SVALCHIRIE
E SKJALDMÆR
L’immagine della donna guerriera
nella mitologia nordica
di Matteo
Liberti
Nel 1979 l’elenco dei capolavori del
cinema bellico si arricchì con
l’uscita di Apocalypse Now,
film di Francis Ford Coppola in cui
venivano messi in mostra gli orrori
e le contraddizioni della guerra,
nella fattispecie quella del Vietnam
(1955-1975). La pellicola in
oggetto, ispirata al romanzo
Cuore di tenebra,
di
Joseph Conrad (1899), è ricordata
soprattutto per una sequenza, nella
quale si vede un nugolo di
elicotteri statunitensi bombardare
le postazioni vietnamite mentre come
colonna sonora impazza la
Cavalcata delle Valchirie,
celeberrimo brano composto dal
tedesco Richard Wagner per il dramma
musicale La Valchiria (Die
Walküre, messo in scena per la
prima volta nel 1870) e associato da
molti al concetto stesso di guerra.
E proprio come gli elicotteri
statunitensi sorvolarono per molti
anni il lacerato territorio
vietnamita, le valchirie a cui si
riferisce il brano di Wagner
(creature semidivine protagoniste
della mitologia norrena, o
scandinava che dir si voglia), erano
solite perlustrare dall’alto del
cielo i luoghi in cui si tenevano i
più cruenti scontri bellici,
cavalcando, tra nuvole e lampi, in
sella a velocissimi cavalli volanti,
con indosso robuste quanto
“scollacciate” armature, in testa
vistosi elmi e in mano possenti
scudi e lunghe lance.
Entrando nello specifico, il compito
di queste figure femminili, al
servizio del potente dio Odino (di
cui erano sostanzialmente figlie
adottive), era sia quello di
stabilire quali eroi fossero
destinati alla morte, coprendosi di
gloria, sia quello, ancor più
importante, di accompagnarli fino al
Valhalla, il luogo divino deputato
ai più valorosi tra tutti i
combattenti caduti in azione,
descritto alla stregua di un
paradiso dei guerrieri.
Vista la diretta attinenza col mondo
bellico (e dato che, talvolta,
usavano condizionare l’andamento
degli scontri), l’immagine delle
valchirie, appellativo oggi
utilizzato in modo generico per
riferirsi ad avvenenti donne
dall’aspetto vigoroso, possibilmente
di origine nordica, è peraltro molto
spesso confusa con quella delle
skjaldmær, guerriere in carne e
ossa – quindi non divinità – che,
sempre in base alle saghe della
mitologia scandinava, calcarono in
prima persona i campi di battaglia.
Le due figure, in talune occasioni,
risultano tuttavia sovrapponibili,
come nel caso di Brunilde, o
Brunhild, tra le protagoniste della
citata opera La Valchiria.
Per fare un po’ di ordine e
comprendere meglio il “senso”
rivestito nel mito dalle valchirie e
dalle skjaldmær è utile, come
prima cosa, analizzare l’etimologia
dei due termini in questione. Quanto
alla parola “valchiria”, deriva
dall’unione delle espressioni
norrene valr e kjósa,
ossia “caduto” e “scegliere”, e
designa appunto il ruolo rivestito
da queste divinità, alle quali
spettava come visto la scelta dei
morti in battaglia e il successivo
trasporto delle loro anime. Non per
nulla, le valchirie sono associate
in molti resoconti a figure di
animali avvezzi a perlustrare i
teatri di guerra in cerca di
cadaveri di cui cibarsi, come corvi
e lupi (questi ultimi in certe
versioni del mito vengono persino
cavalcati al posto dei cavalli). Il
termine “skjaldmær” è invece
traducibile come “scudiere” (o
meglio, “fanciulle con lo scudo”;
shieldmaiden nel mondo
anglosassone) ed è utilizzato, come
già detto, per indicare in modo
specifico quelle donne che alla vita
domestica preferirono l’esperienza
bellica, non interagendo però
direttamente con le sfere divine (a
meno che, a calarsi nei loro panni,
non fosse una valchiria).
