[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 205 / GENNAIO 2025 (CCXXXVI)


ambiente

villaggi abbandonati
TRA spopolamento E MUTAMENTO DEL PAESAGGIO

di Andrea Piscitelli

 

Gli argomenti focali di questo saggio sono i villaggi bassomedievali, il loro successivo abbandono e l’approccio avuto da parte della storiografia europea nel corso della seconda metà del Novecento. Per introdurre il discorso si deve tener conto della periodizzazione convenzionale dell’epoca medioevale. Infatti, la cosiddetta “cesura”, ossia il XI secolo che separa le due macro-epoche della storia medievale, è valida anche sotto il profilo del rapporto tra società e paesaggio. Sebbene durante l’Alto Medioevo si vennero a creare forme embrionali di collettività contadine, è soltanto in questa fase (XI-XII secolo) che si formalizzarono delle realtà con profilo politico-istituzionale. Per dare una definizione, universalmente utilizzata, di villaggio bassomedievale citiamo lo storico Robert Fossier (1927-2012): «il villaggio sarebbe nato durante il processo di rinascita economica dell’occidente medioevale, a partire dall’XI secolo, grazie alla capacità dei signori rurali di riorganizzare i territori locali». Secondo lo storico francese, i villaggi avrebbero sostituito l’abitato sparso, dominante nei primi secoli del Medioevo, a vantaggio di formazioni di agglomerati sociali in cui si riscontrò una buona capacità di azione politica. Infatti, in questi agglomerati vennero eletti dei consoli della comunità, i quali si organizzarono in una forma stabile e compiuta, dandosi di conseguenza delle regole di convivenza. In merito, però, la studiosa Elisabeth Zadora Rio afferma che le prime forme di villaggio, seppur a fronte di testimonianze scritte laconiche, si formarono a partire dal VI secolo. Naturalmente questi vici, così sono chiamati i villaggi altomedievali nelle fonti, non avevano le forme e le strutture di villaggi del XII secolo ma, comunque, si iniziava a sviluppare un senso di appartenenza a quel medesimo luogo e a condividere relazioni di solidarietà con altri abitanti, tipico, come si è menzionato, anche dell’insediamento bassomedievale.

 

La seconda parte si concentra sul rapporto tra spazio e società, ma in questo primo paragrafo si vuole presentare come, a quest’altezza cronologica, la comunità rurale iniziasse a pensare in maniera consapevole come sfruttare il territorio. Facendo riferimento ad uno degli studi dello storico Riccardo Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, si può indicare innanzitutto la morfologia del villaggio, suddiviso in tre zone:

 

· La I zona si situava di norma a ridosso del villaggio. In quest’area si concentravano funzioni economiche di primaria importanza.

· Nella II zona si trovavano i campi coltivati del villaggio: le terre arate in cui si seminavano i cereali, secondo i ritmi della rotazione triennale. Questa tecnica agricola dimostrava un’attenzione particolare allo sfruttamento del suolo.

· Nella III zona si trovavano terre incolte, per esempio, boschi e zone scoscese.

 

A ogni modo, il villaggio-tipo medioevale era di piccole dimensioni e di rado superava qualche centinaio di abitanti. Riguardo alla popolazione si deve far riferimento alla varietà, poiché questi villaggi si venivano a creare anche grazie al fattore migratorio e, dunque è lecito parlare di eterogeneità del tessuto sociale. In tal caso, una presenza insediativa favoriva l’irrobustimento di legami di solidarietà tra gli abitanti: la pieve. Il culto cristiano risultava essere una convergenza culturale per le varie comunità, rendendo più semplice il processo di assimilazione all’interno di questo agglomerato insediativo.

