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N. 15 - Agosto 2006

IL TRIANGOLO STRATEGICO

Le relazioni tra gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone negli anni ’70

di Francesca Panasiti

 

L’analisi delle relazioni bilaterali sino-americane, sino-giapponesi e nippo-americane dopo la seconda guerra mondiale ha consentito di rilevare negli anni settanta la nascita e lo sviluppo di un sistema strategico triangolare innescato dall’annuncio del viaggio di Nixon a Pechino. E’ possibile individuare i presupposti per la formazione di questi complessi rapporti trilaterali nella combinazione di alcuni fattori: la reazione degli Stati Uniti alla crisi economica interna, all’avanzata sovietica nella corsa agli armamenti, alla necessità di comporre in tempi brevi il conflitto vietnamita e la risposta della Repubblica Popolare cinese all’isolamento politico ed economico derivante dal deterioramento delle relazioni sino – sovietiche.

 

La formazione del suddetto sistema triangolare s’inserì in un panorama politico e strategico, quale quello del sudest asiatico, storicamente caratterizzato dall’assenza di un nemico comune e privo di istituzioni di sicurezza multilaterali o collettive, la cui creazione era resa ancor più difficile dal ricordo dell’aggressione nipponica subita da alcuni paesi prima e durante la seconda guerra mondiale. In questo quadro gli Stati Uniti erano considerati l’unico alleato affidabile, come dimostrano i trattati di sicurezza stipulati dal governo americano con il Giappone (1951), le Filippine (1952) e la Corea del Sud (1954), che però non stabilirono tra loro nessun accordo, eccetto il ripristino dei normali rapporti diplomatici. Questa fu un’altra caratteristica tipica del sistema di sicurezza dell’estremo oriente che lo differenziò in maniera radicale da quello occidentale: i paesi alleati con la superpotenza americana non contrassero vincoli di sicurezza reciproca, come accadde invece per i paesi europei che aderirono alla Nato, cosicché il peso economico e politico del “contenimento” dell’espansione e dell’influenza comunista nell’area gravò unicamente sulle casse e sul governo degli Stati Uniti, logorandone nel tempo le capacità ed erodendone la preponderanza.

 

Quando Richard Nixon assunse la presidenza degli Stati Uniti all’inizio del 1969, si trovò subito ad affrontare una difficile situazione strategica: i servizi segreti avevano rivelato che la corsa sovietica agli armamenti stava riducendo sempre di più il vantaggio americano, fino ad allora rimasto incontestato, mentre gli Stati Uniti non solo non erano più in grado di mantenere invariata l’entità dei loro stanziamenti per la produzione di armi ma erano anche costretti a ridurre i finanziamenti destinati ai vari interventi bellici nel mondo. Oberata dal fardello di una strategia difensiva di cui era l’unica garante, minacciata dalla crescita militare dell’Unione Sovietica, vessata da problemi interni quali l’inflazione e la disoccupazione e angustiata dal prolungarsi del conflitto vietnamita, l’amministrazione Nixon nel 1969 fu costretta ad un parziale ritiro sul fronte asiatico, annunciato attraverso la diffusione della cosiddetta “dottrina di Guam”, che mirava a diminuire gli interventi militari ed economici statunitensi in Asia, richiedendo ai paesi asiatici alleati di provvedere in maniera più autonoma alla propria difesa. Sebbene questo non significasse assolutamente il ritiro degli Stati Uniti dalla politica asiatica, esisteva comunque il rischio che il vuoto inevitabilmente lasciato dagli americani venisse colmato dall’Unione Sovietica, pronta ad estendere la propria influenza sui paesi asiatici non-comunisti. L’unica ancora di salvezza per puntellare la propria forza in estremo oriente venne individuata dalla Casa Bianca nella possibilità di sfruttare a proprio vantaggio la gravità della frattura sino – sovietica e nella prospettiva di una rapida trasformazione del sistema internazionale dalla bipolarità alla multipolarità.