Le suddette due terminologie
evidenziano dunque come le valchirie
fossero sì connesse al mondo della
guerra, ma in modo tendenzialmente
indiretto. La loro immagine,
sia nella letteratura sia nelle arti
figurative, è stata comunque quasi
sempre trasmessa come quella di
guerriere tout court, i cui tratti
peculiari – a parte la capacità di
volare – risultano simili, in
moltissimi aspetti, a quelli delle
amazzoni della mitologia greca. Nel
caso particolare, i miti nordici,
legati al mondo dei vichinghi,
traggono spunto dal fatto che fra
tali genti, famigerate per le
scorribande piratesche, le donne
erano di frequente addestrate a
combattere al pari degli uomini.
Nel dettaglio, a tratteggiare il
mito delle valchirie fu una manciata
di poemi medievali tramandati a
lungo per via orale, prima di essere
riportati in vari manoscritti (i più
importanti dei quali redatti in
Islanda nel xiii secolo e catalogati
col nome di Codex Regius)
raccolti in epoca moderna in un
testo noto come Edda
(esistono peraltro due opere con
questo titolo, dai contenuti affini:
l’Edda in prosa e l’Edda
poetica). Tali trascrizioni
costituiscono tuttora la principale
fonte d’informazioni circa la
mitologia norrena, e nei vari brani
in esse contenuti si narra appunto
di come al servizio di Odino,
massima divinità del cosmo nordico,
agisse un piccolo stuolo di fedeli
valchirie. «Alte sotto gli elmi /
sul campo del paradiso; / [...] / E
dalle loro lance / scintille
volavano via», riporta in proposito
l’Edda poetica. In alcuni
casi, le fonti primarie riguardanti
le valchirie, oltre che letterarie,
sono anche di tipo visivo. Nella
cosiddetta “pietra di Tjängvide”,
opera medievale ritrovata in Svezia
e databile all’incirca tra l’VIII e
il X secolo d.C., è per esempio
visibile, tra i vari disegni che la
decorano, una figura femminile
identificata dagli studiosi come una
valchiria, intenta ad attendere
Odino mentre questi si avvicina in
sella al suo straordinario cavallo
Sleipnir (dotato di otto zampe e
capace di galoppare in cielo e
sull’acqua, come d’altro canto
quelli a quattro zampe cavalcati
dalle stesse valchirie).
Le varie saghe forniscono anche i
nomi specifici di molteplici
valchirie, tra i quali spicca senza
dubbio quello della già citata
Brunilde, figura che in epoca
recente, oltre a essere rievocata da
Wagner, ha ispirato (così come altre
divinità norrene, tra cui lo stesso
Odino e suo figlio Thor, il dio del
tuono) anche un noto personaggio dei
fumetti della Marvel Comics. Ideata
nel 1970, l’eroina in oggetto è
conosciuta semplicemente come
“Valchiria”, alter ego di “Brunilde”,
e proprio come avviene nelle saghe
nordiche, essa è descritta come una
valorosa combattente incaricata da
Odino di far da guida alle altre
valchirie, fra le quali primeggia
per forza e doti belliche. Lasciando
i fumetti per tornare ai racconti
del mito, è da evidenziare come
accanto al nome di Brunilde compaia
ripetutamente quello di Sigfrido,
indomito eroe noto per aver ucciso
il terribile drago Fafnir, al quale
la donna si sarebbe legata e con cui
avrebbe messo al mondo una figlia,
Aslaug.
Un’ennesima annotazione linguistica:
il nome “Sigfrido” è composto dai
termini germanici sig e frithu,
“vittoria” e “pace”, il primo dei
quali si ritrova anche in uno degli
ulteriori nomi con cui è conosciuta
Brunilde, ovverosia “Sigrdrífa”
(personaggio che in certe saghe è
però distinto), la cui traduzione è
“colei che conduce alla vittoria”.
Lo stesso nome “Brunilde”, a ben
vedere, rimanda in modo esplicito al
mondo bellico, essendo composto
dalle parole “armatura” (brunia)
e “battaglia” (hiltia). A
elementi analoghi alludono inoltre i
nomi di molte altre valchirie
presenti nelle saghe (in alcuni casi
riportati anche su delle pietre
runiche risalenti al IX e X secolo),
come per esempio Hildr (epiteto
analogo a hiltia), Sigrún (da
sig), Herja (“la
devastatrice”) e Þrúðr
(“forza”), solo per citare alcune di
loro.