 

Inoltre, tra X e XI secolo, la formazione delle signorie rurali facilitò in tutta Italia un’iniziale demarcazione delle risorse di uso pubblico relativamente ai territori rurali e l’apparizione, per la prima volta nelle fonti, dei termini comunia o comunalia per indicare gli spazi collettivi. Tuttavia, soltanto alla fine dell’XI secolo, quando la pressione sui boschi e pascoli aumentò, questi agglomerati collettivi si attrezzarono per difenderli: è in questo stesso periodo che “le risorse di uso pubblico” iniziarono a presentarsi come “beni comuni”. Mentre la prima categoria coincideva con le risorse naturali ed era caratterizzata dal libero accesso, la seconda era contrassegnata dalle limitazioni d’uso. Quindi, per poter accedere ai “beni comuni” si dovevano rispettare alcuni requisiti basati soprattutto su un utilizzo mirato delle zone rurali, in quanto non si poteva più accedere liberamente e dunque bisognava rispettare determinate regole di coltura. L’altro requisito risultava essere il piano di utilizzo da parte della comunità rurale: i “beni comuni”, fondamentalmente, diventavano beni da amministrare e valorizzare. Possiamo dire che, come ricorda Rao, sebbene non fosse l’unico motivo, la gestione dei “beni comuni” possa essere la motivazione principale per cui nacquero i villaggi. Sulla scorta delle fonti disponibili, si può precisare la differente gestione dei beni comuni tra Nord e Sud Italia. La zona settentrionale era contrassegnata da una ragguardevole vivacità delle comunità rurali, che riuscivano solitamente ad ottenere un’ampia disponibilità delle risorse collettive, rendendo l’autorità signorile poco più che formale. Invece al Sud, prevalevano soluzioni che tendevano a configurare l’utilizzo dei “beni comuni” come usi civici, non estromettendo quindi la prerogativa signorile e quella regia.

 

Nella cultura diffusa, gli ultimi secoli del Medioevo sono associati ad un periodo di decadenza. La peste nera del 1348 creò una percezione collettiva molto negativa, introducendo così il concetto di “crisi”, termine probabilmente abusato nella sua accezione negativa nel corso degli studi storiografici degli ultimi decenni. Le molteplici “crisi” (demografica, economica, monetaria, insediativa) che colpirono sia l’Italia che l’Europa nel XIV secolo rappresentarono un fattore di rinnovamento dei quadri sociali e anche dei paesaggi che si erano formati in passato. Da come si può intuire, la “crisi” del Trecento oggigiorno può essere intesa anche come una mera fase di transizione in cui il processo di ristrutturazione complessivo della società e del paesaggio medioevale si rivelò centrale. All’interno di questa ultima categoria non possiamo non riprendere il discorso sinora affrontato sul villaggio.

 

A partire dal XIV secolo il villaggio non fu più il protagonista delle zone rurali, ma divise la scena con altre realtà, quali cascine, poderi, masserie e fortificazioni isolate. Questa perdita di centralità delle comunità rurali si identifica oggigiorno in storiografia con il paradigma dei “villaggi abbandonati”. Le classificazioni prodotte dalla storiografia novecentesca, soprattutto tedesca, non danno una definizione efficace dei villaggi abbandonati perciò si utilizzano, ancora una volta, gli studi di Rao, il quale definisce questo fenomeno in questi termini: «con l’espressione villaggi abbandonati si debbano intendere tanto i villaggi soggetti a dinamiche congiunturali o strutturali di spopolamento, tali da compromettere la sopravvivenza degli stessi come centri demici, quanto quelli il cui livello di popolamento è percepito dalle popolazioni e dai governi dell’epoca come insufficiente al mantenimento delle funzioni di continuità abitativa e di unità giurisdizionale e fiscale». In tale assunto rientrano sia i villaggi abbandonati per cause strutturali di spopolamento, sia quelli il cui livello di popolamento era ritenuto insufficiente dai governi dell’epoca, in quanto incapaci di pagare tasse. Seguendo una categorizzazione delle fonti a disposizione degli studiosi, ci si deve soffermare su due tipi di testimonianze storiche, queste ultime sono numerose in quanto troviamo: scavi archeologici, liste di villaggi, elenchi di fuochi ed infine fonti che parlano intenzionalmente dei villaggi abbandonati. Tali fonti si possono suddividere in due gruppi: il primo ingloba quelle “preter-intenzionali”, identificate con quelle archeologiche, che si possono rinvenire in un gran numero nel Duecento, mentre l’altro gruppo include fonti dette “intenzionali”, ossia documenti che si soffermano esplicitamente sugli abbandoni e di cui si dispone una moltitudine di testimonianze a partire dal 1350.