 

Da un’eventuale alleanza sino-americana i sovietici avrebbero potuto sentirsi minacciati, la bilancia del potere avrebbe iniziato a pendere dalla parte americana obbligando forse l’Unione Sovietica a nuovi passi di distensione nei confronti degli Stati Uniti, riducendo dunque i rischi di una guerra nucleare. Gli americani inoltre speravano di ricavare dal miglioramento delle relazioni con la Cina un altro vantaggio ancora più importante: la risoluzione del conflitto vietnamita, che stava impegnando le forze statunitensi in Indocina a costi altissimi, con un elevato numero di perdite umane e continuava ad alimentare la disapprovazione di una parte sempre più cospicua della popolazione in tutti gli Stati Uniti, dove sempre più frequentemente venivano inscenate manifestazioni contro la guerra. Con l’aiuto di Pechino Washington pensava di poter convincere i comunisti vietnamiti a raggiungere un accordo che avrebbe permesso agli Stati Uniti di ritirarsi senza dover fare concessioni giudicate inaccettabili in patria. Bisogna anche considerare che la ricomposizione dei rapporti con la Cina presentava all’amministrazione Nixon l’opportunità di conquistare un nuovo mercato, tra i più promettenti in campo internazionale, e quindi la possibilità di arginare, almeno in parte, la crisi economica.

 

Negli anni ’50 e ’60, gli Stati Uniti avevano portato avanti parallelamente due “progetti”, uno esterno ed uno interno al sistema capitalista: il primo consisteva nel contenimento del comunismo e dei paesi, Unione Sovietica e Repubblica Popolare cinese, che principalmente costituivano e rappresentavano quello che appariva allora come un unico blocco monolitico; il secondo si basava invece sulla creazione di un’intelaiatura di alleanze all’interno del proprio blocco, nel quale Washington forniva assicurazioni relative alla sicurezza e allo sviluppo economico.

 

In questo contesto il Giappone era stato incorporato nel sistema statunitense come partner minore il cui ruolo, come stabilito dal Trattato di sicurezza, era quello di agevolare la proiezione del potere americano in estremo oriente, per ricevere in cambio assistenza economica e militare. L’alleanza bilaterale con Washington però sottoponeva Tokyo ad una duplice paura, ciò che potremmo definire “il dilemma della sicurezza”: da un lato il timore dell’abbandono, per defezione della controparte predominante o a causa del riallineamento di quest’ultima con altri partner; dall’altro, la preoccupazione di rimanere coinvolti in un conflitto derivante dagli interessi strategici dell’alleato maggiore ma sostanzialmente estranei ai propri. La bipolarità che caratterizzò la scena internazionale postbellica escluse completamente il primo rischio, perché incompatibile appunto con la logica dei due blocchi, lasciando più o meno intatto il secondo, anche se l’inconsistenza del potenziale bellico nipponico e i dettami della Costituzione del 1947 rendevano altamente improbabile, se non impossibile, un diretto coinvolgimento del Giappone nelle guerre sostenute dagli Stati Uniti. Nello stesso scenario la Repubblica Popolare cinese era considerata da Washington un membro a tutti gli effetti del blocco comunista e trattata come tale nonostante le prime avvisaglie della spaccatura sino – sovietica degli anni ’60.

 

Il deterioramento dei rapporti tra Pechino e Mosca, iniziato alla fine degli anni ’50, si era manifestato concretamente dapprima nel 1959 con la denuncia da parte dell’Unione Sovietica del Trattato di Cooperazione Atomica in Materia di Difesa Nazionale, poi nel 1960 con la rottura degli accordi economici e il richiamo in patria dei tecnici sovietici. Dalla fine degli anni ’50 i disaccordi e le polemiche erano cresciuti di numero e d’intensità e avevano riguardato vari aspetti della politica interna ed estera dei due paesi: la critica sovietica contro il culto della personalità, letta a Pechino come un’accusa diretta al Presidente Mao; la disapprovazione di Mosca per il Grande Balzo in avanti, lanciato da Pechino nel 1958; il mancato appoggio dei russi ai cinesi nella guerra condotta da questi ultimi contro l’India; il confronto ideologico tra il revisionismo del Cremlino e il radicalismo della leadership cinese; il tentativo cinese di contestare a Mosca il ruolo privilegiato di centro dell’ortodossia ideologica comunista.

