[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

169 / GENNAIO 2022 (CC)


antica

L’ARRIVO degli Unni
l’inesorabile malessere dell’organismo romano

di Mauro Napoliello

 

La Storia ha dato più volte dimostrazione, di come gli imperi di qualsiasi epoca umana, si siano uno dopo l’altro sgretolati sotto il loro peso: non distrutti, ma autodistrutti. Tale affermazione, potrebbe far storcere il naso ai più, dato che nell’indottrinamento comune, dietro a ogni grande tracollo imperiale, ci devono essere per forza guerre o invasioni.

 

Parlando della questione romana, questi ultimi aspetti sono solamente i sintomi della fine imperiale, tanto della parte occidentale, quanto quella orientale mille anni dopo. Detto ciò sarebbe bene immaginare l’impero romano, come qualcosa di vivo, di organico che nel corso della sua vita, si è saputo adattare agli stimoli interni ed esterni in cui era collocato: cresce, si irrobustisce, prospera, ma col tempo invecchia e le minacce esterne diventano più pericolose per la sua esistenza.

 

Nel III secolo, da Oriente giunge un vento burrascoso, proveniente da un altro impero, quello Sassanide. Questo grande popolo arrivato di prepotenza a sostituire il secolare impero partico, aveva le idee chiare in testa e una volta risolte le faccende in casa propria, puntò dritto come una freccia sul confine orientale romano.

 

A quell’epoca, l’imperatore romano Valeriano, tutto si aspettava, tranne che una guerra di tale portata; combattere i Parti prima e ora i Sassanidi, non era come confrontarsi con le bande più o meno numerose di barbari germanici. Alle porte dei confini di Oriente, era situata una civiltà sviluppata e organizzata tanto quella romana, capace di mettere sul campo di battaglia, truppe scelte con armamenti e strategie belliche ben precise.

 

Valeriano si mosse in fretta e furia per arginare l’esuberanza bellica dei Sassanidi, ma venne malamente sconfitto. Non solo, fu catturato e imprigionato a vita; cosa che in patria sassanide fu festeggiata con monumenti e bassorilievi. Ecco, è proprio qui nel III secolo d.c. che l’organismo romano, viene attaccato e comincia ad ammalarsi: il suo sistema immunitario reagisce mettendo in campo gli anticorpi per guarirlo.

 

Non era mai stato tanto male come allora e di conseguenza la cura fu molto intensa. Si partì con la rivoluzione dell’esercito, il quale venne aumentato di numero per contenere la minaccia sassanide; di conseguenza fu necessario modificare il sistema tributario e aumentare la tassazione che colpì soprattutto i piccoli proprietari terrieri: come se non bastasse vuoi la peste antonina, vuoi la maggiore chiamata alle armi, nelle campagne cominciò a scarseggiare la manodopera. In un epoca dove il gettito fiscale imperiale veniva esclusivamente dalla produzione agricola, questo fu un bel problema. L’organismo imperiale concesse allora le terre ai soldati, come pagamento del loro impiego nelle fine dell’esercito, ma anche a molti barbari desiderosi di stabilirsi dentro i confini romani, i foederati, popoli alleati che in cambio di terre garantivano il controllo per conto dell’impero.

 

Non volendo entrare troppo in profondità in questo discorso, l’impero romano riuscirà con estremi sacrifici a mantenere in piedi i suoi possedimenti, ma ripeto, tutto ciò a un prezzo salatissimo. Questo avvenne in un momento dove a Roma fu concesso il tempo di mutare: un secolo dopo, questo tempo non gli venne concesso.

 

Nel 374 d.c. dalle cronache dell’epoca, circa 100.000 Goti attraversarono di prepotenza il Danubio, riversandosi nell’ impero romano d’Oriente e nel giro di un secolo insieme dall’arrivo di migliaia di altri barbari porteranno allo sfascio l’impero romano d’Occidente. Questa volta l’organismo romano non più giovanissimo e un po’ indebolito, riceve un “virus” troppo rapido e violento da gestire. Non è una normale malattia che arriva col tempo, questo è una sorta di avvelenamento; nel 376 d.c. ad Adrianopoli i Goti sconfiggono l’esercito imperiale d’Oriente, uccidono l’imperatore Valente e costringono i romani a riformare nuovamente l’esercito, che in un sol colpo aveva perso migliaia tra i più esperti soldati dell’epoca. Dislocamento delle legioni dal Reno e dalla Britannia, inevitabile reclutamento di mercenari e truppe barbariche inesperte, doverose concessioni di terre ai barbari invasori e l’immancabile aumento della tassazione. L’impero mette nuovamente in campo le sue difese immunitarie, ma stavolta non guarisce, rimane inesorabilmente invalidato.

 

Perché nel IV secolo d.c. Roma e Costantinopoli non riescono ad avere quel tempo necessario per mettere in campo le loro contromisure?

 

Il dito questa volta lo possiamo tranquillamente putare contro gli Unni. Questi misteriosi cavalieri provenienti dalle lontane steppe asiatiche, era di una tale spietatezza che al loro arrivo in Europa, portarono il panico tra i popoli barbarici. La loro azione fu talmente violenta che spinse popoli forti e orgogliosi come i Goti a chiedere aiuto ai Romani, ma una tale mole di invasori concentrata in un lasso temporale così breve, non era possibile gestirla in modo organizzato.