 

Inoltre, le diserzioni possono essere divise al proprio interno sia in base alla durata che al tasso di spopolamento. Relativamente alla durata, si può distinguere tra gli abbandoni temporanei, che rimandano ad un breve intervallo di tempo all’interno del quale l’habitat venne comunque sfruttato, e quelli definitivi. Rao afferma che le fonti intenzionali definiscono, in alcuni casi, gli insediamenti con l’aggettivo “inabitati”, poiché fanno riferimento a migrazioni verso borghi di nuova fondazione mentre, nella maggior parte dei casi, la documentazione fa riferimento a centri demici in cui vi era una scarsa presenza di abitanti. Cronologicamente, le diserzioni si assestano in un arco di tempo abbastanza vasto, partendo dall’ultimo quarto del Duecento fino alla prima parte del Quattrocento (1275-1450), «dunque nel periodo di inversione della congiuntura e ben prima dello scoppio della peste».

 

La rassegna storiografia europea dal 1965 ad oggi: la nascita di un tema europeo

 

Questo preambolo serve principalmente per introdurre gli schemi interpretativi della storiografia europea riguardante i villaggi abbandonati durante il XX secolo e spiegare come, conseguenzialmente, si fosse approcciato ad un fenomeno di per sé complesso. Pertanto, una rassegna storiografica risulta essere fondamentale per rappresentare la nuova metodologia che si basa sull’idea di percezione, che è presente nell’ultima parte di questo saggio.

 

Lo studio di questi processi trasformativi del villaggio inizia molto tardi. Difatti, nei primi decenni del Novecento alcuni studiosi francesi, inglesi e tedeschi si cimentarono nell’analisi delle possibili cause di questo fenomeno. Si vennero a creare due scuole di pensiero: quella francese che si soffermava sulle risistemazioni dell’habitat ed evidenziava un fenomeno di selezione degli abitati che era del tutto indipendente dalla congiuntura del Trecento; mentre quella anglo-tedesca propugnava l’immagine di una crisi agraria che si era aggravata a causa della “crisi” del XIV secolo. Gli studiosi Wilhelm Abel (1904-1985) e Micheal Postan (1899-1981) si concentrarono prevalentemente sull’aspetto economico, in particolare sui prezzi e sui salari, attribuendo a questi fattori la crisi che portò all’abbandono dei villaggi. In merito, la studiosa Klapisch-Zuber scrive che questa generazione di studiosi anglotedeschi si confrontò con il marxismo, accostando quindi i grafici della decrescita della popolazione con i fattori economici dell’epoca bassomedievale.

 

La svolta avvenne nel 1965, quando fu pubblicato il volume collettivo Villages désertés et histoire économique che «segnò in materia un non eludibile discrimine storiografico». Tale opera offre una ricostruzione del fenomeno di respiro europeo, esauriente tanto nel tracciare gli studi effettuati sino a quel momento, attraverso una rassegna di storiografie nazionali, quanto nel proporre nuove linee interpretative. Quest’opera collettiva generò due orientamenti: in primis favorì un altissimo interesse verso i casi locali per tutti gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo mentre, in secundis, un effetto non propriamente positivo, incise nella cristallizzazione delle cause. Infatti, relativamente a quest’ultimo aspetto, nessuno studioso sarebbe stato in grado, negli anni successivi, di proporre nuove ipotesi e nuovi percorsi al di fuori delle piste aperte in quella sede. Altro riferimento che ci induce a riflettere è sicuramente la scelta del titolo, poiché Histoire Économique non rimanda agli studi economici del primo Novecento presente nelle opere di Abel e Postan, ma risulta influenzato dalla rivista delle Annales: una storia della cultura che si basava sull’interdisciplinarità dei metodi e dei settori di studio. Traslando questo nuovo metodo al nostro fenomeno, il futuro dei villaggi abbandonati sarebbe stato caratterizzato da una metodologia interdisciplinare, capace «di mettere in connessione lo studio degli abbandoni con la storia dell’habitat e del paesaggio».

