[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 155 / NOVEMBRE 2020 (CLXXXVI)


antica

SULL’UMANESIMO CRISTIANO DEL IV SECOLO

DOPO LA SVOLTA COSTANTINIANA

di Valerio Acri

    

I versi danteschi del VI Canto del Paradiso suggellano mirabilmente l’interpretazione storico-teologica del successo di Costantino su Massenzio a Ponte Milvio il 28 ottobre del 312 d.C. Le parole del Sommo Poeta condensano il racconto dell’affermazione costantiniana e del suo enorme significato universale come quello di una corrispondenza predestinata tra la storia pagana di Roma e la storia del Cristianesimo.

 

Già nei primi sermoni del giovane vescovo Agostino d’Ippona, meno di un secolo più tardi della conversione di Costantino, fu presente il motivo di una storia in rapido movimento, dal 312 in avanti, verso una conclusione preordinata che prevedeva il trionfo del messaggio di Cristo. Gli storici moderni adottarono unanimemente questa linea interpretativa, al netto di non considerarla necessariamente sotto l’aura di una manifestazione del disegno divino, e assegnarono alla vittoria di Ponte Milvio un primato epocale, quello di aver inaugurato l’Impero cristiano.

 

Dal momento in cui, il giorno successivo alla battaglia, Costantino rifiutò di celebrare il suo trionfo immolando il sacrificio appropriato sugli altari degli dèi in Campidoglio il Cristianesimo si accinse ad abbandonare lo status di confessione proscritta per avviarsi a un’ascesa che, dal 311 al 381, lo portò prima a essere un culto ammesso e poi il credo ufficiale dell’Impero.

 

Per la Chiesa si aprì una nuova era, l’alluvione di leggi e lettere che dal Palazzo imperiale piovvero a favore dei cristiani andò di pari passo con una massiccia assimilazione della cultura e dell’istruzione profane e l’adozione senza più riserve delle forme letterarie tradizionali.

 

Si assistette rapidamente alla consacrazione di un Umanesimo cristiano attraverso il quale la letteratura ecclesiastica raggiunse vette di massimo splendore grazie al contributo di pensatori finissimi che, diversamente da coloro che li avevano preceduti, poterono mettere il loro talento anche a servizio di cause diverse da quella che presentava la Chiesa serrata in un continuo conflitto con l’Impero romano pagano. La libertà di culto concessale da Costantino significò così per la fede cristiana anche la libertà, dopo oltre 250 anni, di poter finalmente abbracciare la classicità di Omero e Platone per dar vita a una produzione letteraria entrata a pieno titolo nel patrimonio culturale europeo.

 

Gli autori classici della Chiesa greca come Basilio Magno, Gregorio Nisseno e Gregorio Nazianzeno (i cosiddetti Padri Cappadoci, attivi dalla metà del 300) poterono aggiungere alla loro formazione teologica la cultura ellenistica, l’eloquenza brillante e la padronanza dello stile che avevano acquisito nelle accademie antiche.

 

La Scuola ateniese, al tempo dei giovani eruditi Basilio e Nazianzeno, era ancora la culla degli studi filosofici e viveva un periodo di transizione della sua millenaria esistenza passando dall’indirizzo dell’eclettismo (inaugurato da Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, quest’ultimo maestro di Cicerone) a quello neoplatonico che consentì poi la conciliazione del pensiero di Platone con la filosofia cristiana.

 

Ad Atene Basilio e Gregorio Nazianzeno poterono apprendere tutti quegli accorgimenti di composizione e persuasione che li resero, insieme a Gregorio Nisseno e Giovanni Crisostomo, i migliori esempi di eloquenza tardo antica. In entrambi era la convinzione di dover trarre dalle storie dell’antica mitologia tutto ciò che poteva condurre alla virtù e mai contemplarono l’idea di rifiutare l’eredità pagana così come qualunque altra personalità colta del quarto secolo.

 

Nel trattato Ad Adolescentes è possibile rintracciare la maniera attraverso la quale Basilio esortava i più giovani a trarre profitto dalle lettere elleniche. Questo scritto di carattere pedagogico si presenta sotto forma di ammonimento ai nipoti che si accingono a frequentare le scuole pagane, trasmettendo loro la convinzione che lo studio degli autori classici potrà affiancare quello ben più importante delle Sacre Scritture.

 

Gli esempi di virtù in Omero, Esiodo, Solone, Euripide e Platone vengono descritti da Basilio con uno straordinario senso dei valori durevoli dell’insegnamento ellenistico e riflettono una matura coscienza dell’utilità di una formazione che unisca la verità cristiana all’eredità culturale greca. Una larghezza di spirito che è ben presente anche in Gregorio Nazianzeno e che ha profondamente influenzato l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla tradizione classica.

