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N. 13 - Giugno 2006

L’ Umanesimo bizantino di Teodoro Metochite

L’Intervento del logoteta nel Monastero di Chora a Costantinopoli - Parte I

di Irene Simonelli

 

“Amici, adoratori di Dio, il vostro benessere mi è sempre stato a cuore in passato; ma soprattutto ora, che mi sono imbattuto in queste avversità, mi accorgo di desiderarlo più di quanto qualcuno abbia mai desiderato qualcosa. E’ questo, invero, il barlume di speranza che mi resta (…). Tuttavia, quando seppi della scomparsa di colui che ottimamente dirigeva la vostra vita secondo Dio (…) la notizia mi ha trafitto il cuore (…) Ciò che però è più deplorevole… è il pensiero che i miei affari sono in completa rovina, in assoluto sfacelo e che è stato distrutto con fragore il mio ricordo, come affermano le Sacre Scritture (…) io stesso subisco qui l’esilio e devo sopportare tante amarezze (…)” (Teodoro Metochite, con riferimento al Salmo 9-7, trad.dal greco di  M.V.Marini Clarelli,).

 

Così scriveva Teodoro Metochite ai monaci di Chora in occasione della morte del loro primo abate, l’egumeno Luca, dal suo esilio di Didimotichon (1328-1330).

 

Il Metochite, logoteta dell’Imperatore Andronico II, ne seguì infatti la sorte, pagando con l’esilio la fedeltà al suo benefattore, che nella notte fra il 23 ed il 24 maggio del 1328, fu costretto ad abdicare dal nipote (il futuro Andronico III) e fatto prigioniero.

 

L’ esilio durò due anni, trascorsi i quali egli potè, ormai stanco e malato, rifugiarsi nel suo adorato monastero e prendere i voti con il nome di Theolyptos. Lì rimase fino alla morte che sopraggiunse nel 1332. Analoga sorte toccò ad Andronico II, rinchiuso, dopo due anni di prigionia, in un monastero e costretto ad indossare il saio con il nome di Antonio. Anche per lui la morte giunse nel 1332.

 

Quella del Metochite fu, come testimonia la stessa epistola, una figura carismatica ma contrastata; da un lato grande intellettuale ed abile Ministro e Tesoriere, dall’altro, come sostennero i suoi nemici, personalità ambigua, che le vicissitudini della vita avevano resa avida e corrotta.

 

Così il suo intervento nella “Rinascenza dei Paleologi”, in particolare la sfarzosa impresa di riqualificazione del complesso monastico di Chora, sarebbe un gesto politico più che un tributo devozionale, con cui riscattare agli occhi di Dio e del suo popolo, gli errori commessi, dettati dalla cupidigia.

 

Ad ogni modo, a prescindere dalle intenzioni, la committenza del Metochite segnò un periodo di grande splendore per il monastero, destinato a diventare suo “rifugio e difesa”, e ne garantì la gloria presso i posteri. La costruzione fu infatti ampliata, decorata con cicli musivi e ad affresco raffiguranti l’opera salvifica di Dio e la sua profetizzazione, ed arricchita da una vasta e preziosa biblioteca, che il Metochite stesso definisce nell’epistola, una grande ricchezza senza prezzo, enorme, ineguagliabile ed indispensabile “forse non solo per lo stesso monastero (…) tanto è vagheggiata e ardentemente bramata da tutti gli uomini di lettere” (Teodoro Metochite, traduzione dal greco di M.V.Marini Clarelli,).

 

Il complesso programma iconografico dei cicli decorativi fu elaborato direttamente dal dotto logoteta ed improntato ad evidenziare il credo della Chiesa bizantina, in modo da attirare il consenso della popolazione, per la quale l’Ortodossia era sacra.

 

Quando, circa mezzo secolo prima, Michele VIII Paleologo, padre di Andronico II, tornò da Imperatore a Costantinopoli, sottraendola all’occupazione latina (1204-1261), si trovò a dover gestire l’eventualità di rivalse occidentali e preferì garantirsi l’appoggio del papato, accettando la sottomissione alla Chiesa di Roma e firmando a Lione (1274) il primo tentativo di riunificazione della Chiesa greco-ortodossa con quella romana.

 

Riuscì così facendo, a fermare la minaccia di Carlo d’Angiò (ed anzi contribuì a provocare l’insurrezione dei Vespri siciliani del 1282), tuttavia la sua politica determinò all’interno dell’Impero una grave contesa religiosa ma anche una forte pressione fiscale.

 

La strada delle grandi intese diplomatiche non fu seguita dal successore, Andronico II, il quale riacquistò si il favore popolare grazie alla sua posizione anti-unionista, ma condannò l’Impero ad un lento ed inesorabile ripiegamento dai territori asiatici e balcanici ed alla paralisi amministrativa.