 

Il volume è articolato in quattro sezioni: la prima si occupa dei problemi di metodo e delle prospettive interdisciplinari; la seconda si sofferma sulla svolta avvenuta in Francia grazie al contributo della rivista fondata da Bloch, ossia un differente approccio al fenomeno che poggiava sulla interazione tra storia sociale e geografia culturale; la terza propone i nuovi studi condotti nell’Europa Mediterranea e risulta essere una sezione molto importante, in quanto in quest’aree gli studi erano stati del tutto minoritari nella prima metà del XX secolo; infine, la quarta sezione ospita i bilanci relativi alle zone in cui erano stati condotti studi più approfonditi come l’Europa settentrionale e scandinava.

 

Come si può intuire, il convegno e i suoi atti ebbero l’arduo compito di coordinare gli studi europei sui villaggi abbandonati e in parte si poté riscontrare un parziale esito positivo. Le linee di fondo, che avrebbero contraddistinto gli studi sul fenomeno dopo il 1965, furono:

· In primo luogo, una ridimensione del ruolo della peste del 1348 nelle diserzioni e un conseguente approccio sulle dinamiche insediative basato sul rapporto fra abitanti e habitat.

· Una tendenza ad adottare una “policausalità orizzontale” per spiegare le diserzioni.

· Concetto di differenziazione del fenomeno per aree: gli studi post 1965 avrebbero insistito, in sostanza, sulla necessità di studiare le diserzioni nelle svariate regioni dei paesi europei.

· Un ultimo aspetto riguardante la trasformazione nell’approccio alle fonti: per quanto concerne la documentazione scritta, furono intraprese riflessioni sia sulla qualità sia sulla capacità di fotografare in maniera esauriente l’insediamento medievale. Tale proposta portò all’interno delle opere un aspetto più critico e meno filologico delle fonti.

 

Quindi con questa pubblicazione le cause delle diserzioni aumentarono: non solo la peste del 1348 e la crisi demografica, ma anche la guerra, una fiscalità oppressiva ed altro ancora. Infatti a partire dal 1965 avanzava l’ipotesi, alquanto valida, che gli abbandoni non riguardassero solo il Trecento, ma anche epoche di espansione o, come le si è definite precedentemente, di ristrutturazione; per esempio, la costruzione di un borgo nuovo che assorbiva un abitato vicino, decretandone la scomparsa. Nel corso del Novecento pure gli archeologi si interessarono ai villaggi abbandonati, prestando particolare attenzione alla forma dell’insediamento, poiché questi siti rappresentavano un grande punto di osservazione, dato che, successivamente, non sarebbero stati intaccati dalle trasformazioni post medievali. Allo stesso tempo, è importante ricordare come gli storici si fossero interessati allo studio dei villaggi abbandonati solo negli ultimi cinquant’anni, probabilmente per la scarsità di fonti a disposizione e per la loro eterogeneità.

 

L’epicentro di questo cambiamento metodologico fu la Germania e in particolare grazie a due opere: Crisi agrarie di Abel e Studien zur Wüstungsfrage im Frankischen Altiedelland zwischen Rhein, Mosel und Einfelnordrand di Janssen. La prima edizione dell’opera di Abel fu pubblicata nel 1935 e avanzò l’idea secondo cui le diserzioni erano state causate dalla congiuntura economica del Trecento. Molto importante fu, invece, la seconda edizione, pubblicata nel 1966, in cui si possono riscontrare approcci innovativi al fenomeno, in quanto gli studi si estendevano all’intero continente e soprattutto non era più presente il concetto di monocausalità che era sostituito da una più attenta considerazione del fenomeno, in questo caso regionalizzato. L’altra opera, composta da Janssen nel 1975, si sofferma sulle zone dell’Eifel, altopiano della Germania occidentale. Anche in questo lavoro è possibile notare un esplicito richiamo alla policausalità orizzontale che emergeva negli abbandoni, poiché afferma che questo fenomeno era più visibile in quelle zone più deboli strutturalmente. Con questo ragionamento è chiaro come le cause fossero riconducibili ad epidemie, guerre, migrazioni e secolarizzazione dei beni ecclesiastici e, di conseguenza, seguendo queste coordinate si può dire che si prestò molta più attenzione alla contestualizzazione del fenomeno. Inoltre, in questa classificazione il concetto di “ristrutturazioni”, largamente diffuso negli studi dal 2010 ad oggi, sarebbe stato già ampiamente presente nelle dinamiche dei lavori post 1965, anche in quei paesi in cui, prima della “cesura storiografica”, si era prestata molta più attenzione alla storia economica in senso stretto.