 

In questo senso è importante sottolineare che la svolta costantiniana non apportò sostanziali modifiche al modello d’istruzione liberale vigente in tutto l’Impero a partire dall’età ellenistica. Certamente la Chiesa del IV Secolo aveva ben chiaro come l’istruzione avesse, in ultima analisi e nel suo significato più immediato, una matrice pagana e soprattutto era cosciente che alcuni cristiani continuassero a trovare in essa una fonte di scandalo. Il rifiuto dell’istruzione era un’opzione che aveva peraltro cominciato a trovare spazio nella letteratura bizantina a partire da Antonio, l’iniziatore del monachesimo (seconda metà del III secolo), incapace di cogliere alcuna necessità che giustificasse le vanità della sapienza profana per chi aspirava al Regno dei Cieli.

 

Ancora nel 375 le Costituzioni Apostoliche – un’opera apocrifa contenente otto trattati ancora oggi presenti nelle collezioni canoniche delle Chiese orientali – non ammettevano compromessi sotto questo aspetto invitando a evitare “le favole dei Gentili, scritti e leggi aliene di falsi profeti che distolgono i frivoli dalla fede”. La possibilità di mantenere la struttura tradizionale dell’istruzione sostituendo testi cristiani a quelli pagani era del resto una soluzione difficilmente percorribile proprio perché fino al IV secolo non esisteva un adeguato corpus di letteratura cristiana da offrire ai giovani per la loro formazione grammaticale e retorica.

 

Fu l’autorevole benestare dei Padri Cappadoci, in particolare di San Basilio, a legittimare la scelta della Chiesa di conservare con cura i testi pagani e non allestire un sistema d’istruzione parallelo. Dal IV Secolo in avanti giovani cristiani frequentarono gli stessi insegnanti dei giovani pagani studiando Platone e acquisendo familiarità con le storie dell’antica mitologia. Alcuni di loro divennero insegnanti ed è facile immaginare che trasmisero le medesime conoscenze ai loro allievi.

 

Fu anche per questo motivo che, nell’ultimo rigurgito di paganesimo imperiale con Giuliano l’Apostata, un editto del 362 proibì non soltanto incarichi di insegnamento a coloro che non credevano negli dèi ma anche agli adolescenti cristiani di frequentare le scuole pubbliche e studiare gli autori greci, nella convinzione che una tale istruzione procurasse la capacità di argomentare e persuadere.

 

Il retore Apollinare di Laodicea utilizzò allora tutta la sua erudizione classica per ideare, insieme al figlio suo omonimo, una trasposizione dell’Antico Testamento in versi, componendo un poema in 24 libri sulla storia ebraica dalla Creazione fino al regno di Saul nel quale erano impiegate tutte le forme metriche classiche. Prima di convertirsi al Cristianesimo Apollinare fu un grammatikòs, ovvero un insegnante che spiegava non soltanto la grammatica nella nostra accezione del termine ma soprattutto un numero scelto di autori classici, principalmente poeti e su tutti Omero.

 

Oltre a questa opera, che ricalcava esattamente i poemi omerici, scrisse commedie a imitazione di Menandro, tragedie simili a quelle di Euripide, odi sul modello di Pindaro e dialoghi platonici di argomento evangelico. Tutte opere che purtroppo non ci sono arrivate, eccetto una Parafrasi dei Salmi in esametri, abbondantemente farcita di reminiscenze degli antichi poeti greci.

 

Il centro culturale nel quale si espresse maggiormente il contatto tra l’ellenismo e il Cristianesimo fu certamente Alessandria, che in tutto l’Impero fu sempre ufficialmente nominata come a Aegyptum e non in Aegypto per rimarcarne il carattere prevalentemente greco a dispetto dell’appartenenza geografica. Gli antichi splendori della monumentale biblioteca di epoca tolemaica furono rinnovati ad Alessandria, già a partire dalla fine del II secolo d.C., dal fiorire di scuole religiose, filosofiche e scientifiche.

 

Questo si tradusse poi nei primi anni del 300 in quella particolare combinazione di paganesimo e ricerca cristiana nota sotto il nome di gnosticismo che si diffuse principalmente attraverso le scuole alessandrine. Soprattutto, però, Alessandria ospitò il Didaskaleiòn (ovvero “luogo dove si insegna”), la scuola catechetica che secondo la tradizione fu fondata dall’evangelista San Marco e nel 250 circa era divenuta grazie a Origene Adamanzio un autentico centro d’irradiazione teologica.