 

La sua fu una politica matrimoniale mirata ad allontanare di volta in volta la minaccia dell’invasione dalle frontiere, e svolta grazie all’abilità diplomatica del Metochite, che consentì, all’Imperatore l’arresto dell’avanzata serba e l’allontanamento del marchese di Monferrato dalla corona di Tessalonica, ed al suo influente consigliere una brillante e rapida carriera.

 

Tuttavia, nonostante il travaglio delle vicende politiche, Costantinopoli conobbe, sotto Andronico II il suo ultimo momento di splendore, prima del profondo declino e dell’invasione ottomana del 1453.

 

La fioritura culturale dell’ epoca paleologa deve, in realtà, rendere merito al governo lascaride di Nicea (città in cui Teodoro I Lascaris trasferì la sede legittima dell’Impero in esilio dopo il 1204), dal quale ereditò la ripresa degli studi classici e della scrittura formale. Il risultato fu un’abbondante produzione letteraria che spazia dalla teologia alla retorica, dalla poesia alla storia e che proseguì più o meno costantemente fino al XV sec.

 

La drastica riduzione delle risorse fondiarie, diminuì tuttavia la committenza artistica degli Imperatori, per cui i Paleologi non esercitarono direttamente il ruolo avuto dai loro predecessori, ricoperto invece dalla corte, che si contese il patronato delle istituzioni religiose.

 

Il diritto canonico contemplava due forme di donazione: una, l’ephoreia, ufficiale ma priva di risvolti giuridici; l’altra, la ktetoreia,  che in precedenza aveva garantito al donatore la proprietà dell’ente beneficato, comportava una serie di riconoscimenti onorari come la commemorazione postuma, il diritto di sepoltura e a volte di residenza, e la celebrazione pubblica del committente attraverso immagini ed iscrizioni dedicatarie.

 

Nel XIII sec., la ktetoreia, originariamente riservata ai fondatori ed ai loro discendenti, fu estesa anche ai finanziatori di lavori di restauro e ricostruzione, tuttavia se l’ente fosse stato sotto la diretta amministrazione dell’Imperatore, non sarebbe stata concessa se non a lui o alla sua famiglia.

 

Quello del Metochite fu il primo caso in cui potè beneficiare della ktetoreia di una vasilike mone un membro della corte, estraneo alla famiglia imperiale ma fedele e stimato cosigliere dell’Imperatore Andronico II, il quale concesse una deroga in suo favore, dopo aver acconsentito alle nozze del fratello Giovanni con Irene, figlia del Metochite stesso.

 

Non si sa esattamente quando egli assunse la carica di ktetor, ma è probabile che ciò avvenne in concomitanza con l’inizio dei lavori di ripristino e decorazione del complesso monastico, cioè nel 1315.

 

Gli interventi edilizi promossi dal Metochite furono mirati a preservare ed ampliare le strutture preesistenti: furono conservati il naos a navata unica ed il profondo coro circolare ad est, risalenti all’ epoca comnena e ricostruite le cappelline ai lati dell’abside (pastophoria) e la cupola. Sul lato occidentale furono edificati due narteci, uno interno ed uno esterno e sul lato meridionale un parekklesion che avrebbe avuto funzione di cappella funeraria.

 

Dovendo adattare queste aggiunte alla struttura preesistente si produssero delle irregolarità: l’endonartece infatti, non è centrato rispetto alla navata e le due cupole sono fuori asse, con il risultato che la cupola sud (più grande della cupola nord) copre dall’esterno la vista del timpano. Disuguali sono anche le campate dell’esonartece, mentre il parekklesion presenta una scasione più regolare, con una campata coperta a volta ed una cupolata.

 

Esternamente, l’abside originaria del naos presenta una struttura muraria a “mattone arretrato”, mentre nell’abside del parekklesion troviamo fasce alternate di laterizio e blocchi di pietra (come nel vicino Tekfur Saraji, palazzo imperiale, prima opera in stile paleologo) movimentate da nicchie con semicolonne.

 

I capitelli originarii sono decorati con figure angeliche tra serti d’acanto che contengono una croce vegetalizzata o altri motivi vegetali.

 

Il restauro dell’intero complesso (che comprese anche un ospedale ed un refettorio pubblici) e la sua decorazione ebbero termine prima del 1321, anno in cui il Metochite assunse la più alta carica statale, quella di Primo Ministro; infatti, nella lunetta dell’endonartece che sormonta la porta di ingresso al naos, egli viene celebrato come committente ancora nelle vesti di Ministro del Tesoro Pubblico.

 

L’iscrizione accompagna la rappresentazione musiva del Cristo in trono, a cui il committente offre il modellino della chiesa, in segno di tributo e lode. Il Metochite vi è rappresentato vestito con il kabbadion e con in capo lo skiadion (fig.1).

 

 

(Fig.1) Endonartece: pannello musivo dedicatorio

 

Egli conservò la dedica della chiesa; così scrisse in una delle due poesie composte per Chora: ”A Te, Theotokos, offro questo monastero che anche anticamente veniva nominato con il tuo onoratissimo nome, tu Grande Chora, sacro e puro regno dell’Incontenibile Re…”.

