villaggi abbandonati
TRA spopolamento E MUTAMENTO DEL
PAESAGGIO
di Andrea
Piscitelli
Gli argomenti
focali di questo saggio sono i
villaggi bassomedievali, il loro
successivo abbandono e l’approccio
avuto da parte della storiografia
europea nel corso della seconda metà
del Novecento. Per introdurre il
discorso si deve tener conto della
periodizzazione convenzionale
dell’epoca medioevale. Infatti, la
cosiddetta “cesura”, ossia il XI
secolo che separa le due
macro-epoche della storia medievale,
è valida anche sotto il profilo del
rapporto tra società e paesaggio.
Sebbene durante l’Alto Medioevo si
vennero a creare forme embrionali di
collettività contadine, è soltanto
in questa fase (XI-XII secolo) che
si formalizzarono delle realtà con
profilo politico-istituzionale. Per
dare una definizione, universalmente
utilizzata, di villaggio
bassomedievale citiamo lo storico
Robert Fossier (1927-2012): «il
villaggio sarebbe nato durante il
processo di rinascita economica
dell’occidente medioevale, a partire
dall’XI secolo, grazie alla capacità
dei signori rurali di riorganizzare
i territori locali». Secondo lo
storico francese, i villaggi
avrebbero sostituito l’abitato
sparso, dominante nei primi secoli
del Medioevo, a vantaggio di
formazioni di agglomerati sociali in
cui si riscontrò una buona capacità
di azione politica. Infatti, in
questi agglomerati vennero eletti
dei consoli della comunità, i quali
si organizzarono in una forma
stabile e compiuta, dandosi di
conseguenza delle regole di
convivenza. In merito, però, la
studiosa Elisabeth Zadora Rio
afferma che le prime forme di
villaggio, seppur a fronte di
testimonianze scritte laconiche, si
formarono a partire dal VI secolo.
Naturalmente questi vici,
così sono chiamati i villaggi
altomedievali nelle fonti, non
avevano le forme e le strutture di
villaggi del XII secolo ma,
comunque, si iniziava a sviluppare
un senso di appartenenza a quel
medesimo luogo e a condividere
relazioni di solidarietà con altri
abitanti, tipico, come si è
menzionato, anche dell’insediamento
bassomedievale.
La seconda parte si concentra sul
rapporto tra spazio e società, ma in
questo primo paragrafo si vuole
presentare come, a quest’altezza
cronologica, la comunità rurale
iniziasse a pensare in maniera
consapevole come sfruttare il
territorio. Facendo riferimento ad
uno degli studi dello storico
Riccardo Rao, I paesaggi
dell’Italia medievale, si può
indicare innanzitutto la morfologia
del villaggio, suddiviso in tre
zone:
· La I zona si situava di norma a
ridosso del villaggio. In quest’area
si concentravano funzioni economiche
di primaria importanza.
· Nella II zona si trovavano i campi
coltivati del villaggio: le terre
arate in cui si seminavano i
cereali, secondo i ritmi della
rotazione triennale. Questa tecnica
agricola dimostrava un’attenzione
particolare allo sfruttamento del
suolo.
· Nella III zona si trovavano terre
incolte, per esempio, boschi e zone
scoscese.
A ogni modo, il villaggio-tipo
medioevale era di piccole dimensioni
e di rado superava qualche centinaio
di abitanti. Riguardo alla
popolazione si deve far riferimento
alla varietà, poiché questi villaggi
si venivano a creare anche grazie al
fattore migratorio e, dunque è
lecito parlare di eterogeneità del
tessuto sociale. In tal caso, una
presenza insediativa favoriva
l’irrobustimento di legami di
solidarietà tra gli abitanti: la
pieve. Il culto cristiano risultava
essere una convergenza culturale per
le varie comunità, rendendo più
semplice il processo di
assimilazione all’interno di questo
agglomerato insediativo.
