo un ricordo.

In queste pagine troviamo anche le sue considerazioni sulla guerra e su come fu vissuta la storia da quei prigionieri lontani dal corso degli eventi. Ne “Il male d’Africa”, la poesia che assegna il nome alla terza parte, si trova tutto lo sdegno del poeta per quell’isolamento forzato, la rabbiosa presa di coscienza di non essere stato dalla parte giusta.

Troviamo l’amara considerazione di quei giorni perduti, regalati ad una causa per niente condivisa, quella ancora fascista.

 

A guerra finita i prigionieri in Algeria saranno solo corpi appiatti, livellati, privi di onore e la loro anima non riuscirà a scappare al rimorso.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Maria Laura Baffoni Licata, La poesia di Vittorio Sereni: alienazione e impegno, Longo, Ravenna 1986.

Dante Isella, Antologia critica in Vittorio Sereni. Poesie, I Meridiani, Mondatori, Milano 1999.

Alfredo Luzi, Introduzione a Sereni, Laterza, Bari 1990.

Francesco Paolo Memmo, Vittorio Sereni, Mursia, Milano 1973.

Pier Vincenzo Mengaldo (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1990.

Remo Paganelli, La ripetizione dell’esistere: lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni. All’insegna del pesce d’oro, Milano 1980.

Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, Einaudi, Torino 1998.

Vittorio Sereni, La tentazione della prosa, Mondatori, Milano 1998.



 

 

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