 

Stessa cosa accadde su altri confini europei, con volumi diversi, ma periodicamente numerosi; in ultimo, lo smembramento delle legioni sui confini, spianò ulteriormente la strada a quei popoli germanici che da sempre spingevano per entrare: Alani e Vandali verso la penisola iberica, Franchi, Burgundi, Sassoni in Gallia e così via.

 

Il perché gli Unni fossero così temuti dai barbari, ma anche dai romani lo spiega egregiamente il cronista Ammiano Marcellino:

 

«Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi storici, abita al di là delle paludi Meotiche lungo l’oceano glaciale e supera ogni limite di barbarie. Siccome hanno l’abitudine di solcare profondamente con un coltello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba, quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle rughe delle cicatrici, invecchiano imberbi, senz’alcuna bellezza e simili a eunuchi. Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenor di vita da non aver bisogno né di
fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce e il dorso dei cavalli. Non sono mai protetti da alcun edificio, ma li evitano come tombe separate dalla vita d’ogni giorno. Neppure un tugurio con il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne e selve, abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete. Quando sono lontani dalle loro sedi, non entrano nelle case a meno che non siano costretti da estrema necessità, né ritengono di essere al sicuro trovandosi sotto un tetto. Adoperano vesti di lino oppure fatte di pelli di topi selvatici, né dispongono di una veste per casa e di un’altra per fuori. Ma una volta che abbiano fermato al collo una tunica di colore appassito, non la depongono né la mutano finché, logorata dal lungo uso, non sia ridotta a brandelli. Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con pelli caprine e le loro scarpe, poiché non sono state precedentemente modellate, impediscono di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti, tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli interessi comuni. Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma, contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò che si oppone a loro. Combattono alle volte se sono provocati e ingaggiano battaglia in schiere a forma di cuneo con urla confuse e feroci. E come sono armati alla leggera e assaltano all’improvviso per essere veloci, così, disperdendosi a bella posta in modo repentino, attaccano e corrono qua e là in disordine e provocano gravi stragi. Senza che nessuno li veda, grazie all’eccessiva rapidità attaccano il vallo e saccheggiano l’accampamento nemico. Potrebbero poi essere considerati senz’alcuna difficoltà i più terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono a distanza con giavellotti forniti, invece che d’una punta di ferro, di ossa aguzze che sono attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percorso rapidamente la distanza che li separa dagli avversari, lottano
a corpo a corpo con la spada senz’alcun riguardo per la propria vita. Mentre i nemici fanno attenzione ai colpi di spada, quelli scagliano su di loro lacci in modo che, legate le membra degli avversari, tolgono loro la possibilità di cavalcare o di camminare. Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenor di vita. Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono loro da abitazione. Quivi le mogli tessono loro le orribili vesti, qui si accoppiano ai mariti, qui partoriscono e allevano i figli sino alla pubertà. Se s’interrogano sulla loro origine, nessuno può dare una risposta, dato che è nato in luogo ben lontano da quello in cui è stato concepito e in una località diversa è stato allevato. Sono infidi e incostanti nelle tregue, mobilissimi a ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento ad un violentissimo furore.
Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il bene e il male, sono ambigui e oscuri quando parlano, né mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione, ma ardono d’un’immensa avidità d’oro. A tal punto sono mutevoli di temperamento e facili all’ira che spesso in un sol giorno, senza alcuna provocazione, più volte tradiscono gli amici e nello stesso modo, senza bisogno che alcuno li plachi, si rappacificano”.

 

Gli Unni erano effettivamente, un agglomerato di violenza e spietatezza che pochi nella storia riuscirono a replicare, per fortuna. Prima Rua e poi il famoso Attila, tennero in scacco decine di popoli germanici sotto il loro potere. E non dobbiamo nemmeno pensare che fossero così numerosi, poiché i barbari assoggettati erano numericamente in vantaggio rispetto ai cavalieri Unni: Attila fu un leader estremamente carismatico nonché spietato, i capi barbarici non avevano assolutamente la stoffa per reggere il confronto.

 

Questo spiega anche il fatto che alla morte del “Flagello di Dio”, i suoi figli Ellak, Ermak e Dengizich non furono in grado di mantenere in piedi l’asset creato dal padre, incapaci di controllare le numerose guerre interne tra i popoli barbarici scoppiate dopo la dipartita di Attila. Probabilmente il fatto di essere stato l’Unno più famoso della storia, deriva anche dal fatto che in giovane età, fu istruito dai romani, durante il suo periodo di alloggio forzato nella corte di Ravenna, in favore dei consueti scambi di nobili ostaggi tra nemici.

 

La conclusione è che la causa maggiore della rovina del mondo romano, fu proprio l’onda d’urto sprigionata dal popolo unno, che conquistò i popoli germanici, mentre altri li costrinse alle repentine immigrazioni e ai violenti saccheggi.

Tassello dopo tassello, venne smontato quello che era l’apparato sociale, militare e amministrativo dell’impero. Il discorso è equivalente per la fine dell’impero romano d’Oriente: vecchio, completamente in caduta in ogni aspetto sociale ed economico, venuto a contatto con la potenza militare dei potenti Ottomani, le sue difese immunitarie non riuscirono ad annientare la minaccia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

P. Heather, La caduta dell’impero romano: una nuova storia, Garzanti, Milano 2008.

I. Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, Milano 2008.     

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]