Inoltre, tra X e XI secolo, la
formazione delle signorie rurali
facilitò in tutta Italia un’iniziale
demarcazione delle risorse di uso
pubblico relativamente ai territori
rurali e l’apparizione, per la prima
volta nelle fonti, dei termini
comunia o comunalia per
indicare gli spazi collettivi.
Tuttavia, soltanto alla fine dell’XI
secolo, quando la pressione sui
boschi e pascoli aumentò, questi
agglomerati collettivi si
attrezzarono per difenderli: è in
questo stesso periodo che “le
risorse di uso pubblico” iniziarono
a presentarsi come “beni comuni”.
Mentre la prima categoria coincideva
con le risorse naturali ed era
caratterizzata dal libero accesso,
la seconda era contrassegnata dalle
limitazioni d’uso. Quindi, per poter
accedere ai “beni comuni” si
dovevano rispettare alcuni requisiti
basati soprattutto su un utilizzo
mirato delle zone rurali, in quanto
non si poteva più accedere
liberamente e dunque bisognava
rispettare determinate regole di
coltura. L’altro requisito risultava
essere il piano di utilizzo da parte
della comunità rurale: i “beni
comuni”, fondamentalmente,
diventavano beni da amministrare e
valorizzare. Possiamo dire che, come
ricorda Rao, sebbene non fosse
l’unico motivo, la gestione dei
“beni comuni” possa essere la
motivazione principale per cui
nacquero i villaggi. Sulla scorta
delle fonti disponibili, si può
precisare la differente gestione dei
beni comuni tra Nord e Sud Italia.
La zona settentrionale era
contrassegnata da una ragguardevole
vivacità delle comunità rurali, che
riuscivano solitamente ad ottenere
un’ampia disponibilità delle risorse
collettive, rendendo l’autorità
signorile poco più che formale.
Invece al Sud, prevalevano soluzioni
che tendevano a configurare
l’utilizzo dei “beni comuni” come
usi civici, non estromettendo quindi
la prerogativa signorile e quella
regia.
Nella cultura diffusa, gli ultimi
secoli del Medioevo sono associati
ad un periodo di decadenza. La peste
nera del 1348 creò una percezione
collettiva molto negativa,
introducendo così il concetto di
“crisi”, termine probabilmente
abusato nella sua accezione negativa
nel corso degli studi storiografici
degli ultimi decenni. Le molteplici
“crisi” (demografica, economica,
monetaria, insediativa) che
colpirono sia l’Italia che l’Europa
nel XIV secolo rappresentarono un
fattore di rinnovamento dei quadri
sociali e anche dei paesaggi che si
erano formati in passato. Da come si
può intuire, la “crisi” del Trecento
oggigiorno può essere intesa anche
come una mera fase di transizione in
cui il processo di ristrutturazione
complessivo della società e del
paesaggio medioevale si rivelò
centrale. All’interno di questa
ultima categoria non possiamo non
riprendere il discorso sinora
affrontato sul villaggio.
A partire dal XIV secolo il
villaggio non fu più il protagonista
delle zone rurali, ma divise la
scena con altre realtà, quali
cascine, poderi, masserie e
fortificazioni isolate. Questa
perdita di centralità delle comunità
rurali si identifica oggigiorno in
storiografia con il paradigma dei
“villaggi abbandonati”. Le
classificazioni prodotte dalla
storiografia novecentesca,
soprattutto tedesca, non danno una
definizione efficace dei villaggi
abbandonati perciò si utilizzano,
ancora una volta, gli studi di Rao,
il quale definisce questo fenomeno
in questi termini: «con
l’espressione villaggi abbandonati
si debbano intendere tanto i
villaggi soggetti a dinamiche
congiunturali o strutturali di
spopolamento, tali da compromettere
la sopravvivenza degli stessi come
centri demici, quanto quelli il cui
livello di popolamento è percepito
dalle popolazioni e dai governi
dell’epoca come insufficiente al
mantenimento delle funzioni di
continuità abitativa e di unità
giurisdizionale e fiscale». In tale
assunto rientrano sia i villaggi
abbandonati per cause strutturali di
spopolamento, sia quelli il cui
livello di popolamento era ritenuto
insufficiente dai governi
dell’epoca, in quanto incapaci di
pagare tasse. Seguendo una
categorizzazione delle fonti a
disposizione degli studiosi, ci si
deve soffermare su due tipi di
testimonianze storiche, queste
ultime sono numerose in quanto
troviamo: scavi archeologici, liste
di villaggi, elenchi di fuochi ed
infine fonti che parlano
intenzionalmente dei villaggi
abbandonati. Tali fonti si possono
suddividere in due gruppi: il primo
ingloba quelle
“preter-intenzionali”, identificate
con quelle archeologiche, che si
possono rinvenire in un gran numero
nel Duecento, mentre l’altro gruppo
include fonti dette “intenzionali”,
ossia documenti che si soffermano
esplicitamente sugli abbandoni e di
cui si dispone una moltitudine di
testimonianze a partire dal 1350.
