[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


contemporanea

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STORIA DI 43 PATRIOTI
LA fucilazione di verbania del giugno 1944

di Francesco Marcelli

 

È il 20 giugno 1944 e un gruppo di partigiani viene fatto sfilare tra le vie di Verbania prima dell’esecuzione. Per quarantatre persone è l’inizio della fine.

 

La foto che segue è stata scattata a Verbania, un paese che si trova in Piemonte e si affaccia sulla riva occidentale del Lago Maggiore. I protagonisti di questa immagine sono quarantatre partigiani catturati dai nazifascisti che si apprestano a essere condotti al macello. Ad oggi non sappiamo chi fece questa foto, ma una cosa è certa, chi la scattò era qualcuno che era stato incaricato dalle autorità fasciste. Infatti si può ben notare lo scopo propagandistico di quest’immagine.

 

 

 

I primi due individui della colonna sono costretti a portare un cartello che ha il preciso fine di metterli in ridicolo e mostrare alla popolazione locale che quelli che si ritengono i liberatori della patria non sono altro che dei banditi malconci. Il cartello infatti riporta questa precisa scritta: “Sono questi i liberatori D’ITALIA oppure sono i banditi?”. Siamo quindi davanti a un chiaro tentativo di denigrare e umiliare questi martiri della Resistenza, delegittimandoli dal ruolo di eroi patriottici.

 

Un altro aspetto importante da notare è anche lo stato in cui essi si trovavano. Tutti quanti sono abbastanza malconci e indossano vestiti usurati. Sono visibilmente stanchi, specie il primo individuo a sinistra della colonna che regge il cartello. Infatti, come riportato dalle testimonianze in nostro possesso (Orazio Barbieri, I sopravvissuti), un po’ per il rastrellamento e un po’ per le torture ricevute, erano tutti quanti sfiniti.

 

Volutamente erano stati fatti sfilare per Verbania prima di arrivare nella piana di Fondotoce dove c’era un plotone di esecuzione pronto lì ad aspettarli. È impressionante il fatto che, malgrado questi partigiani dovessero essere giustiziati di lì a poco, ci sia stata comunque la volontà di umiliarli fino all’ultimo davanti agli occhi di mogli, figli, parenti e amici. Nonostante tutto però, è interessante notare che, quella che doveva essere una foto fatta con il preciso obiettivo di mostrare alla popolazione che fine fa la gente che abbraccia le armi contro il regime, si è trasformata nel giro di poco tempo nel simbolo del martirio partigiano davanti alle barbarie nazifasciste. La Storia infatti ci insegna che il significato di una foto può spesso mutare molto rapidamente fino a cambiare completamente.

 

È quest’immagine una chiara testimonianza del livello di grande crudeltà a cui si era arrivati in quel periodo nell’Italia Centrosettentrionale. Periodo nel quale, come sottolinea Claudio Pavone (Una guerra civile), infuriava una guerra che è stata sia patriottica, sia civile, sia di classe. In tutto questo “la violenza cruenta sta al centro di questo discorso”, ripete lo storico. Non si può infatti comprendere il fenomeno della Resistenza, senza prima capire bene a che grado di radicalità si era giunti in quell’ultima fase del conflitto.

 

Nella foto, oltre ai quarantatre partigiani, appaiono anche tre carnefici, tutti e tre tedeschi. Due all’estrema destra e l’altro a sinistra in fondo alla colonna di prigionieri. Stanno scortando a piedi a Fondotoce questo corteo di “vittime sacrificali”, immolate al fine di assicurarsi la sottomissione della popolazione attraverso il terrore. Infatti di lì a poco sarebbe stato perpetrato uno dei tanti eccidi nazisti di quella calda e sanguinosa estate del 1944.

 

Erano circa le sei di pomeriggio quando giunsero nel luogo dove ad aspettarli c’era la morte. Furono fatti sdraiare per terra e poi con una pioggia di proiettili furono eliminati tre per volta fine all’ultimo uomo. “I Tedeschi compivano l’operazione come se fossero a un mattatoio, e i partigiani non avevano gesti di ribellione, preoccupati soltanto di morire con dignità” (Orazio Barbieri, I sopravvissuti).

 

Tutto questo avvenne sotto gli occhi della popolazione civile, che era stata chiamata dai Tedeschi con lo scopo di mostrare a tutti che fine spettava a quelli che loro chiamavano con disprezzo “i banditi”. I lamenti di parenti e amici dei condannati si intrecciavano con le ciniche risate dei nazisti in procinto di eliminare gli ultimi partigiani che erano rimasti solo feriti. Uno spettacolo straziante.