La connessione semantica con
concetti bellici ha fatto appunto sì
che le valchirie (tra i cui poteri
vi era quello di tramutarsi in
bianchi cigni, immagine opposta a
quella della guerra) siano molto
spesso state confuse con delle
semplici guerriere, dimenticando il
loro ruolo di trasportatrici dei
defunti (sempre a patto che essi
fossero eroi). Tra l’altro, una
volta giunte nel luogo di
destinazione, il Valhalla (o “sala
dei caduti”), tali donne semidivine
s’occupavano di dissetare i
guerrieri offrendo loro birra e
idromele, una bevanda alcolica a
base di miele, servita in dei corni,
che nella cultura vichinga era
associata alla figura di Odino (il
quale amava consumarne in grandi
quantità). Come già ribadito, non
avevano invece nulla a che fare con
gli scenari celestiali del Valhalla
le “fanciulle con lo scudo”, o
skjaldmær, la cui presenza nelle
saghe nordiche è da ricondurre a
elementi storici prima ancora che
mitologici, essendo frequente, come
attestano molteplici ritrovamenti
archeologici in area scandinava, la
partecipazione delle donne alle
scorrerie di matrice vichinga.
D’altro canto, solo in una società
che ammetteva la parte femminile
della popolazione alle vicende
belliche poteva sorgere un racconto
leggendario dove al centro
dell’azione vi fossero proprio le
donne, si trattasse di “sceglitrici
dei morti in battaglia” o di
combattenti che battagliavano in
prima linea. E alla figura delle
skjaldmær s’ispirerà tra gli
altri John Ronald Reuel Tolkien, nel
1955, per creare il personaggio di
Éowyn in Il Signore degli Anelli.
Lo stesso autore britannico
affronterà poi il tema delle
valchirie in un poema uscito postumo
nel 2009, dal titolo La leggenda
di Sigurd e Gudrún.
Oltre a Brunilde, che rivestì i
doppi panni di valchiria e scudiera,
le skjaldmær di cui più si
parla nei racconti medievali e nelle
reinterpretazioni dei secoli
seguenti rispondono ai nomi di
Hervor, che combatté contro gli
invasori unni, cadendo in battaglia,
e di Lagertha, la quale dopo molte
imprese, con al fianco un piccolo
esercito di sole donne, arrivò a
dominare l’intera Norvegia. Ad
ambedue, così come d’altronde a
Brunilde e ad altre guerriere del
mito, saranno dedicate, in epoca
moderna, varie opere pittoriche che
contribuiranno a renderle parecchio
celebri, plasmando un’iconografia
che sarà poi ripresa anche dal
grande schermo (nonché, come visto,
dal mondo dei fumetti).
In particolare, a delineare
l’immaginario estetico di valchirie
e skjaldmær fu nell’Ottocento
il pittore norvegese Peter Nicolai
Arbo (1831-1892), la cui opera più
celebre al riguardo, divenuta una
vera icona della mitologia norrena,
s’intitola semplicemente
Valchiria. Il dipinto,
realizzato nel 1864 e rielaborato
nel 1869, raffigura giustappunto una
combattente di Odino, bardata con
armatura, elmo, mantello e scudo,
mentre con i capelli al vento
cavalca un cavallo volante (seppure
non dotato di ali), brandendo una
lancia. Sullo sfondo, sfumate tra le
nuvole e tra i bagliori del Sole,
sono inoltre visibili altre
valchirie in volo, a cui fanno
compagnia alcuni corvi.
A fare da contraltare alla suddetta
immagine dai toni epici e divini, vi
è un altro quadro dello stesso
artista, dipinto attorno al 1890 (la
data rimane incerta), in cui è
invece messa in mostra la natura
umana e mortale delle skjaldmær.
A essere raffigurata è la morte di
Hervor durante gli scontri con gli
unni, con la guerriera che è
mostrata a terra, agonizzante,
attorniata da alcuni uomini che
erano con lei sul campo di
battaglia, intenti a darle l’ultimo
saluto, e con accanto il suo fedele
cavallo.
Questi e altri dipinti
ottocenteschi, soprattutto di epoca
romantica, contribuirono dunque a
delineare l’immagine “battagliera”
delle valchirie, che andrà via via
fondendosi con quella delle
“fanciulle con lo scudo”, tanto che
la parola valchiria rimanda ormai al
concetto di guerriera prima ancora
che alla dimensione semidivina di
tali donne e alla loro funzione di
collegamento tra i teatri di guerra,
dove a combattere erano soprattutto
le skjaldmær, e il Valhalla.