Inoltre, le diserzioni possono
essere divise al proprio interno sia
in base alla durata che al tasso di
spopolamento. Relativamente alla
durata, si può distinguere tra gli
abbandoni temporanei, che rimandano
ad un breve intervallo di tempo
all’interno del quale l’habitat
venne comunque sfruttato, e quelli
definitivi. Rao afferma che le fonti
intenzionali definiscono, in alcuni
casi, gli insediamenti con
l’aggettivo “inabitati”, poiché
fanno riferimento a migrazioni verso
borghi di nuova fondazione mentre,
nella maggior parte dei casi, la
documentazione fa riferimento a
centri demici in cui vi era una
scarsa presenza di abitanti.
Cronologicamente, le diserzioni si
assestano in un arco di tempo
abbastanza vasto, partendo
dall’ultimo quarto del Duecento fino
alla prima parte del Quattrocento
(1275-1450), «dunque nel periodo di
inversione della congiuntura e ben
prima dello scoppio della peste».
La rassegna storiografia europea
dal 1965 ad oggi: la nascita di un
tema europeo
Questo preambolo serve
principalmente per introdurre gli
schemi interpretativi della
storiografia europea riguardante i
villaggi abbandonati durante il XX
secolo e spiegare come,
conseguenzialmente, si fosse
approcciato ad un fenomeno di per sé
complesso. Pertanto, una rassegna
storiografica risulta essere
fondamentale per rappresentare la
nuova metodologia che si basa
sull’idea di percezione, che è
presente nell’ultima parte di questo
saggio.
Lo studio di questi processi
trasformativi del villaggio inizia
molto tardi. Difatti, nei primi
decenni del Novecento alcuni
studiosi francesi, inglesi e
tedeschi si cimentarono nell’analisi
delle possibili cause di questo
fenomeno. Si vennero a creare due
scuole di pensiero: quella francese
che si soffermava sulle
risistemazioni dell’habitat
ed evidenziava un fenomeno di
selezione degli abitati che era del
tutto indipendente dalla congiuntura
del Trecento; mentre quella
anglo-tedesca propugnava l’immagine
di una crisi agraria che si era
aggravata a causa della “crisi” del
XIV secolo. Gli studiosi Wilhelm
Abel (1904-1985) e Micheal Postan
(1899-1981) si concentrarono
prevalentemente sull’aspetto
economico, in particolare sui prezzi
e sui salari, attribuendo a questi
fattori la crisi che portò
all’abbandono dei villaggi. In
merito, la studiosa Klapisch-Zuber
scrive che questa generazione di
studiosi anglotedeschi si confrontò
con il marxismo, accostando quindi i
grafici della decrescita della
popolazione con i fattori economici
dell’epoca bassomedievale.