 

Per quanto riguarda l’appellativo di “Chora”, ci furono tra i bizantinisti, due diverse scuole di pensiero. La prima sosteneva il significato di “dei campi” o “fuori le mura”, attribuendo al nucleo originale una datazione antecedente la costruzione delle mura di Teodosio II, terminata nel 413.

 

Seguendo questa impostazione furono fatti risalire, al periodo giustinianeo, una prima ricostruzione (a seguito del terremoto del 558) ed al VII sec. un secondo intervento, probabilmente posteriore all’assedio di Costantinopoli del 626 da parte dei Persiani.

 

In realtà appare assai difficile ricostruire un quadro preciso dello sviluppo architettonico della città nel periodo compreso tra il 610 e l’850, poiché una serie continua di disastri politici e militari (tra cui l’assedio arabo del 674-678 e del 717-718) nonché di carestie, pestilenze e terremoti, favorirono la costruzione di grandi opere utilitarie come acquedotti e fortificazioni, e la riparazione di quelle già esistenti ma gravemente danneggiate, come le mura della città, ricostruite dopo il terremoto del 740.

 

La seconda e più recente scuola di pensiero attribuisce alla chiesa del Redentore di Chora (Karije Camii) una datazione non anteriore al XI sec. Per Mango, infatti, come già per Oates ed Underwood, fu fuorviante il criterio applicato precedentemente, quello cioè del confronto delle piante, che giustificò per molto tempo una datazione corrispondente ai “secoli bui”.

 

Coperta da una grande cupola che poggia direttamente su quattro pilastri di mattoni, la chiesa presenta una pianta cruciforme con le braccia laterali molto ridotte, dovuta proprio alla sporgenza dei quattro sostegni nella navata centrale (fig.2). Per questa elaborazione formale l’edifico venne associato alla chiesa della Dormizione di Nicea ed alla S.Sofia di Tessalonica, risalenti alla fine del VIII sec. Tuttavia è stato appurato che questo tipo di pianta fu ripreso nel XII sec., come testimoniano la chiesa monastica di S.Abercio ad Elegmi (1162) e la Kalenderhane Camii di Costantinopoli (tardo 1100).

 

 

(Fig.2) pianta del complesso di Chora:

 il Naos (N) corrisponde al nucleo originario, l’Endonartece (e),

l’Esonartece (E) ed il Parekklesion(P) sono le aggiunte dovute al Metochite

 

La chiesa del Redentore viene quindi messa in relazione con la dinastia dei Comneni e fatta risalire (navata e abside centrale) all’inizio del XII sec., sotto il patronato di Isacco (1081-1118), figlio di Alessio I.

 

L’appellativo di “Chora” assume così un significato mistico-dottrinale: “tempio” dei viventi, quando viene attribuito a Cristo, e “tempio” dell’Incontenibile, quando viene attribuito alla Vergine Theothokos, entrambi dedicatari della chiesa e del monastero.

 

Il complesso discorso iconografico dei cicli decorativi, ideato dal Metochite, ruota infatti intorno alle iscrizioni “Chora dei viventi” (“ΙC XC ή χώρα των ζώντων”) e “Chora dell’Incontenibile” (“MP ΘΥ ή χώρα τοΰ Αχωρήτου”), che accompagnano le raffigurazioni di Cristo e della Theotokos, e che traggono spunto dalle lodi alla Vergine “Chorion-Chora dell’Incontenibile”, e dal salmo 114, 9 “Camminerò nella Chora dei viventi”, che contiene la promessa divina della salvezza: “non sono Dio dei morti, ma Dio dei viventi”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

C.Mango, Architettura Bizantina, Electa, Milano, 1977

M.V.Marini Clarelli, Il monastero del Gran Logoteta, in FMR n.81, Franco Maria Ricci editore, Milano, 1990

T. Metochite, Serbate i libri, trad.dal greco di M.V.Marini Clarelli in Il monastero del Gran Logoteta, FMR n.81, Franco Maria Ricci editore, Milano, 1990

S.Pasi, Il ciclo del Ministero di Cristo nei mosaici della Karije Djami: considerazione su alcune scene, in “L’arte di Bisanzio e l’Italia al tempo dei Paleologi 1261-1453”, a cura di A.Iacobini e M.della Valle, Argos, Roma, 1999

AAVV, Enciclopedia dell'arte medievale, vol. IX, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Roma, 1998

D.Talbot Rice, Arte di Bisanzio, Sansoni, Firenze, 1959

I.Zervou Tognazzi, Il Monastero di Chora a Costantinopoli, “opera di un nobile amore e frutto di una mente saggia”, in “L’arte di Bisanzio e l’Italia al tempo dei Paleologi 1261-1453”, a cura di A.Iacobini e M.della Valle, Argos, Roma, 1999

 



 

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