 

Durante la Rivoluzione Culturale, negli anni 1966-67, erano cresciute le manifestazioni xenofobe dirette non solo contro l’imperialismo americano ma anche contro l’espansionismo dell’Unione Sovietica, annoverata in quel momento tra i paesi sfruttatori attraverso l’introduzione del concetto di “social – imperialismo”. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, esempio tangibile dell’applicazione pratica della cosiddetta “dottrina Breznev”, e soprattutto gli scontri lungo il confine sino – sovietico nel 1969, a partire dall’incidente del 2 marzo sull’isola di Zhen Bao, forse convinsero i cinesi che l’ipotesi di un eventuale attacco sovietico era del tutto plausibile e spinsero Pechino ad un rapido riavvicinamento con Washington. A questo si aggiunse inoltre la prospettiva dei vantaggi economici: la Cina, grazie al recupero dei rapporti con gli Stati Uniti, avrebbe potuto importare le tecnologie necessarie per la propria modernizzazione e probabilmente sarebbe riuscita anche ad ottenere ulteriori scambi commerciali con l’Europa occidentale e il Giappone.

 

In sintesi, la ricerca di un nuovo sistema di alleanze da parte della Cina scaturiva dal timore di subire un accerchiamento derivante dall’eventuale distensione tra le due superpotenze oppure di ritrovarsi a sostenere un impossibile conflitto su due fronti, sia contro gli americani che contro i sovietici, e rappresentava la sua reazione all’isolamento politico ed economico seguito alla rottura con l’Unione Sovietica.

 

La riconciliazione sino – americana alterò inevitabilmente anche gli equilibri dell’alleanza nippo – statunitense: nell’ottica giapponese la possibilità che Washington volesse sostituire Tokyo con Pechino nel proprio sistema d’alleanze diffuse un sentimento d’abbandono nella leadership nipponica, sebbene tale ipotesi fosse assolutamente lontana dagli obiettivi dell’amministrazione americana. Ciò che effettivamente accadde fu una diminuzione del valore strategico del paese del Sol Levante che si verificò per gradi a partire dal 1969 e che prima della fine degli anni ’70 subì un’inversione di tendenza.

 

E’ possibile riassumere tre fasi nelle relazioni sino – americane – giapponesi fino al 1972, in modo tale da poter verificare l’evoluzione che permise infine la formazione di un triangolo caratterizzato dalla natura sostanzialmente positiva dei legami instauratisi tra tutti i suoi membri.

 

Nel primo periodo, prima che Nixon diventasse Presidente, le relazioni fra i tre paesi furono caratterizzate da un’alleanza solida, quella nippo – statunitense e due legami negativi, i rapporti sino – americani e sino – giapponesi. Infatti fino a quando il nuovo atteggiamento dell’amministrazione americana non liberò il Giappone dalle limitazioni imposte da Washington verso Pechino, il governo di Tokyo perseguì una strategia di separazione degli affari politici da quelli economici, nota come seikei bunri (政経分離), supportando ufficialmente la politica statunitense d’isolamento diplomatico verso la Cina comunista, pur sviluppando con quest’ultima relazioni commerciali di basso profilo attraverso canali privati e semiufficiali.

 

Nella seconda fase, dopo l’elezione di Nixon, il numero dei legami positivi salì a due, l’alleanza nippo – statunitense e il riavvicinamento sino – americano, e ne rimase solamente uno negativo, quello tra Tokyo e Pechino.

 

Attraverso il nuovo allineamento con Pechino, Kissinger sperava di ottenere alcune concessioni dall’Unione Sovietica in materia di distensione, che altro non era se non una forma alternativa di contenimento, e una soluzione rapida e onorevole del conflitto vietnamita.

 

La segretezza dei viaggi di Kissinger a Pechino e la mancata comunicazione, in tempo utile, al governo giapponese del cambiamento della politica estera statunitense verso la Cina comunista, testimoniano che gli Stati Uniti inizialmente non desideravano che il Giappone rafforzasse i propri legami con la RPC. Al contrario Washington cercò di sfruttare al meglio i meccanismi della relazione triangolare, avvantaggiandosi della propria posizione di “pivot” ed evitando che le “ali” si coalizzassero tra loro. In questo modo la Casa Bianca poté continuare ad addurre la minaccia del comunismo come pretesto per barattare il proprio impegno nel garantire la sicurezza giapponese con alcune concessioni del governo di Tokyo nella questione di Okinawa. Inoltre il riavvicinamento con la Cina, ridimensionando il valore strategico dell’Arcipelago nipponico e instillando nelle menti della leadership giapponese il timore dell’abbandono, consentì per la prima volta agli Stati Uniti, nei propri rapporti con il Giappone, di attribuire una maggiore rilevanza alla rivalità economica piuttosto che all’alleanza difensiva: Tokyo fu costretta a cedere alle richieste statunitensi riguardanti sia la disputa sui prodotti tessili che la rivalutazione dello yen. La Repubblica Popolare cinese, da parte sua, decise di accettare l’esistenza dell’alleanza nippo – statunitense come garanzia della non-rinascita del militarismo nipponico, accogliendo pertanto l’interpretazione americana sulla questione.