La svolta avvenne nel 1965, quando
fu pubblicato il volume collettivo
Villages désertés et histoire
économique che «segnò in materia
un non eludibile discrimine
storiografico». Tale opera offre una
ricostruzione del fenomeno di
respiro europeo, esauriente tanto
nel tracciare gli studi effettuati
sino a quel momento, attraverso una
rassegna di storiografie nazionali,
quanto nel proporre nuove linee
interpretative. Quest’opera
collettiva generò due orientamenti:
in primis favorì un altissimo
interesse verso i casi locali per
tutti gli anni Settanta e Ottanta
del XX secolo mentre, in secundis,
un effetto non propriamente
positivo, incise nella
cristallizzazione delle cause.
Infatti, relativamente a
quest’ultimo aspetto, nessuno
studioso sarebbe stato in grado,
negli anni successivi, di proporre
nuove ipotesi e nuovi percorsi al di
fuori delle piste aperte in quella
sede. Altro riferimento che ci
induce a riflettere è sicuramente la
scelta del titolo, poiché
Histoire Économique non rimanda
agli studi economici del primo
Novecento presente nelle opere di
Abel e Postan, ma risulta
influenzato dalla rivista delle
Annales: una storia della
cultura che si basava
sull’interdisciplinarità dei metodi
e dei settori di studio. Traslando
questo nuovo metodo al nostro
fenomeno, il futuro dei villaggi
abbandonati sarebbe stato
caratterizzato da una metodologia
interdisciplinare, capace «di
mettere in connessione lo studio
degli abbandoni con la storia dell’habitat
e del paesaggio».
Il volume è articolato in quattro
sezioni: la prima si occupa dei
problemi di metodo e delle
prospettive interdisciplinari; la
seconda si sofferma sulla svolta
avvenuta in Francia grazie al
contributo della rivista fondata da
Bloch, ossia un differente approccio
al fenomeno che poggiava sulla
interazione tra storia sociale e
geografia culturale; la terza
propone i nuovi studi condotti
nell’Europa Mediterranea e risulta
essere una sezione molto importante,
in quanto in quest’aree gli studi
erano stati del tutto minoritari
nella prima metà del XX secolo;
infine, la quarta sezione ospita i
bilanci relativi alle zone in cui
erano stati condotti studi più
approfonditi come l’Europa
settentrionale e scandinava.
Come si può intuire, il convegno e i
suoi atti ebbero l’arduo compito di
coordinare gli studi europei sui
villaggi abbandonati e in parte si
poté riscontrare un parziale esito
positivo. Le linee di fondo, che
avrebbero contraddistinto gli studi
sul fenomeno dopo il 1965, furono:
· In primo luogo, una ridimensione
del ruolo della peste del 1348 nelle
diserzioni e un conseguente
approccio sulle dinamiche
insediative basato sul rapporto fra
abitanti e habitat.
· Una tendenza ad adottare una
“policausalità orizzontale” per
spiegare le diserzioni.
· Concetto di differenziazione del
fenomeno per aree: gli studi post
1965 avrebbero insistito, in
sostanza, sulla necessità di
studiare le diserzioni nelle
svariate regioni dei paesi europei.
· Un ultimo aspetto riguardante la
trasformazione nell’approccio alle
fonti: per quanto concerne la
documentazione scritta, furono
intraprese riflessioni sia sulla
qualità sia sulla capacità di
fotografare in maniera esauriente
l’insediamento medievale. Tale
proposta portò all’interno delle
opere un aspetto più critico e meno
filologico delle fonti.
Quindi con questa pubblicazione le
cause delle diserzioni aumentarono:
non solo la peste del 1348 e la
crisi demografica, ma anche la
guerra, una fiscalità oppressiva ed
altro ancora. Infatti a partire dal
1965 avanzava l’ipotesi, alquanto
valida, che gli abbandoni non
riguardassero solo il Trecento, ma
anche epoche di espansione o, come
le si è definite precedentemente, di
ristrutturazione; per esempio, la
costruzione di un borgo nuovo che
assorbiva un abitato vicino,
decretandone la scomparsa. Nel corso
del Novecento pure gli archeologi si
interessarono ai villaggi
abbandonati, prestando particolare
attenzione alla forma
dell’insediamento, poiché questi
siti rappresentavano un grande punto
di osservazione, dato che,
successivamente, non sarebbero stati
intaccati dalle trasformazioni post
medievali. Allo stesso tempo, è
importante ricordare come gli
storici si fossero interessati allo
studio dei villaggi abbandonati solo
negli ultimi cinquant’anni,
probabilmente per la scarsità di
fonti a disposizione e per la loro
eterogeneità.
