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N. 133 - Gennaio 2019 (CLXIV)

Il carnevale del Cervo

l'uomo-cervo: Cenni su un antico rito italico

di Alfredo Incollingo

 

Quando il sole tramonta, l’ombra delle Mainarde, il massiccio montuoso che cinge a nord l’Alta Valle del Volturno, si stende come un manto sul piccolo borgo di Castelnuovo, nel comune di Rocchetta a Volturno. L’antico castrum, cinto da folti boschi e prati montani, sorge nella parte più interna della valle appenninica. Nella piazza del paese, come ogni anno, l’ultima domenica di carnevale nutriti gruppi di turisti infreddoliti attendono al buio l’arrivo di una creatura silvana spaventosa e selvaggia.

 

L’Uomo Cervo o Gl’ Cierv, come viene chiamato nel dialetto locale, irrompe sulla scena con irruenza, seminando terrore tra gli spettatori. Il rito si ripetete annualmente dal 1985, quando alcuni giovani abitanti di Castelnuovo decisero di salvare dall’oblio questa antica tradizione.

 

Da piccola manifestazione paesana e regionale divenne un caso nazionale, tanto da attirare turisti da tutta Italia. Non sono pochi coloro che si interrogano sul destino di questa ritualità, temendo una totale svalutazione del simbolismo in esso insito a favore di una visione consumistica dell’Uomo Cervo.

 

La rappresentazione ha inizio con la comparsa sulla scena dello stregone Maone e delle sue megere, le Janare. Ballando e cantando freneticamente, le presenze malvagie lasciano pian piano la piazza, mentre alcuni villani fanno il loro ingresso.

 

Gli zampognari, suonando e cantando, animano il pubblico e i figuranti, ma all’improvviso si fa silenzio e si avverte un grido «Gl’ Cierv’». Dalla parte più alta del paese scendono, correndo, l’Uomo Cervo e la sua compagna, attori coperti di pelli di capra e ornati con vere corna di cervo.

 

In preda al furore, distruggono tutto quello che trovano, suonando senza posa i campanacci appesi ai loro velli. Martino, un personaggio simile a Pulcinella, la ben nota maschera partenopea, doma la loro rabbia e li cattura con una lunga corda. I villani ritornano in scena e accusano le bestie delle colpe peggiori e, per placarli, offrono un piatto di polenta. Rifiutando il dono e spezzando la corda che li tiene prigionieri.

 

I due cervi continuano a dimenarsi senza quiete. Solo il Cacciatore ha il potere di fermarli abbattendoli con il suo fucile e, subito dopo, li riporta in vita soffiando nelle orecchie. Le creature si risvegliano docili e mansuete e imboccano la strada pietrosa verso i boschi, liberando il paese dalla loro presenza.

 

Così ha termine la rappresentazione. Non è un caso se questo rito si svolga annualmente l’ultima domenica di Carnevale.

 

L’antropologo Alessandro Testa, per esempio, ha evidenziato un profondo legame tra le due ritualità. Si tratta di una tradizione di origini molto antiche, che rimandano alle ancestrali religioni naturalistiche pratiche dai popoli italiani, quali i Sanniti, per esempio, che vissero liberamente in quel territorio prima della conquista romana.

 

Con il passare dei secoli il rito dell’Uomo Cervo ha registrato cambiamenti nelle date di celebrazione e nei significati più reconditi.

 

Nel medioevo, quando il Carnevale divenne la festa preparatoria alla Quaresima, la manifestazione pagana venne assimilata nel calendario sacro locale. Nel Mezzogiorno d’Italia, al termine degli eccessi carnevaleschi, quando sopraggiungono i quaranta giorni di digiuno antecedenti la Pasqua cristiana, un pupazzo, da perfetto capro espiatorio, viene accusato di tutti i mali della collettività e lo si getta nel fuoco per purificare la comunità.

 

Comparando questa usanza con la rappresentazione di Castelnuovo, possiamo notare dinamiche molto simili, che giustificano quanto scritto. Quando Martino cattura l’Uomo Cervo, i villani lo accusano di essere il responsabile di tutte le calamità. È il capro espiatorio di Castelnuovo.

 

Il Cacciatore compie il gesto purificatorio uccidendo i due cervi per riportarli successivamente in vita docili e mansueti. Come la cenere del pupazzo di Carnevale veniva sparso per i campi, fecondandoli, allo stesso modo i cervi placidi incarnano le forze naturali propizie alla vita umana tra gli Appennini.

 

I riverberi delle religioni italiche permangono in questo rito, conservando la sua natura di rito propiziatorio. Nonostante un’odierna chiave di lettura eccessivamente profana della festività, che attira numerosi turisti da tutta Italia, sono ancora evidenti i caratteri originali e sacri dell’Uomo Cervo, che richiamano la cosmologia pagana.

 

Basandosi esclusivamente sui ritmi naturali delle stagioni, prevedeva un tempo e una storia ciclici fatti di continue nascite e decadenze. L’uomo cervo si inserisce tra le più antiche testimonianze di questa ancestrale visione del cosmo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Testa Alessandro, Il carnevale dell’uomo-animale. Le dimensioni storiche e socio-culturali di una festa appenninica, Loffredo, Napoli 2014.



 

 

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