 

Infine nella terza fase il ripristino delle relazioni sino – giapponesi consentì la formazione di un triangolo avente tutti legami positivi. La normalizzazione dei rapporti con il Giappone, nell’ottica cinese, rafforzava la posizione di Pechino nei confronti dell’Unione Sovietica grazie all’introduzione della clausola antiegemonica all’interno del comunicato congiunto del 29 settembre 1972. Il nuovo allineamento con Pechino causò non poche difficoltà a Tokyo nei rapporti con Mosca, in particolare per il progetto di cooperazione per lo sviluppo della Siberia che si supponeva potesse avvantaggiare le operazioni militari sovietiche lungo il confine con la Repubblica Popolare cinese. L’Unione Sovietica, che aveva tentato di coinvolgere il Giappone nel proprio piano per la creazione di un sistema di sicurezza collettiva in Asia, assistette al sostanziale fallimento del proprio obiettivo: Tokyo, che aveva sempre cercato di mantenere una posizione equidistante tra Mosca e Pechino, cominciava ad “inclinare” più verso la seconda che verso la prima, e anche gli altri paesi del sudest asiatico non esitarono a manifestare le proprie perplessità di fronte ad un progetto che li contrapponesse di fatto alla Repubblica Popolare cinese.

 

All’inizio del 1974 Mao formulò una nuova dottrina, la cosiddetta “teoria dei tre mondi”, per spiegare i mutati rapporti di forza tra le potenze. Il sistema internazionale veniva suddiviso in tre parti: il primo mondo, costituito dalle due superpotenze, così denominate per la loro comune caratteristica di perseguire l’egemonia; il secondo mondo, cui appartenevano il Giappone, l’Europa e il Canada; il Terzo Mondo, che comprendeva gli altri paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, inclusa la Repubblica Popolare cinese. Nonostante la collocazione delle due superpotenze nello stesso gruppo, il timore per la minaccia di un attacco sovietico spingeva Pechino a concentrare i propri attacchi su Mosca, considerata il pericolo maggiore, piuttosto che su Washington.

 

La nascita dell’entente sino – nippo – americana e la condizione di momentaneo isolamento vissuta dall’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’70, innescarono un’energica reazione del Cremlino, che poteva avvalersi non solo della parità raggiunta con gli Stati Uniti nel campo degli armamenti nucleari ma anche del potenziamento della propria flotta navale. Mosca cominciò a perseguire una politica d’affermazione della propria influenza nelle aeree periferiche, intervenendo nei conflitti locali allo scopo di crearsi degli “stati – amici”. Questa strategia venne inaugurata nello Yemen e poi applicata in Somalia e in Angola ma ricevette un nuovo impulso dalla conclusione della guerra in Vietnam.

 

Il trattato di pace venne firmato infine a Parigi il 23 gennaio 1973 ma tutte le parti coinvolte compresero che le due fazioni vietnamite avrebbero ripreso presto la loro battaglia per l’unificazione: al ritiro delle truppe americane seguì un breve periodo in cui i combattimenti diminuirono di frequenza, di intensità e di durata come se entrambe le parti si preparassero per lo scontro finale, ma all’inizio del 1975 Vietcong e Nordvietnamiti lanciarono un offensiva che sgretolò l’esercitò di Saigon.

La caduta di Saigon e la ritirata precipitosa degli americani rimasti in loco sembrarono testimoniare un’ effettiva diminuzione del potere americano in estremo oriente: il governo giapponese cominciò a riconsiderare il valore e l’utilità dell’alleanza con gli Stati Uniti, nonostante il tempestivo lancio, da parte del Presidente Ford, della cosiddetta “dottrina del Pacifico”, che sostanzialmente riconfermava l’impegno e gli interessi statunitensi nel Pacifico.

