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N. 143 - Novembre 2019 (CLXXIV)

il caso del tribuno C. cornelio (67 a.c.)

una rilettura della vicenda alla luce della testimonianza

di asconio e cassio dione

di Laura Losito

 

Negli anni 70 del I secolo a.C., a seguito dello smantellamento dei punti essenziali delle riforme politico-istituzionali sillane, si avvertì la necessità di una regolamentazione scritta delle procedure istituzionali, in particolare modo in relazione alle competenze delle assemblee e del Senato. Infatti quest’ultimo, uscito rafforzato dal disegno sillano ai danni della magistratura popolare ridotta a una immago sine re, si era arrogato nel corso del tempo, a partire dalla metà del II a.C., una serie di prerogative che evidentemente, per consuetudine, non gli competevano.

 

Il processo di ridefinizione degli equilibri fu avviato alla metà degli anni Settanta del I secolo a.C., attraverso una serie di provvedimenti che avevano come obiettivo la riabilitazione in pieno dei poteri dei tribuni e quindi dei concilia plebis depauperati delle proprie funzioni durante la dittatura sillana. Infatti, con una lex Aurelia de tribunicia potestate del 75 a.C., il tribuno Gaio Aurelio Cotta fece abolire in parte le disposizioni sillane avverse al tribunato e in particolar modo quella relativa al divieto per i tribuni di ricoprire altre cariche magistratuali.

 

Il tracollo definitivo delle istituzioni sillane verrà inferto da quegli stessi generali che si erano distinti con l’ascesa di Silla; così, con la lex Pompeia Licinia de tribunicia potestate del 70 a.C., i consoli Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso abolirono le norme avverse ai tribuni della lex Cornelia de tribunicia potestate dell’82 a.C. In realtà questi provvedimenti non neutralizzarono la potentia del Senato sillano, né alleggerirono il suo peso politico in campi del diritto che non erano di sua competenza, come per esempio la facoltà, che si era arrogato, di dispensare singoli cittadini dall’osservanza di una determinata legge senza prima passare dai comitia.

 

La competenza in merito alla solutio legibus spettava logicamente al popolo riunitosi in assemblea, come testimoniato dall’antico diritto, ma già dal IV-III secolo a.C., in casi d’urgenza, il Senato poteva dispensare dall’osservanza di determinate leggi alcuni individui, salvo poi richiedere la convalida popolare.

 

È il caso del console del 308 a.C. Quinto Fabio Rulliano, il quale nell’ambito della terza guerra sannitica fu dispensato su volere del Senato, con un plebiscitum de lege solvendo Q. Fabio Rulliano del 298 a.C., dal plebiscito ne quis eundem magistratum intra decem annos caperet assegnato da Tito Livio al 342 a.C., che vietava la rielezione di uno stesso console alla medesima magistratura entro dieci anni.

 

Dal medesimo provvedimento votato nel 342 a.C. saranno dispensati con un plebiscitum de lege solvendis consularibus del 217 a.C. tutti i consulares impegnati nel secondo conflitto punico. Tale modo di procedere del Senato si accentuerà alle soglie del I secolo a.C. in cui, uscito potenziato dai disegni sillani e poco scalfito dalla legislazione popularis degli anni Settanta del I secolo a.C., procederà autonomamente alla dispensa di singoli individui senza più portare la questione al popolo.  

 

È in questo panorama segnato fortemente dal mancato rispetto del Senato delle procedure istituzionali, così come erano state pensate dall’antico diritto, che i concilia plebis riuscirono a eleggere per l’anno 67 a.C. un tribuno della plebe capace di farsi promotore delle istanze riformistiche: Gaio Cornelio. Nell’anno 67 a.C., sotto il consolato di M. Acilio e C. Pisone, il tribuno Cornelio sottopose al voto popolare la lex Cornelia de legibus solvendo, con la quale cercò di riaffidare l’ultima parola in materia di solutio legibus al popolo, ripristinando così la consuetudine che a partire dal II secolo a.C. era totalmente disattesa.

 

Per tentare di comprendere gli sviluppi e la portata di tale provvedimento, bisognerà fare riferimento alla tradizione della lex Cornelia de legibus solvendo, che si mostra duplice. Infatti, il contesto in cui fu proposto e votato tale dispositivo è narrato, in maniera differente almeno nei suoi presupposti, da due fonti autorevoli quali il commento di Asconio Pediano alla ciceroniana Pro Cornelio de Maiestate del 65 a.C. e la Storia Romana di Cassio Dione.