 

Come presentato dalla breve sintesi dell’opera Villages désertés et histoire économique, la Francia è la protagonista della seconda sezione, all’interno della quale vi è un evidente riferimento agli studi archeologici e all’influenza delle Annales. Negli anni Sessanta e Settanta, la storiografia e l’archeologia francese apparirono dunque molto attive nell’ambito dei villaggi abbandonati. Più in generale, bisogna citare i contributi significativi in questo periodo di Jean-Michel Pesez (1929-1998), che sottolineano sia la policausalità del fenomeno, con un interesse crescente per la ricostruzione della struttura del villaggio, sia soprattutto un’analisi critica nei confronti delle fonti. L’altro contributo è quello dello studioso Pierre Toubert, Latium, che propone, attraverso punti di convergenza, ipotesi che sarebbero state presenti nel lavoro di Janssen del 1975. Infatti, secondo lo studioso francese, esiste un rapporto inversamente proporzionale tra abbandono e crisi e un intenso processo di diserzione durante l’apogeo medievale. Prima di giungere alla storiografia italiana, si deve far riferimento ad un caso molto particolare, quello del Regno Unito, in cui si rilevava un’impermeabilità alle correnti francesi e tedesche poiché gli studi archeologici erano già abbondantemente affermati e, soprattutto, il tema dei Lost Villages aveva riscontrato un enorme successo. All’interno delle opere di maggior fama, già prima del 1965, erano state menzionate questioni come la «piccola taglia degli insediamenti colpiti, la sopravvivenza delle parrocchie e delle istituzioni ecclesiastiche nei villaggi abbandonati». È chiaro che questi risultati e studi sarebbero stati riproposti negli altri paesi solo dopo il 1965.

 

In Italia, nel corso del Novecento, studiosi come geografi, storici e archeologi, sia italiani che stranieri, si cimentavano nello studio dei villaggi abbandonati. Tale interesse però si mostrò con scarsa sensibilità e risultati sino al 1965, anno in cui, com’è noto oramai, venne pubblicato il volume collettivo a Monaco di Baviera. Resta comunque doveroso citare alcuni studi affrontati prima della fatidica data: ad esempio, quello di Giuseppe Salvioli (1857-1928) che, nel 1913, scrive che i villaggi sorsero dopo la scomparsa delle villae, delle curtes e delle zone isolate mentre, la loro successiva scomparsa, sarebbe avvenuta senza lasciar traccia quando le popolazioni rurali tornavano ad abitare i fondi che in precedenza avevano coltivato. Secondo Giovanni Tabacco (1914-2002), medievista, questo lavoro non fu capace di generare un nuovo ambito di studi, sia per la mancata sistematicità delle sue ricerche, sia per essersi limitato alle sole foto. Probabilmente la responsabilità di tale sterilità italiana non è da attribuire al solo Salvioli poiché furono i geografi ad occuparsi dei villaggi abbandonati, in quanto essi ebbero la preminenza nel gruppo interdisciplinare con storici e archeologi. Altri studi considerevoli per l’epoca sono il lavoro di Vincenzo Epifanio, presentato durante l’XI congresso geografico italiano tenutosi a Napoli nel 1930, in cui si servì dei registri angioini per arrivare ad una definizione degli abbandoni di villaggi collocati sulle coste meridionali nel XIV secolo, le cui cause risultarono essere disordini sociali e politici del regno di Roberto d’Angiò (1277-1343). L’altro lavoro, che presumibilmente simboleggiò già una svolta, fu composto da Elio Migliorini (1902-1988) nel 1951, che introdusse una visione diacronica del fenomeno, basandosi su fonti scritte, archeologiche ed infine su foto scattate da un aereo. Un punto di convergenza di questi lavori è sicuramente la causa di questi fenomeni e come quest’ultima scaturisse da una mescolanza di fattori antropici e naturali. La prima categoria includeva epidemie, guerra e migrazioni, mentre la seconda, alluvioni, frane, cicloni, torrenti e variazioni climatiche. Anche se, come afferma Settia, spesso le cause proposte con maggiore costanza furono quelle fisiche, come dimostra il congresso svoltosi Bari nel 1957, dove le uniche cause antropiche furono quelle congiunturali, vale a dire guerre ed epidemie.