L’epicentro di questo cambiamento
metodologico fu la Germania e in
particolare grazie a due opere:
Crisi agrarie di Abel e
Studien zur Wüstungsfrage im
Frankischen Altiedelland zwischen
Rhein, Mosel und Einfelnordrand
di Janssen. La prima edizione
dell’opera di Abel fu pubblicata nel
1935 e avanzò l’idea secondo cui le
diserzioni erano state causate dalla
congiuntura economica del Trecento.
Molto importante fu, invece, la
seconda edizione, pubblicata nel
1966, in cui si possono riscontrare
approcci innovativi al fenomeno, in
quanto gli studi si estendevano
all’intero continente e soprattutto
non era più presente il concetto di
monocausalità che era sostituito da
una più attenta considerazione del
fenomeno, in questo caso
regionalizzato. L’altra opera,
composta da Janssen nel 1975, si
sofferma sulle zone dell’Eifel,
altopiano della Germania
occidentale. Anche in questo lavoro
è possibile notare un esplicito
richiamo alla policausalità
orizzontale che emergeva negli
abbandoni, poiché afferma che questo
fenomeno era più visibile in quelle
zone più deboli strutturalmente. Con
questo ragionamento è chiaro come le
cause fossero riconducibili ad
epidemie, guerre, migrazioni e
secolarizzazione dei beni
ecclesiastici e, di conseguenza,
seguendo queste coordinate si può
dire che si prestò molta più
attenzione alla contestualizzazione
del fenomeno. Inoltre, in questa
classificazione il concetto di
“ristrutturazioni”, largamente
diffuso negli studi dal 2010 ad
oggi, sarebbe stato già ampiamente
presente nelle dinamiche dei lavori
post 1965, anche in quei paesi in
cui, prima della “cesura
storiografica”, si era prestata
molta più attenzione alla storia
economica in senso stretto.
Come presentato dalla breve sintesi
dell’opera Villages désertés et
histoire économique, la Francia
è la protagonista della seconda
sezione, all’interno della quale vi
è un evidente riferimento agli studi
archeologici e all’influenza delle
Annales. Negli anni Sessanta
e Settanta, la storiografia e
l’archeologia francese apparirono
dunque molto attive nell’ambito dei
villaggi abbandonati. Più in
generale, bisogna citare i
contributi significativi in questo
periodo di Jean-Michel Pesez
(1929-1998), che sottolineano sia la
policausalità del fenomeno, con un
interesse crescente per la
ricostruzione della struttura del
villaggio, sia soprattutto
un’analisi critica nei confronti
delle fonti. L’altro contributo è
quello dello studioso Pierre Toubert,
Latium, che propone,
attraverso punti di convergenza,
ipotesi che sarebbero state presenti
nel lavoro di Janssen del 1975.
Infatti, secondo lo studioso
francese, esiste un rapporto
inversamente proporzionale tra
abbandono e crisi e un intenso
processo di diserzione durante
l’apogeo medievale. Prima di
giungere alla storiografia italiana,
si deve far riferimento ad un caso
molto particolare, quello del Regno
Unito, in cui si rilevava
un’impermeabilità alle correnti
francesi e tedesche poiché gli studi
archeologici erano già
abbondantemente affermati e,
soprattutto, il tema dei Lost
Villages aveva riscontrato un
enorme successo. All’interno delle
opere di maggior fama, già prima del
1965, erano state menzionate
questioni come la «piccola taglia
degli insediamenti colpiti, la
sopravvivenza delle parrocchie e
delle istituzioni ecclesiastiche nei
villaggi abbandonati». È chiaro che
questi risultati e studi sarebbero
stati riproposti negli altri paesi
solo dopo il 1965.