 

Nel periodo post-costantiniano il Didaskaleiòn conobbe una seconda primavera e la ricerca di una sapienza superiore messa al servizio dell’interpretazione delle Sacre Scritture portò contemporaneamente alla formulazione del dogma e all’elaborazione di teorie che, differendo anche solo in minima parte da esso, furono dichiarate eretiche. In questo senso, la scuola alessandrina ebbe un ruolo predominante nell’inaugurare quella lunga stagione di controversie trinitarie e cristologiche che, a partire dalla prima metà del IV Secolo, contribuirono anche a indebolire ulteriormente i delicati equilibri imperiali tra Oriente e Occidente.

 

L’insegnamento di Origene aveva di fatto rappresentato l’apogeo del Didaskaleiòn alessandrino in quanto miglior esempio della compatibilità del Cristianesimo con i tradizionali princìpi filosofici. Il suo approccio di tipo allegorico fu però a un certo punto considerato “responsabile” di un approfondimento scientifico ispiratore della formulazione dell’arianesimo, ovvero la prima grande eresia cristiana. Per questo, pur mantenendosi fedele all’impulso del suo maestro, la scuola catechetica di Alessandria proseguì i suoi sforzi speculativi attraverso un metodo teologico mutuato dall’altrettanto rinomata scuola di Antiochia, altro polo cristiano facente capo all’omonimo patriarcato secondo per importanza solamente a quello di Costantinopoli.

 

Capofila di questo nuovo corso fu Atanasio, considerato ancora oggi dalla Chiesa greca il campione dell’ortodossia, proprio perché dal Concilio di Nicea del 325 in avanti consacrò le sue fatiche teologiche perlopiù alla confutazione dell’eresia ariana. Per farlo scelse appunto l’esegesi più storica e grammaticale di derivazione antiochena che, accantonando l’allegorismo, consentì di utilizzare la filosofia per codificare la dottrina della Chiesa.

 

Il Credo niceno adottato nel 325 divenne di fatto quello ufficiale giunto fino ai giorni nostri, nel quale i rapporti tra le Persone della Trinità vengono chiariti escludendo la distinzione professata da Ario tra Creatore e Creato e scartando l’idea del Logos – ovvero il mondo delle idee di Platone – come intermediario tra Padre e Figlio. Oltre alle Orationes contra Arianos, l’opera più importante comunemente attribuita ad Atanasio fu La Vita di Antonio, nel quale le imprese del primo monaco eremita vengono raccontate secondo gli antichi modelli classici della vita dell’eroe.

 

Una sola percezione della Trinità, e dunque la consustanzialità di Padre, Figlio e Spirito Santo, fu professata anche da Didimo il Cieco, a capo del Didaskaleiòn intorno al 350. Egli insistette maggiormente, rispetto ad Atanasio, sulla Divinità dello Spirito Santo in quanto fonte principale dei doni divini presenti nell’uomo ma finì anche per essere considerato meno ortodosso (circa duecento anni più tardi fu anzi dichiarato eretico insieme a Origene) per la teoria della preesistenza delle anime dei viventi alla loro nascita carnale e per quella nota come apocatastasi, termine mutuato dallo stoicismo più antico per affermare teologicamente la restaurazione universale di tutte le cose nel loro stato originale puramente spirituale alla fine dei tempi.

 

Ancor meno ortodossa fu la posizione di Eusebio di Cesarea, il più importante teologo cristiano a servizio della corte imperiale di Costantino, per benevolenza del quale accettò il Credo niceno pur essendosi esposto in precedenza a favore della dottrina ariana. In realtà, la storiografia medievale è debitrice a Eusebio molto più per le sue opere erudite e storiche che per il suo pensiero teologico. La sua Storia Ecclesiastica è di fatto l’opera che, celebrando l’esito vittorioso di tre secoli di conflitto con lo Stato, inaugurò il racconto della storia generale della Chiesa (che fu proseguito poi nei secoli successivi da altri storici) consegnandoci una ricca collezione di fatti e di documenti ricavati da una gran quantità di scritti della Chiesa primitiva.

 

Essendo egli stesso vissuto in un’epoca segnata da un ritmo precipitoso di eventi di altissima importanza, fu costretto ad aggiornarla a più riprese. Comunemente se ne contano quattro edizioni, l’ultima delle quali contenente dieci libri, dei quali gli ultimi tre suggeriti all’autore dalla rapida evoluzione degli avvenimenti tra la persecuzione di Diocleziano del 303 alla vittoria definitiva di Costantino.