 

Il primo studioso ad interessarsi dei villaggi abbandonati, dopo il 1965, fu Giovanni Tabacco, il quale, nel saggio già citato, denunciò il totale disinteresse degli storici verso il fenomeno e, soprattutto, propose un concreto lavoro di gruppo interdisciplinare. Così iniziarono grandi lavori di studiosi italiani, come Giovanni Cherubini (1936-2021) ed Elio Conti (1925-1986), ma il vero cambio di passo avvenne grazie a studiosi stranieri. Il primo di questi fu Philip Jones (1921-2006) che dedicò, nel 1964, un’opera alla storia agraria medievale italiana, individuando nell’instabilità politica e nell’oppressione fiscale la causa delle diserzioni. Un percorso simile fu condotto da Klapisch-Zuber e da John Day (1924-2003), i quali proposero diverse concause, a partire dalle migrazioni e dalle guerre per le diserzioni romane e sarde. Questi autori cercarono di allontanarsi dalla relazione abbandoni-congiuntura, propugnando ipotesi differenziate basandosi sul contesto in cui si erano costruiti i villaggi. Alla luce di ciò, questa visione mostra due fattori: il primo indica una forte influenza dei Villages désertés et histoire économique e il secondo è che era difficile condurre indagini “nazionalizzate” sulla penisola italiana sebbene, dopo il 1965, in Italia si assistesse ad una brillante stagione di studi sul fenomeno delle diserzioni che coinvolgevano anche Istituti universitari come quello di Genova che avviò, tramite base interdisciplinare, un repertorio di sedi abbandonate in Liguria. Inoltre, un altro contributo degno di nota, fu quello di John Day che, nel 1973, cercò di inventariare tutti i villaggi abbandonati in Sardegna tra il XIV e il XV secolo. Aspetto molto interessante è che in questi lavori emergono diverse cause, rafforzando così quello che è il concetto di policausalità orizzontale. Questa rassegna storiografica italiana non mostra soltanto un forte interesse verso il paradigma dei “villaggi abbandonati”, ma, anche, alcune problematiche metodologiche. Infatti, secondo Klapisch-Zuber, la storiografia italiana si soffermava, in questi anni, troppo sul mero concetto di scomparsa, ossia «del solo aspetto negativo della storia della popolazione e dell’habitat». Sulla scorta di questa ultima citazione si può giungere all’idea di “percezione”, e di come il tema delle risistemazioni dell’habitat abbia riscontrato una certa rilevanza negli studi dei villaggi abbandonati durante questi ultimi anni.

 

Dopo gli anni Settanta e Ottanta, soprattutto in Italia, gli studi si interruppero e Pierre Toubert osserva che la ricerca aveva cessato «di considerare il problema delle diserzioni come un oggetto storico in sé privilegiato per occuparsene solo come un elemento fra tanti altri delle dinamiche dell’insediamento nel suo insieme». Quindi, la svolta in ambito nazionale avvenne nel 2010, quando studiosi come Rinaldo Comba, Enrico Lusso e Riccardo Rao ripresero e rinnovarono il “vecchio tema” dei villaggi abbandonati. In particolare, in questi ultimi anni, si assiste ad una forte convergenza nello studiare centri demici a bassa densità demografica, poiché in essi si può riscontrare una più alta percentuale di diserzioni. Questi studi hanno dimostrato che, sebbene i villaggi abbandonati fossero diffusi in tutta Italia, vi era un’intensità differente a seconda delle zone. Fondamentalmente, nelle aree più strutturate e con più alta densità demografica, come Milano, Firenze e la Liguria, non si assisteva di frequente a tale fenomeno; invece, in quelle zone in cui vi fu una certa instabilità politica e sociale, come la Sardegna, il Piemonte e alcuni contesti del Mezzogiorno, il fenomeno delle diserzioni era abbastanza diffuso.