In Italia, nel corso del Novecento,
studiosi come geografi, storici e
archeologi, sia italiani che
stranieri, si cimentavano nello
studio dei villaggi abbandonati.
Tale interesse però si mostrò con
scarsa sensibilità e risultati sino
al 1965, anno in cui, com’è noto
oramai, venne pubblicato il volume
collettivo a Monaco di Baviera.
Resta comunque doveroso citare
alcuni studi affrontati prima della
fatidica data: ad esempio, quello di
Giuseppe Salvioli (1857-1928) che,
nel 1913, scrive che i villaggi
sorsero dopo la scomparsa delle
villae, delle curtes e
delle zone isolate mentre, la loro
successiva scomparsa, sarebbe
avvenuta senza lasciar traccia
quando le popolazioni rurali
tornavano ad abitare i fondi che in
precedenza avevano coltivato.
Secondo Giovanni Tabacco
(1914-2002), medievista, questo
lavoro non fu capace di generare un
nuovo ambito di studi, sia per la
mancata sistematicità delle sue
ricerche, sia per essersi limitato
alle sole foto. Probabilmente la
responsabilità di tale sterilità
italiana non è da attribuire al solo
Salvioli poiché furono i geografi ad
occuparsi dei villaggi abbandonati,
in quanto essi ebbero la preminenza
nel gruppo interdisciplinare con
storici e archeologi. Altri studi
considerevoli per l’epoca sono il
lavoro di Vincenzo Epifanio,
presentato durante l’XI congresso
geografico italiano tenutosi a
Napoli nel 1930, in cui si servì dei
registri angioini per arrivare ad
una definizione degli abbandoni di
villaggi collocati sulle coste
meridionali nel XIV secolo, le cui
cause risultarono essere disordini
sociali e politici del regno di
Roberto d’Angiò (1277-1343). L’altro
lavoro, che presumibilmente
simboleggiò già una svolta, fu
composto da Elio Migliorini
(1902-1988) nel 1951, che introdusse
una visione diacronica del fenomeno,
basandosi su fonti scritte,
archeologiche ed infine su foto
scattate da un aereo. Un punto di
convergenza di questi lavori è
sicuramente la causa di questi
fenomeni e come quest’ultima
scaturisse da una mescolanza di
fattori antropici e naturali. La
prima categoria includeva epidemie,
guerra e migrazioni, mentre la
seconda, alluvioni, frane, cicloni,
torrenti e variazioni climatiche.
Anche se, come afferma Settia,
spesso le cause proposte con
maggiore costanza furono quelle
fisiche, come dimostra il congresso
svoltosi Bari nel 1957, dove le
uniche cause antropiche furono
quelle congiunturali, vale a dire
guerre ed epidemie.
Il primo studioso ad interessarsi
dei villaggi abbandonati, dopo il
1965, fu Giovanni Tabacco, il quale,
nel saggio già citato, denunciò il
totale disinteresse degli storici
verso il fenomeno e, soprattutto,
propose un concreto lavoro di gruppo
interdisciplinare. Così iniziarono
grandi lavori di studiosi italiani,
come Giovanni Cherubini (1936-2021)
ed Elio Conti (1925-1986), ma il
vero cambio di passo avvenne grazie
a studiosi stranieri. Il primo di
questi fu Philip Jones (1921-2006)
che dedicò, nel 1964, un’opera alla
storia agraria medievale italiana,
individuando nell’instabilità
politica e nell’oppressione fiscale
la causa delle diserzioni. Un
percorso simile fu condotto da
Klapisch-Zuber e da John Day
(1924-2003), i quali proposero
diverse concause, a partire dalle
migrazioni e dalle guerre per le
diserzioni romane e sarde. Questi
autori cercarono di allontanarsi
dalla relazione
abbandoni-congiuntura, propugnando
ipotesi differenziate basandosi sul
contesto in cui si erano costruiti i
villaggi. Alla luce di ciò, questa
visione mostra due fattori: il primo
indica una forte influenza dei
Villages désertés et histoire
économique e il secondo è che
era difficile condurre indagini
“nazionalizzate” sulla penisola
italiana sebbene, dopo il 1965, in
Italia si assistesse ad una
brillante stagione di studi sul
fenomeno delle diserzioni che
coinvolgevano anche Istituti
universitari come quello di Genova
che avviò, tramite base
interdisciplinare, un repertorio di
sedi abbandonate in Liguria.