 

Lungi dall’essere un racconto ordinato dell’espansione e dello sviluppo del Cristianesimo, la Storia ecclesiastica contiene un chiaro intento apologetico che riprende e completa la precedente opera intitolata Cronaca (composta nel 303 circa), una sorta di resoconto sincronico del mondo che prende come punto di partenza l’anno della nascita di Abramo (2016 a.C.) e successive divisioni come la presa di Troia, la prima Olimpiade, il secondo anno del regno di Dario per arrivare alla morte di Cristo (nella traduzione/revisione di San Girolamo fu poi proseguita fino alla disfatta imperiale di Adrianopoli del 378).

 

Come Eusebio di Cesarea, anche i Padri Cappadoci seppero andare oltre le dispute dottrinarie, nelle quali furono comunque protagonisti dando un importante contributo in chiave anti-ariana a favore del dogma trinitario niceno e della cristologia ortodossa della Chiesa. La loro produzione letteraria offrì altissimi esempi della corrispondenza cristiana, che nella forma e nello stile continuò la tradizione della letteratura epistolare ellenistica. Nonostante l’epistola fosse la forma letteraria più antica del Cristianesimo, fu solo nell’epoca costantiniana che cominciarono le grandi collezioni.

 

Le lettere di San Basilio sono vere perle dell’arte epistolare cristiana, per lingua, stile, profondità e calore del sentimento, come anche per la varietà degli argomenti e delle relazioni personali. Tratto distintivo della sua corrispondenza è il desiderio di koinonìa, la comunione della comunità primitiva cristiana descritta negli Atti degli Apostoli che egli nostalgicamente rievocava come modello a fronte di una Chiesa divisa dalle dolorose conseguenze della controversia ariana. Illuminanti in questo senso sono La lettera sulla concordia, un testo composto nel 360 che illustra anche i motivi alla base della sua scelta monastica comunitaria e non eremitica, e la Lettera 70 indirizzata, in qualità di vescovo di Cesarea, nel 371 a Papa Damaso (ma in realtà non pervenutagli) per invocare il conforto della Chiesa d’Occidente ai cristiani dell’Asia Minore.

 

Brillanti furono anche le epistole di Gregorio Nazianzeno che esprimono tutti i virtuosismi retorici e il talento oratorio appreso dai maestri ateniesi tanto da meritargli l’appellativo di Demostene cristiano da parte dei cronisti bizantini medievali. Meno incline rispetto a Basilio alle responsabilità della vita attiva e degli incarichi ecclesiastici, il Nazianzeno fu il primo grande poeta cristiano superando anche Apollinare di Laodicea ed Efrem il Siro, attivo nella prima metà del 300, le cui poesie furono perlopiù inni e sermoni dedicati a Maria e in contrapposizione alla dottrina gnostica.

 

La ritmica dei loro componimenti poetici ricalca sostanzialmente le leggi del metro antico, ma i versi di Gregorio Nazianzeno riflettono una teologia propriamente detta, ovvero da ultimo l’impossibilità per lo spirito umano di comprendere e definire gli attributi di Dio. Opera massima della sua produzione letteraria fu il poema autobiografico De Vita Sua, il ritratto interiore dei pensieri, delle speranze e dei sentimenti più intimi di un’anima cristiana, una sorta di anticipazione delle Confessioni di Sant’Agostino.

 

La limitatezza della conoscenza razionale di Dio fu invece il tema di fondo delle missive di Gregorio Nisseno, fratello minore di Basilio e di gran lunga il più filosofico della Triade dei Cappadoci. Egli assunse la formula platonica, secondo la quale l’occhio umano può contemplare i raggi della luce perché questa fa parte della sua natura, per concludere che l’ascensione mistica dell’uomo verso Dio è resa possibile solamente dal compiacere quell’elemento divino presente in ogni persona.

 

La ricerca teologica del Nisseno procedette principalmente sulle tracce del pensiero di Platone producendo anche il Dialogus de anima et resurrectione, un’opera composta poco dopo la morte di Basilio avvenuta nel 379 e considerata il corrispettivo cristiano del Fedone. Attraverso questa conversazione di stile platonico con la sorella Macrina che parla nel ruolo del maestro socratico, Gregorio espose le sue idee sull’immortalità dell’anima, destinata alla fine dei tempi a ristabilire con il corpo una unione perfetta.

 

Per molti versi le opere dei tre Padri Cappadoci furono quelle che, più di tutte, affinarono l’affermazione degli antichi filosofi secondo cui la ricerca filosofica esprimeva in fondo una capacità di auto-trasformazione. Attraverso i loro scritti è infatti possibile rintracciare un’esposizione della fede cristiana come una “filosofia” offerta da Dio, una “scuola di virtù” aperta a tutti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana, traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 1995.

J. Quasten, Patrologia Vol.II, I Padri greci dal Concilio di Nicea al Concilio di Calcedonia, Marietti, Torino 1967. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]