 

All’interno del saggio si è fatto riferimento al concetto di percezione che è al centro degli studi condotti proprio negli ultimi anni. Infatti, nel 2015, venne pubblicata un’opera di Riccardo Rao, largamente citato, che al meglio rappresenta i nuovi studi condotti sui territori e come la storiografia italiana abbia iniziato ad utilizzare il concetto di “percezione”, ossia lo studio su come gli abitanti percepissero l’ambiente circostante. L’opera chiamata in causa è intitolata I paesaggi dell’Italia medievale, la quale cerca di ripercorrere tutte le trasformazioni dei paesaggi attraverso un approccio che consente di mettere in relazione due ambiti: storia sociale e geografia culturale. Rao afferma che mediante questa interazione si può raggiungere una comprensione più profonda delle società del passato. Questi studi stanno progredendo anche grazie all’intervento dell’archeologia medievale che ha modificato l’approccio verso questi fenomeni poiché, oggigiorno, si può sapere con sicurezza, per esempio, come si alimentassero gli uomini, quanti anni avessero in media e quali alberi piantassero in determinate aree. Questi approcci risultano essere ancora più determinanti per via della scarsità e della eterogeneità delle fonti scritte. Un altro concetto, che merita di essere approfondito, è quello riguardante l’interdisciplinarità dei metodi. Il primo risulta essere quello regressivo, che consiste in una ricerca di punti di ancoraggio nelle fonti di diverse epoche e che consentono di tracciare le principali linee relative dell’habitat attraverso il lungo periodo, recuperando, quindi, gli elementi di contestualizzazione su un arco cronologico molto vasto. Il secondo è quello morfogenetico: esso riguarda lo studio delle forme geografiche e ha come punto di forza la capacità di lettura diacronica. Il penultimo metodo, probabilmente quello meno apprezzato dagli storici, si basa sul paesaggio come realtà dinamica in cui specie vegetali e animali interagiscono secondo regole che sono determinate dalla scienza: il riferimento è al metodo dell’ecologia storica. L’ultimo, infine, è quello dell’archeologia medioevale di cui già si è fatta menzione.

 

Sulla scorta di questa rapidissima digressione metodologica, si può definire il paesaggio come una struttura che «ha dunque non soltanto una dimensione oggettiva, ma soprattutto culturale e soggettiva. Esso si realizza nella sua percezione: è ciò che si vede, sicché perché esista deve essere presente almeno uno spettatore». Questa definizione apre al concetto di “percezione”, ossia come le popolazioni percepivano lo spazio circostante.

 

La caratteristica comune del paesaggio in Italia era «il suo essere collettivo e locale», ovvero includeva, superando gli stereotipi autarchici del Medioevo, un processo dinamico e di continui mutamenti. All’interno della ricostruzione proposta dallo storico Rao, ma anche degli altri studiosi sopracitati, i concetti di “dinamismo” e “fluidità” erano alla base dell’influenza reciproca tra società e paesaggio medievale. Anche in questo caso viene meno l’immagine stereotipata del Medioevo come un’epoca oscura ma all’opposto viene proiettata sullo sfondo la rappresentazione di una società mobile e di un paesaggio che si riplasmava dopo incessanti trasformazioni compiute dalle popolazioni locali.

Proprio in riferimento a quest’ultima riflessione, si deve intendere il paesaggio come una risorsa da sfruttare. In particolare, esso venne ritenuto valido come protezione per i castelli oppure come fonte per necessità alimentari, vale a dire che «per secoli gli uomini hanno attuato un processo selettivo sull’ambiente, attirando ed espandendo le specie ritenute utili, per esempio, alcune specie arboree, come il castagno, capaci di nutrire le popolazioni contadine». Di conseguenza, il paesaggio va studiato attraverso le azioni perpetrate dalle popolazioni in un arco di tempo molto ampio e, quindi, sembrerebbe avere maggiore preminenza il metodo regressivo a cui si è accennato in precedenza.

 

In conclusione, applicando questa metodologia e questa definizione di paesaggio, si può considerare come valida l’ipotesi secondo cui ci sia stata una reazione del quadro insediativo bassomedievale e, di conseguenza, una frammentazione della cornice abitativa con nuovi attori insediativi intermedi. Quindi emerge, fondamentalmente, una nuova maglia insediativa che fu caratterizzata anche dalla perdita di centralità del villaggio.

 

 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]