Inoltre, un altro contributo degno
di nota, fu quello di John Day che,
nel 1973, cercò di inventariare
tutti i villaggi abbandonati in
Sardegna tra il XIV e il XV secolo.
Aspetto molto interessante è che in
questi lavori emergono diverse
cause, rafforzando così quello che è
il concetto di policausalità
orizzontale. Questa rassegna
storiografica italiana non mostra
soltanto un forte interesse verso il
paradigma dei “villaggi
abbandonati”, ma, anche, alcune
problematiche metodologiche.
Infatti, secondo Klapisch-Zuber, la
storiografia italiana si soffermava,
in questi anni, troppo sul mero
concetto di scomparsa, ossia «del
solo aspetto negativo della storia
della popolazione e dell’habitat».
Sulla scorta di questa ultima
citazione si può giungere all’idea
di “percezione”, e di come il tema
delle risistemazioni dell’habitat
abbia riscontrato una certa
rilevanza negli studi dei villaggi
abbandonati durante questi ultimi
anni.
Dopo gli anni Settanta e Ottanta,
soprattutto in Italia, gli studi si
interruppero e Pierre Toubert
osserva che la ricerca aveva cessato
«di considerare il problema delle
diserzioni come un oggetto storico
in sé privilegiato per occuparsene
solo come un elemento fra tanti
altri delle dinamiche
dell’insediamento nel suo insieme».
Quindi, la svolta in ambito
nazionale avvenne nel 2010, quando
studiosi come Rinaldo Comba, Enrico
Lusso e Riccardo Rao ripresero e
rinnovarono il “vecchio tema” dei
villaggi abbandonati. In
particolare, in questi ultimi anni,
si assiste ad una forte convergenza
nello studiare centri demici a bassa
densità demografica, poiché in essi
si può riscontrare una più alta
percentuale di diserzioni. Questi
studi hanno dimostrato che, sebbene
i villaggi abbandonati fossero
diffusi in tutta Italia, vi era
un’intensità differente a seconda
delle zone. Fondamentalmente, nelle
aree più strutturate e con più alta
densità demografica, come Milano,
Firenze e la Liguria, non si
assisteva di frequente a tale
fenomeno; invece, in quelle zone in
cui vi fu una certa instabilità
politica e sociale, come la
Sardegna, il Piemonte e alcuni
contesti del Mezzogiorno, il
fenomeno delle diserzioni era
abbastanza diffuso.
All’interno del saggio si è fatto
riferimento al concetto di
percezione che è al centro degli
studi condotti proprio negli ultimi
anni. Infatti, nel 2015, venne
pubblicata un’opera di Riccardo Rao,
largamente citato, che al meglio
rappresenta i nuovi studi condotti
sui territori e come la storiografia
italiana abbia iniziato ad
utilizzare il concetto di
“percezione”, ossia lo studio su
come gli abitanti percepissero
l’ambiente circostante.
L’opera chiamata in causa è
intitolata I paesaggi dell’Italia
medievale, la quale cerca di
ripercorrere tutte le trasformazioni
dei paesaggi attraverso un approccio
che consente di mettere in relazione
due ambiti: storia sociale e
geografia culturale.