 

Soffermiamoci adesso in particolare su due persone presenti in quel gruppo di partigiani. La prima è una donna, l’unica del gruppo. La figura che si vede nella prima fila del corteo, esattamente sotto il cartello diffamatorio, è Cleonice Tommasetti, una donna di trentadue anni che era stata staffetta partigiana. Una persona che in quei momenti bui “diede coraggio” agli altri sventurati con il suo esempio di donna decisa.

 

Infatti, secondo quanto raccontato da Carlo Suzzi in un’intervista del 1983 presente nell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza nel novarese, ella addirittura poco prima dell’esecuzione esclamò: «Facciamo vedere a questi sgherri che sappiamo morire da Italiani!».

 

Una donna con un forte senso di dignità, che conservò per tutto il tragitto fino alla morte, malgrado la crudele opera denigratoria dei nazisti. Proviamo infatti solo per un istante a immaginare l’imbarazzo che doveva provare per il fatto di essere l’unica donna del gruppo, per giunta in prima fila al centro e per avere costantemente sopra la sua testa quell’umiliante cartello. Nonostante ciò, Cleonice Tommasetti con la sua incredibile forza d’animo è stata per i suoi compagni di sventura, così come anche per noi oggi, un grande esempio di dignità umana davanti alla morte.

 

La seconda persona su cui vorrei soffermarmi è invece un ragazzo di soli diciassette anni presente nella seconda fila sul lato destro del corteo. Il suo nome è Carlo Suzzi, l’unico sopravvissuto della strage, che quindi per questo motivo sarà soprannominato il “Quarantatre”, essendo tutti gli altri quarantadue compagni morti in quell’occasione (Adolfo Mignemi, Storia fotografica della Resistenza).

 

Suzzi infatti racconta, sempre nell’intervista del 1983, che, al momento dell’esecuzione, lui e altri due compagni si strinsero in un abbraccio fraterno gridando insieme: «Viva l’Italia!».

 

Poi giunse inesorabile la raffica di proiettili che li colpì da parte a parte. Suzzi cadde subito a terra come gli altri, con la differenza però che quelli che gli stavano vicino erano morti, lui invece era stato solo ferito. Non appena compreso cosa era accaduto, egli “rimase immobile” sentendo uno dopo l’altro “i colpi di grazia che (i Tedeschi) davano agli altri”.

 

A un certo punto un soldato gli si avvicinò e così racconta l’accaduto lo stesso Suzzi nel già citato libro di Barbieri: «Trattenni il respiro, ma dentro il cuore mi batteva forte. Attesi. Avevo l’occhio sempre aperto. Il tedesco mi fu sopra a gambe divaricate. Lo vedevo di sotto in su. Vidi il foro nero della canna della pistola che teneva abbassata. Sparò sul ragazzo di Varese. Se ne andrà, pensai. Invece sostò ancora, sentii che toccava a me. Trattenni il fiato, pronto a morire. Il colpo partì. Sentii un bruciore irresistibile al capo e uno spruzzo di terra mi cadde sul viso; la pallottola aveva sfiorato solo la parte cutanea del capo e si era conficcata al suolo. Sparò ancora, poi rimise la pistola nella fondina e se ne andò».

 

Qualche millimetro più in là e la Storia sarebbe andata differentemente. Non appena i carnefici se ne andarono, Suzzi fece segno ai civili che avevano assistito all’esecuzione. Essi subito capirono che c’era un sopravvissuto e di conseguenza lo aiutarono. Quando si riprese, senza pensarci due volte, tornò sulle montagne a combattere.

 

Il fato volle così che quel ragazzo riuscisse a salvarsi e a continuare la sua esistenza per altri settantaquattro anni. Morì infatti all’età di novantuno anni in Thailandia di morte naturale. Qualcosa sfuggì all’efficiente e spietata macchina repressiva nazista, nonostante tutto infatti, la vita era stata più forte della morte.

 

Si conclude così la storia di questi martiri della Resistenza che pagarono con il loro stesso sangue il prezzo che la Libertà esige. Libertà che sgorga dal sacrificio di migliaia di uomini e donne come loro, che combatterono e morirono con dignità per la patria. Libertà sopra la quale si regge la nostra attuale democrazia.

 

Mi sento quindi di rispondere a quell’infamante domanda retorica del cartello che i partigiani stessi sono stati costretti a portare, dicendo che questa è la storia di 43 “liberatori d’Italia” e quindi di 43 patrioti.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]