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N. 25 - Giugno 2007

LA CAPACITà DI VEDERE OLTRE

Una riflessione sulle divisioni Israele-Palestina

di Daniel Arbib Tiberi

 

In Israele ci sono stato diverse volte. Ho percepito le difficoltà di vita del mondo palestinese ma, come dovere tornando nel mio paese, ho sentito quello di cercare di comprendere che cosa significasse per un paese con un numero inferiore di abitanti come Israele, vivere costantemente con la paura di sparire.

 

Talvolta certamente questo timore può esser stato più una percezione che un pericolo reale, ma il sentimento dell’en brerà, cioè la percezione dell’assenza di ogni alternativa e della necessità di difendersi come un’isola circondata da un mare di nemici pronti a distruggerla, ha non pochi fondamenti storici.

 

Molto oggi si parla  della vita del popolo palestinese e delle problematiche che il muro causa alla loro vita. Mi riesce difficile però comprendere come non si riesca a capire come mai si sia arrivati a questa situazione drammatica.

 

Nel 1993 e nel 1995 due importanti accordi internazionali permisero ai palestinesi di autogovernate le loro città principali. Per questo accordo storico Rabin fu ucciso. Nel 2000 Barak, a Sharm el Sheik, accettò di cedere il 96% del Territorio conquistato nel 1967 (una guerra che Israele fu costretta ad anticipare evitando così di essere colta di sorpresa dai suoi nemici confinanti) e di dividere Gerusalemme. La risposta fu praticamente un secco no.  Non solo. Dall’inizio del nuovo  millennio una serie di attentati kamikaze sconvolse Israele e provocò centinaia di morti.

 

L’idea del muro di separazione nacque addirittura dal mondo pacifista nella consapevolezza che ad una incapacità di dialogare, per un periodo almeno, fosse preferibile una separazione netta. Certamente il muro ha creato non poche difficoltà. Ricordo però che, ben prima della sentenza non vincolante della Corte dell’Aja (una sentenza che, per l’incapacità del diritto internazionale di prendere atto del fenomeno del terrorismo suicida e di ciò che esso implica per uno Stato, non ha tenuto conto delle riserve di Israele), la Corte Suprema israeliana aveva imposto una modificazione del tracciato sulle linee del 1967.

 

Certamente questo è solo un palliativo e le problematiche per il popolo palestinese persistono. Credo però che bisognerebbe interrogarsi bene sul perché di questi drammi. E’ troppo facile incolpare quello che all’apparenza appare il più forte.

 

La distruzione di Israele è stata nello statuto dell’Olp sino al 1993. Nello statuto di Hamas l’obiettivo che ci si propone non è solo quello di riprendere tutta la Palestina ma, cosa che al Ministro degli Esteri italiano e ad altri non piace vedere e menzionare, l’eliminazione di tutti gli ebrei in attesa del giudizio universale. Il ritiro da Gaza del 2004 ha dimostrato che in fondo il problema principale non risiedeva nella guerra tra Israele e palestinesi, ma nella stessa società palestinese.

 

Il controllo del territorio e dei finanziamenti internazionali era l’obiettivo primario. Non dimentichiamo che per anni, giustamente, l’Anp ha ottenuto ingenti finanziamenti per la società palestinese e il risultato è stato corruzione e fame. Arafat teneva la moglie a Parigi in alberghi di lusso e la sua gente, tra le condanne dell’Onu a Israele, moriva per la strada.

 

So bene che oggi nella società palestinese la disoccupazione e la difficoltà di mobilità stà causando gravissimi problemi. Qui poco c’entra però la predicazione contro Israele affinché non attui politiche di ghettizzazione. La verità è che, nonostante tutti i torti di Tel Aviv, nessuno Stato potrebbe mai accettare di permettere al nemico (perché di una guerra di tratta se l’abbiamo dimenticato) la libera circolazione, quando questo prosegue con azione suicide anche dopo accordi di pace. A meno chè certo non si creda che, in considerazione del fatto che gli ebrei sono stati massacrati nella storia, debbano continuare a lasciarsi uccidere per far felice l’Europa.

 

Forse Hezbollah, Hamas, la Siria o l’Iran non bastano a giustificare un senso di paura e isolamento? Le risposte internazionali le conosciamo: belle parole e soldi. Peccato che però, per anni, quei soldi siano serviti a stampare libri di scuola dove si inneggiava alla Jiahad e all’odio religioso.

 

Pochi mesi fa il rappresentante del Vaticano in Palestina ha lamentato l’impossibilità dei cristiani palestinesi di professare liberamente la loro religione per la presenza di fondamentalismo islamico. Sarebbe oggi magari l’ora di cominciare a vedere i fantasmi lì dove ci sono, e non solo lì dove è un classico immaginarli. Non basta osservare un bambino che piange e un soldato con un mitra per capire chi ha torto o ragione. Ha volte non si sceglie di indossare una divisa per anni, ci si è costretti.

 

Questo non toglie il fatto che Israele debba interrogarsi su se stessa. Sono profondamente convinto che un ritiro dalla Cisgiordania insieme alla fine della costruzione della barriera difensiva siano necessari. Israele si deve concentrare sui pericolo imminenti (Sira, Iran, Hezbollah e Hamas) ritirandosi in un territorio sicuro e facilmente difendibile, come prima del 1967. Gerusalemme e il problema dei profughi dovrebbero essere lasciati ad un negoziato finale con la parte palestinese (ovviamente una parte che riconosca Israele).

 

Alla Comunità Internazionale e ai nostri osservatori sta il compito di rimembrarsi che Israele è solo la punta più avanzata dell’iceberg. Cellule dormienti terroristiche proliferano nei nostri paesi.

 

Chissà che non si debba imparare qualcosa, magari come far fronte alla paura di morire senza cancellare i valori democratici. Israele, con tutti i suoi ma, è una democrazia che assicura libertà che in nessun paese dell’area (o territorio) sono garantite. Se avesse voluto avrebbe potuto, Israele si al contrario dei palestinesi, fare “mambassa” dei suoi nemici. Una soluzione alla cecena insomma, eppure siamo ancora qui a parlare di questo conflitto. Della Cecenia invece mi sembra non si parli più.

 

Della retorica araba poi verso i palestinesi non ritengo sia utile parlare. Se non fosse nato Israele, la Palestina sarebbe stata spartita tra Egitto, Siria e Giordania. Ancora oggi nessuno di questi paesi, tranne la Giordania, ha concesso la cittadinanza al popolo che quotidianamente difende. Se questa è solidarietà…

 

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