 

Per lo storico Asconio, il motivo che diede avvio al contrasto tra il tribuno Cornelio e il Senato è la relatio del primo in materia di prestiti a interesse ai provinciali, che stabiliva ne quis legatis exterarum natiorum pecuniam expensam ferret del 67 a.C. Tale proposta era stata avanzata da Gaio Cornelio nel tentativo di evitare gli sconci dell’usura a danno dei legati stranieri. Il Senato rigettò questa sua mozione e formalmente decise che c’erano sufficienti dispositivi di tutela, in questo ambito, istituiti da decreti senatori che furono votati precedentemente, ovvero sotto il consolato di L. Domitius e C. Coelius, come per esempio il senatoconsulto del 94 a.C. con il quale si decretò che nessuno avrebbe dovuto prestare soldi a usura ai Cretesi.

 

Irritato da ciò Cornelio protestò nella contio e propose una legge che stabiliva che il Senato non potesse concedere dispense da determinate leggi a singoli individui senza il consenso del popolo. Il testo fu male accolto dal Senato e bloccato dal veto del tribuno della plebe P. Servilius Globulus, esortato dagli stessi patres, che vedevano svilita la loro autorità. Così, nella narrazione di Asconio, all’intervento di P. Servilius Globulus che impedì al banditore di leggere al popolo, riunito in assemblea, il progetto di legge di Cornelio, questi si oppose recitando egli stesso il testo (tum Cornelius ipse codicem recitavit) e così impedendo il veto sulla scorta dell’esperienza di Tiberio Gracco e del tribuno Manilio.

 

La violenta reazione del console Pisone e l’accusa rivolta al tribuno del 67 a.C. di voler eliminare l’intercessio tribunicia trovano probabilmente ragione nella lex Cornelia de maiestate dell’81 a.C. Infatti, in quell’anno Silla dittatore indicava tra i reati di maiestas l’iniziare ostilità senza il consenso del Senato o del popolo, e in genere gli atti dei magistrati contrari alla dignità dello stato. Per questo motivo Cornelio sarà poi posto sotto processo per il crimen de maiestate nel corso del quale fu difeso da Cicerone.

 

Durante il secondo processo, svoltosi nel 65 a.C., Cicerone orienterà la sua difesa sul fatto che Cornelio non avesse violato la legge de maiestate proposta sotto Silla, perché dopo il veto del collega aveva, sì, letto personalmente il testo della sua rogatio, ma «non per il gusto di leggerlo ad alta voce» bensì «per riesaminarlo punto per punto» (Ascon., Corn., 59. 3-4 Cl.).

 

Invero alcuni studiosi moderni, ritengono che anche se si accettasse l’ipotesi del Mommsen ovvero che fosse vietato, nella tarda repubblica, ai tribuni di leggere in prima persona la propria proposta di legge all’interno dell’assemblea, tale modo di fare non rappresenterebbe una violazione della lex Cornelia de maiestate. Dal resoconto di Asconio si evince che a seguito delle accuse mosse dal console Pisone, il popolo tumultuando gli spezzò i fasci e lo fece oggetto di lanci di pietre e per questo l’assemblea fu sciolta. Successivamente Cornelio sottoporrà all’attenzione del Senato un disegno di legge più morbido: si richiedeva la presenza di almeno duecento senatori presenti perché una delibera sulla solutio legibus potesse essere considerata valida; qualora qualcuno avesse voluto portare la proposta al popolo non vi sarebbe stato diritto di veto.

 

Conclusione amara quella dello storico Asconio il quale intuisce sin da subito come la lex Cornelia de legibus solvendo avesse in realtà concesso una ulteriore legittimazione del potere del Senato; infatti il diritto che si era arrogato, ovvero quello di dispensa, gli verrà concesso per legge.

 

Secondo il resoconto di Cassio Dione nel libro trentaseiesimo delle sue Storie, il motivo di scontro tra il tribuno Cornelio e il Senato è la rogatio Cornelia de ambitu del 67 a.C. che proponeva l’inasprimento delle pene contro i candidati convinti di ambitus e contro i loro favoreggiatori. Il Senato, ritenendo che le penalità imposte dalla legge di Cornelio fossero eccessive, intimò ai consoli dell’anno M. Acilio e C. Pisone di preparare un contro progetto: lex [Acilia] Calpurnia de ambitu del 67 a.C. Tale dispositivo che prevedeva pene più morbide per chi avesse commesso brogli, passò ai comizi senza rispettare i termini delle leges Aelia et Fufia del 158 a.C. circa, ovvero prima delle elezioni.

