In un precedente articolo apparso su
questa rivista ormai oltre due anni
orsono il dr. Malo ricordava come si
sia ormai diffusa una nuova
interpretazione dell’occupazione
austriaca di Venezia, per troppo
tempo legata all’orientamento
risorgimentale che la vedeva solo
come un dominio straniero oppressivo
e illiberale. Si riprende ora
quell’argomento con l’intento di
rivederne alcuni aspetti.
Riepilogando per sommi capi le
vicende precedenti, nel 1797, sotto
la spinta della campagna d’Italia di
Napoleone, la Repubblica di Venezia
era caduta, e al suo posto si era
costituita una Municipalità
Provvisoria, controllata dai
francesi, che, dopo aver
saccheggiato molti dei tesori della
città, la cedeva col resto del
Veneto all’Austria al posto della
Lombardia (trattato di Campoformio
del 17 ottobre 1797). Gli austriaci
sarebbero rimasti fino al trattato
di Presburgo (26 dicembre 1805),
grazie al quale Venezia tornava ai
francesi, che governarono fino alla
caduta di Napoleone nel 1814. Erano
stati anni travagliati dalla guerra
quasi costante fra la Francia e le
altre potenze europee, e i governi
che si succedettero, di per sé poco
inclini a trattare con particolare
riguardo i territori di recente e
incerta conquista, avevano avuto
anche poco margine di manovra dal
punto di vista economico. La
popolazione non poteva quindi che
essere scontenta della situazione.
L’avvento dell’occupazione austriaca
ebbe quindi il vantaggio di
arrivare, ambedue le volte, dopo un
dominio francese, prima dopo i pochi
mesi di pura rapina nel 1797, poi
dopo gli 8 anni del Regno Italico,
anch’esso complessivamente
fallimentare. Dopo il 1806 infatti,
Napoleone mostrò in qualche modo
l’intenzione di dare sviluppo alla
città e alle sue attività,
soprattutto il porto, ma le
iniziative furono contraddittorie.
In particolare, il blocco navale
contro l’Inghilterra e i pesanti
prelievi fiscali non permettevano
all’economia della città di
decollare. Inoltre, la coscrizione
obbligatoria metteva in crisi, sia
economicamente che socialmente, le
famiglie. Venezia veniva subordinata
a Milano, divenuta capitale del
Regno Italico sotto controllo
francese. Con la soppressione delle
corporazioni religiose veniva anche
sottratta una parte del patrimonio
artistico, indirizzato in alcuni
casi a Milano, quando non
semplicemente portato in Francia.
Alla fine del dominio francese la
città era prostrata economicamente,
socialmente e moralmente. Il ritorno
degli austriaci fu accolto con
soddisfazione, ma era abbastanza
naturale che il cambio di regime
fosse visto con favore, se non altro
per lesperanze che la situazione
migliorasse.
Dopo la caduta del napoleonico Regno
d’Italia, si potevano prospettare,
almeno in teoria, quattro possibili
scenari per Venezia: il ripristino
come capitale di uno stato sovrano
(nell’ottica del principio di
legittimità deciso nel Congresso di
Vienna) che era l’ipotesi nel
complesso più desiderata; il ruolo
di guida di uno stato sotto tutela
austriaca; l’assorbimento come
provincia dell’Impero austriaco;
oppure l’unione alla Lombardia in un
unico stato sotto controllo
austriaco.
Alla fine il Congresso optò per
quest’ultima soluzione, in fondo la
meno gradita ai veneziani, e il 7
aprile 1815 fu istituito il Regno
Lombardo-Veneto. Anche a uno sguardo
più equilibrato rispetto a quello di
stampo “risorgimentale”, non può
sfuggire che il regno si configuri
quasi subito come uno stato
inconsistente e senza una reale
autonomia, che restò sostanzialmente
formale. Venezia torna sede di
governo, come co-capitale del Regno,
ma si tratterà di un privilegio con
poca sostanza, restando essa una
capitale periferica come molte altre
città dell’impero.
Il Vicerè non era abilitato a
governare e il potere effettivo era
delegato ai due Governatori, uno per
ciascuna delle due capitali, e ai
propri Consigli di Governo. Questi
erano nominati e dipendenti da
Vienna e comunicavano direttamente
con la cancelleria di stato. Le
Congregazioni Centrali (organismi
amministrativi elettivi) di Milano e
Venezia e quelle provinciali erano
fondamentalmente organi consultivi
relativamente alle spese locali.