Rao afferma che mediante questa
interazione si può raggiungere una
comprensione più profonda delle
società del passato. Questi studi
stanno progredendo anche grazie
all’intervento dell’archeologia
medievale che ha modificato
l’approccio verso questi fenomeni
poiché, oggigiorno, si può sapere
con sicurezza, per esempio, come si
alimentassero gli uomini, quanti
anni avessero in media e quali
alberi piantassero in determinate
aree. Questi approcci risultano
essere ancora più determinanti per
via della scarsità e della
eterogeneità delle fonti scritte. Un
altro concetto, che merita di essere
approfondito, è quello riguardante
l’interdisciplinarità dei metodi. Il
primo risulta essere quello
regressivo, che consiste in una
ricerca di punti di ancoraggio nelle
fonti di diverse epoche e che
consentono di tracciare le
principali linee relative dell’habitat
attraverso il lungo periodo,
recuperando, quindi, gli elementi di
contestualizzazione su un arco
cronologico molto vasto. Il secondo
è quello morfogenetico: esso
riguarda lo studio delle forme
geografiche e ha come punto di forza
la capacità di lettura diacronica.
Il penultimo metodo, probabilmente
quello meno apprezzato dagli
storici, si basa sul paesaggio come
realtà dinamica in cui specie
vegetali e animali interagiscono
secondo regole che sono determinate
dalla scienza: il riferimento è al
metodo dell’ecologia storica.
L’ultimo, infine, è quello
dell’archeologia medioevale di cui
già si è fatta menzione.
Sulla scorta di questa rapidissima
digressione metodologica, si può
definire il paesaggio come una
struttura che «ha dunque non
soltanto una dimensione oggettiva,
ma soprattutto culturale e
soggettiva. Esso si realizza nella
sua percezione: è ciò che si vede,
sicché perché esista deve essere
presente almeno uno spettatore».
Questa definizione apre al concetto
di “percezione”, ossia come le
popolazioni percepivano lo spazio
circostante.
La caratteristica comune del
paesaggio in Italia era «il suo
essere collettivo e locale», ovvero
includeva, superando gli stereotipi
autarchici del Medioevo, un processo
dinamico e di continui mutamenti.
All’interno della ricostruzione
proposta dallo storico Rao, ma anche
degli altri studiosi sopracitati, i
concetti di “dinamismo” e “fluidità”
erano alla base dell’influenza
reciproca tra società e paesaggio
medievale. Anche in questo caso
viene meno l’immagine stereotipata
del Medioevo come un’epoca oscura ma
all’opposto viene proiettata sullo
sfondo la rappresentazione di una
società mobile e di un paesaggio che
si riplasmava dopo incessanti
trasformazioni compiute dalle
popolazioni locali.
Proprio in riferimento a
quest’ultima riflessione, si deve
intendere il paesaggio come una
risorsa da sfruttare. In
particolare, esso venne ritenuto
valido come protezione per i
castelli oppure come fonte per
necessità alimentari, vale a dire
che «per secoli gli uomini hanno
attuato un processo selettivo
sull’ambiente, attirando ed
espandendo le specie ritenute utili,
per esempio, alcune specie arboree,
come il castagno, capaci di nutrire
le popolazioni contadine». Di
conseguenza, il paesaggio va
studiato attraverso le azioni
perpetrate dalle popolazioni in un
arco di tempo molto ampio e, quindi,
sembrerebbe avere maggiore
preminenza il metodo regressivo a
cui si è accennato in precedenza.
In conclusione, applicando questa
metodologia e questa definizione di
paesaggio, si può considerare come
valida l’ipotesi secondo cui ci sia
stata una reazione del quadro
insediativo bassomedievale e, di
conseguenza, una frammentazione
della cornice abitativa con nuovi
attori insediativi intermedi. Quindi
emerge, fondamentalmente, una nuova
maglia insediativa che fu
caratterizzata anche dalla perdita
di centralità del villaggio.
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