 

Il tribuno Cornelio, irritato dalla libertà con la quale il Senato riusciva a manipolare le leggi e a non rispettarle, a seguito della dispensa dei consoli per l’anno 67 a.C. dalla lex Fufia, propose che: «fosse vietato ai senatori di dare una carica a chi l’avesse chiesta in modo contrario alla legge e di prendere decisioni che fossero di competenza del popolo». Durante l’assemblea radunata per votare la legge, il popolo spezzò i fasci del console Pisone e tentò di farlo a pezzi; così Cornelio sciolse l’assemblea. Poi dopo averla riconvocata, il tribuno aggiunse alla sua proposta di legge in merito alla solutio legibus la clausola (προσγράφειν τ νόμ) che il Senato a tutti i costi discutesse preliminarmente la questione e che il popolo necessariamente approvasse le deliberazioni del Senato.

 

Come si è potuto notare, il resoconto di Asconio e quello di Cassio Dione in merito alla tradizione della lex Cornelia de legibus solvendo del 67 a.C., differiscono unicamente sull’occasione che spinse il tribuno a presentare una proposta di legge in materia di solutio legibus. Ancora oggi gli studiosi dubitano circa l’attendibilità delle due fonti prevenuteci.

 

Seguendo la dettagliata analisi dello storico William McDonald il rifiuto del Senato della proposta di Cornelio ne quis legatis exterarum natiorum pecuniam expensam ferret del 67 a.C. in merito ai prestiti a interesse ai provinciali, non sembra essere un motivo sufficiente per spiegare perché Cornelio abbia replicato con la proposta in merito alla solutio legibus. Uno sviluppo più logico è rintracciato da McDonald nel resoconto tramandato da Cassio Dione. Infatti, se si accogliesse la testimonianza dello storico del II d.C., vi troveremmo un logico nexus tra la legge ne quis nisi per populum legibus solveretur e il modo di procedere del Senato, irrispettoso delle leggi che concesse una solutio legibus al console C. Pisone del 67 a.C. dalla lex Fufia del 158 a.C. circa per far passare prima delle elezioni, la lex [Acilia] Calpurnia de ambitu del 67 a.C. A differenza di quanto precedentemente affermato, la studiosa Miriam Griffin sembra invece dare credito alla testimonianza conservata nel commento di Asconio alla ciceroniana Pro Cornelio de Maiestate del 65 a.C.

 

Infatti, per la ricercatrice, il resoconto offerto da Cassio Dione presenta una serie di difficoltà insormontabili che inficiano l’attendibilità del suo discorso, supportata anche dalla impossibilità di identificare le fonti dello stesso storico. Prima fra tutti, Cassio Dione attribuisce a entrambi i consoli dell’anno 67 a.C., ovvero M. Acilio e C. Pisone, il passaggio della lex [Acilia] Calpurnia de ambitu del 67 a.C.  È questo, per la Griffin, chiaramente un errore perché i frammenti del primo discorso di Cicerone in difesa di Cornelio del 65 a.C., danno prova che un console fu coinvolto nella vicenda e tale console fu appunto C. Pisone. In seconda analisi, nel testo delle due arringhe Pro Cornelio e dunque nel commento di Asconio, non vi è alcuna menzione alla rogatio Cornelia de ambitu del 67 a.C. che è invece presente nella vicenda riportata da Cassio Dione.  È probabile dunque, per la studiosa, che Dione perché interessato a mettere in luce il tema della corruzione, abbia preferito menzionare la misura di Cornelio in merito alla corruzione prima di quella relativa ai prestiti a interesse ai provinciali.

 

La validità, secondo la Griffin, del resoconto di Asconio è garantita dalla conoscibilità delle sue fonti, in primis i due discorsi Pro Cornelio di Cicerone ma tale forza si trasforma in debolezza se si prende in considerazione l’ipotesi che, probabilmente, Asconio abbia semplicemente ripreso l’ordine degli eventi offerto da Cicerone, nella modalità più congeniale a una arringa.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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