Inoltre rispecchiavano le esigenze
dei grandi possidenti, visto che
l’eleggibilità era basata sul censo.
Fin dall’inizio, quasi la metà del
personale di vertice
dell’amministrazione, sia civile che
giudiziaria, proveniva da altre
regioni della monarchia. Questo per
la volontà sorta in quegli anni di
trasformare l’Impero in uno stato
più centralizzato e omogeneo, senza
però che l’idea di Stato ancora
esistesse dal punto di vista
costituzionale.
Detto questo, va certo affermato che
la Restaurazione nel Lombardo-Veneto
era stata relativamente moderata. La
transizione verso la nuova gestione
venne attuata in modo graduale, per
evitare una opposizione popolare
eccessiva. Non vennero restituiti i
privilegi al clero e alla nobiltà,
fu incoraggiato l’insegnamento
primario e secondario e si cercò di
rendere la presenza austriaca il
meno invadente possibile. Venne
inoltre evitato il tentativo di
omologare l’elemento etnico e
culturale italiano a quello
austriaco, lasciando l’italiano come
lingua ufficiale.
Tuttavia, fin dai primi anni, le
stesse relazioni dei Governatori
evidenziarono le difficoltà di
assimilazione delle province
italiane.
L’Austria, contrariamente alle
iniziali promesse, mantenne la
coscrizione obbligatoria, portandola
anzi fino a 8 anni. I coscritti
italiani prestavano inoltre servizio
in altre zone dell’impero, mentre
c’era un significativo corpo di
spedizione straniero (specie in
Lombardia).
Dal punto di vista politico,
l’Austria puntò soprattutto
suaccentramento e controllo. La
burocrazia, molto precisa e
puntigliosa, si mostrò però lenta e
farraginosa, a causa della mancanza
di responsabilizzazione decentrata.
Il lavoro burocratico era ingente ma
sproporzionato rispetto agli
effettivi risultati.
Il sistema poliziesco, che agiva
alle dirette dipendenze di Vienna,
era stato dipinto a tinte
eccessivamente fosche da una certa
storiografia,ma era comunque
piuttosto pervasivo. Sul piano
penale e politicodivenne
particolarmente rigido, specie dopo
i moti del 1821, sebbene poi le
sentenze venissero spesso attenuate
in fase esecutiva. Anche sul piano
civile, la polizia manteneva un
controllo ossessivo, estendendo la
propria sorveglianza ad altre
strutture amministrative per
prevenire qualsiasi rischio di
politicizzazione della società
civile.
Dal punto di vista fiscale, il
Lombardo-Veneto fu sfruttato a
vantaggio della monarchia, con
l’obiettivo di ridurre il cronico
deficit dell’Impero. Tuttavia,
sebbene la pressione fiscale fosse
significativamente più alta rispetto
ad altri distretti, sia in termini
assoluti che, soprattutto, in
rapporto a superficie e popolazione,
va anche detto che, considerando la
spesa pubblica più elevata destinata
a questa regione, il bilancio
risulta più equilibrato. La
tassazione era però squilibrata a
danno delle classi popolari, vista
la prevalenza (2/3 del gettito)
delle imposte indirette su quelle
dirette.
Dal punto di vista delle attività
economiche, mentre agli imprenditori
milanesi si concesse di sviluppare
un’economia industriale, il Veneto
venne visto prevalentemente come un
centro di produzione agricola per il
rifornimento del mercato austriaco.
Industrialmente i forti dazi che lo
separavano dal resto dell’impero
favorivano soprattutto i centri
manufatturieri boemi, moravi e
viennesi.
Per quanto riguarda più
specificamente Venezia, l’attività
portuale aveva subito un tracollo
dal quale sarebbe stato difficile
riprendersi, soprattutto
considerando la preferenza di Vienna
per Trieste come porto principale
dell’Impero. In questo contesto,
anche le buone reti di
comunicazione, tra cui il ponte
ferroviario inaugurato nel 1846,
ebbero un’utilità non così
significativa nel rilancio
dell’attività economica.