 

D’altro canto il 1975 era stato anche l’anno della firma degli accordi di Helsinki, con i quali Washington aveva cercato di stabilire con Mosca le condizioni della distensione in Europa e che erano stati duramente criticati da Pechino, e anche l’anno della cosiddetta “dottrina Sonnenfeld”, dal nome di uno stretto collaboratore di Kissinger secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto cercare un approccio più realistico nelle relazioni con l’Unione Sovietica, riconoscendo la dottrina della sovranità limitata di Breznev del 1968 in cambio del mantenimento dello status quo in occidente.

 

La campagna elettorale di Carter, che si apriva con la promessa di ritirare le truppe americane dalla Corea del Sud, lasciava presagire un ulteriore disimpegno degli Stati Uniti in estremo oriente, anche se poi la politica statunitense cambiò direzione, condizionata dall’oscillazione del suo Presidente tra la posizione del Segretario di Stato Cyrus Vance, convinto assertore di una politica di cooperazione con i sovietici per arrivare ad una autentica distensione, e quella del Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Zbigniew Brzezinski, che invece cercava di unire ed incrementare le forze d’opposizione contro l’espansionismo sovietico. In quest’ottica il valore strategico attribuito da Brzezinski all’Arcipelago giapponese superava quello conferitogli da Kissinger negli anni precedenti, come dimostrano da un lato la diminuzione delle frizioni economiche con l’alleato statunitense, dopo l’apice raggiunto nella disputa sui prodotti tessili nel 1971, dall’altro le pressioni americane e cinesi per un rapido riarmo del paese del Sol Levante, che permettesse a Tokyo di difendere in maniera autonoma il proprio territorio così da consentire agli Stati Uniti di concentrare i propri sforzi contro le minacce alla sicurezza dell’intera regione. Dalla metà degli anni ’70 il moltiplicarsi degli interventi dell’Unione Sovietica per estendere la propria influenza confermarono la validità delle valutazioni di Brzezinski sull’entità dell’espansionismo sovietico mentre il rapido e progressivo accostamento di Hanoi a Mosca favoriva lo sviluppo del progetto vietnamita di una Federazione di Stati Indocinesi, incontrando l’opposizione di Pechino che invece cercava di mantenere l’indipendenza del Laos e della Cambogia.

 

Il fallimento dei colloqui russo – nipponici per la conclusione di un trattato di pace e l’immediato successivo accordo commerciale sino – giapponese; la sospensione degli aiuti cinesi al Vietnam in risposta al trattamento inflitto alla minoranza cinese nel Vietnam del Sud nel quadro della brusca assimilazione di quest’ultimo al rigido modello nordvietnamita; l’adesione del Vietnam al Comecon; il trattato sino – giapponese dell’agosto 1978,  la conclusione del trattato di amicizia sovietico – vietnamita nel novembre dello stesso anno; la normalizzazione sino – americana annunciata il 15 dicembre costituirono una successione di eventi che videro una continua contrapposizione tra l’intesa sino–nippo–americana e l’Unione Sovietica.

 

Il trattato di pace e di amicizia sino – giapponese e la normalizzazione sino – americana costituiscono gli atti conclusivi del primo stadio di sviluppo del triangolo strategico. Le prospettive di questa interpretazione però sono ancora ampie e, in particolare, riguardano la possibile estensione dello studio lungo le linee del tempo e dello spazio: nel primo caso si tratterebbe di analizzare le evoluzioni dell’intesa trilaterale dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan ma soprattutto dopo i fatti di Tienanmen del giugno del 1989 e la caduta del muro di Berlino nel novembre dello stesso anno, fino a considerare le ripercussioni sui rapporti sino–nippo–statunitensi di eventi quali la dissoluzione dell’Unione Sovietica del 1991 e, più recentemente, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001; nel secondo, significherebbe valutare i meccanismi della triangolazione in tutti quei contesti d’instabilità politica, come ad esempio il caso dell’Angola, nei quali le tre potenze furono più o meno coinvolte, pur tenendo in debito conto l’apporto inferiore del Giappone in tali situazioni, a causa dei limiti imposti dal suo ridotto potenziale bellico e dai dettami della sua Costituzione.

 



 

 

 

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