Nel 1830 l’istituzione del porto
franco fu estesa a tutta la città,
favorendo una certa ripresa delle
attività mercantili. Tuttavia, il
valore complessivo del traffico
commerciale rimase pari a non più di
un quarto di quello registrato a
Trieste. Inoltre, si trattava per lo
più di traffico in entrata, rendendo
Venezia soprattutto un porto di
transito, una condizione che,
persino nell’ultimo periodo di
decadenza della Repubblica, si era
sempre cercato di evitare.
Nonostante queste difficoltà, a
Venezia si sviluppò ugualmente un
certo fermento imprenditoriale, che
tentò di adattarsi ai processi
industriali dell’epoca. Il vetro di
Murano si affermò come il principale
prodotto della città, trovando
mercato in tutta Europa. Anche il
numero di lavoratori impiegati nelle
manifatture rimase significativo,
sebbene molti settori, come quello
tessile, subissero un drastico
declino: dai 7.000 lavoratori
tessili attivi nel 1783, si era
scesi a soli 600 nel 1845.
Come sede del sistema burocratico e
amministrativo del Veneto, Venezia
cominciò progressivamente a
trasformarsi in una “città del
terziario”. Inoltre, lo sviluppo del
turismo, sebbene ancora limitato a
un’élite, offrì un contributo
positivo all’economia cittadina, con
afflussi annuali pari alla
popolazione totale della città.
Tra il 1845 e il 1846 si verificò
una grave crisi economica, causata
da raccolti disastrosi. Questa
difficile congiuntura si intrecciò
con il contesto politico,
caratterizzato da continue tensioni
tra la popolazione e le truppe di
occupazione, contribuendo a creare
un clima di crescente malcontento,
preludio ai moti del 1848. Tra
questi spicca la rivoluzione
veneziana, che portò alla
proclamazione di una nuova
Repubblica. Quest’ultima, pur nella
sua breve esistenza, avviò
iniziative diplomatiche
internazionali e,curiosamente,fu
riconosciuta dagli Stati Uniti
d’America. La rivoluzione veneziana,
spesso trascurata dalla storiografia
non locale, garantì la libertà della
città per quasi un anno e mezzo,
rendendo Venezia, fra le molte città
europee in rivolta, l’ultima a
capitolare.
L’eroica resistenza era costata
molto, anche dal punto di vista
economico, e le condizioni vennero
aggravate dai provvedimenti punitivi
dei primi anni della nuova
occupazione austriaca. Solo dopo il
1854, con la nomina a governatore
generale del Lombardo-Veneto del
fratello dell’imperatore Arciduca
Massimiliano, la situazione
migliorò, e la condizione economica
della città divenne, se non florida,
accettabile. Massimiliano tuttavia
fallì nella sua ricerca di maggiore
autonomia, e nel 1859 rinunciò
all’incarico. Nello stesso anno
scoppiò la guerra contro i
franco-piemontesi e l’Austria perse
la Lombardia e il controllo che
ancora manteneva sulla penisola.
Gli ultimi anni degli austriaci nel
Veneto videro qualche iniziativa
amministrativa a sostegno della
Congregazione Centrale, peraltro del
tutto vana vistal’unione anche di
questa regione all’Italia nel 1866.
Come si vede, il governo austriaco
emerge da questa analisi in modo
variegato e con toni chiaroscurali.
Dal punto di vista amministrativo,
le autorità imperiali non
governarono male, e va respinta,
come già ricordato, la “leggenda
nera” nata dalla storiografia
risorgimentale. Tuttavia, restò pur
sempre un “governo straniero”,
accentratore e per alcuni aspetti
repressivo, solo in parte disposto a
sostenere popolazioni che si
sentivano esse stesse un corpo
estraneo all’Impero. Al di là di
qualche entusiasmo momentaneo,
dovuto soprattutto al ricordo di
amministrazioni ancora peggiori, non
si può dire che ci sia stata
un’ampia adesione allo Stato
austriaco, quanto piuttosto una
forma di adattamento passivo.
Questo non significa che fin
dall’inizio fossero diffusi valori
“patriottici” e unitari, che almeno
a Venezia furono comunque presenti
in modo significativo, ma
sicuramente era sempre stato
relativamente comune il desiderio di
staccarsi dall’Impero.
Riferimenti bibliografici