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N. 126 - Giugno 2018 (CLVII)

quando la speranza fece naufragio
la saint-louis e il s
u “caricodisperato
di Stefano Coletta 

 

In seguito alla promulgazione delle leggi razziali, la vita degli ebrei nei paesi governati dal regime nazista divenne difficile, e tale situazione raggiunse il suo acme nel 1939, anno in cui la comunità ebraica tedesca si rese conto che esisteva un piano finalizzato alla sua eliminazione. Molti ebrei decisero quindi di emigrare, ma non era facile, dal momento che nessun paese europeo li accettava senza fare storie, per paura di vedersi piombare in casa una marea di profughi difficilmente gestibile.

 

Nonostante questo gli ebrei si precipitarono presso le Ambasciate delle varie nazioni per chiedere il visto, ricevendo un numero di attesa e la promessa che sarebbero stati contattati, non appena fosse giunto il loro turno. Più le settimane passavano, più la sensazione di disperazione assaliva gli animi degli Ebrei, che si vedevano in trappola destinati a non poter sfuggire alla decimazione voluta da Hitler.

 

A sfruttare questa situazione fu Manuel Benitez Gonzalez, direttore dell’immigrazione di Cuba, il quale “autorizzò, dietro lauto pagamento, nell’aprile del 1939, dei visti d’ingresso. La notizia fece sì che tutti che avevano presentato domanda presso quell’Ambasciata, corsero ad acquistare un biglietto, di sola andata, per Cuba.

 

La nave che li avrebbe condotti alla salvezza era il transatlantico St. Louis, costruito presso i cantieri navali Bremer Vulkan, di Brema, su ordinazione della società di navigazione Hamburg-America Line.

 

La nave, che doveva il suo nome al re di Francia Luigi IX, noto con l’appellativo “Il Santo”, aveva una lunghezza di 175 metri, pari a due campi da calcio e una capacità d’imbarco di 973 passeggeri e poteva contare su un potente motore diesel.

 

Subito dopo il suo varo, avvenuto nel 1929, era stata adibita a nave da crociera nelle Indie Occidentali, in seguito, era stata adibita a servire lungo la rotta Amburgo-Halifax-New York, conosciuta come la Luxury Liner Row.

 

Il 13 maggio 1939, il fischio impetuoso del transatlantico annunciò la partenza dal porto d’Amburgo, e tutti i passeggeri tirarono un sospiro di sollievo, certi che l’incubo delle persecuzioni fosse giunto al termine.

 

Mentre la banchina diventava un puntino e la musica della banda s’affievoliva, le varie famiglie si ritirarono nelle cabine, consapevoli che quell’avventura aveva richiesto un enorme impegno economico, basti pensare che il costo del biglietto di prima classe ascendeva a 320 $, mentre quello della turistica era di 240 $, inoltre, l’armatore aveva aggiunto una “tassa d’emergenza”, per salvaguardarsi qualora la nave fosse tornata alla meta senza compiere la sua missione. Nessuno ci fece caso, ma forse avrebbero dovuto.

 

L’armatore aveva scoperto che i permessi recanti la firma di Manuel Benitez Gonzalez, direttore dell’immigrazione di Cuba, non avevano alcun valore, perché i 150 $ a permesso versati, non erano finiti nelle casse dell’erario cubano, come stabilito dal Decreto n. 55, del novembre 1938, a garanzia delle condizioni economiche degli immigrati.

 

Ben 724 passeggeri, erano muniti anche di visti d’ingresso per gli Stati Uniti, ma questi erano vincolati dal numero progressivo, dal momento che gli ingressi erano, annualmente, limitati, per cui avrebbero dovuto attendere l’autorizzazione in terra cubana.

 

A comandare la nave era il tedesco di origini danesi Gustav Schröder, il quale aveva iniziato la sua carriera di marinaio, all’età di 16 anni, ovvero nel 1902, a bordo della nave d’addestramento Großherzogin Elisabeth. Conseguito il brevetto di ufficiale di marina, prestò servizio prima su navi a vela, poi sulla SS Deutschland dell’Hamburg America Line, una delle navi più veloci dell’epoca, detentrice del Blue Riband (Nastro Azzurro), il riconoscimento per le navi passeggeri che avevano il primato di velocità media di attraversamento dell’Atlantico.

 

All’età di 24 anni gli venne conferito il titolo di capitano; nel 1913, venne inviato a Calcutta, dove, due anni dopo, venne fatto prigioniero dagli inglesi e internato, per tutta la durata della Prima Guerra Mondiale.

 

Tornò in Germania, nel 1919, e si ritrovò senza lavoro, a causa della demilitarizzazione forzata imposta dal Trattato di Versailles. Nel 1921, venne ingaggiato dalla compagnia di spedizioni HAPAG (Hamburg-Amerikanische Paketfahrt-Aktiengesellschaft), nel 1935 venne promosso primo ufficiale della nave Hansa.

 

Nell’agosto del 1936 divenne quindi comandante della MS Ozeana e, nel 1939, prese il comando, grazie alla sua pluri-esperienza nella Hamburg America Line, del transatlantico Saint-Louis.

 

Prima di abbassare le passerelle e far accedere i passeggeri, si rivolse ai 231 membri dell’equipaggio e ordinò che tutti tenessero un comportamento adeguato nei confronti di costoro, non solo perché avevano pagato il biglietto, ma anche perché erano delle persone. Proprio per far sentire a loro aggio gli ebrei, Schroder rimosse un grande ritratto di Adolf Hitler dalla sala ballo della nave, autorizzandone l’utilizzo come Sinagoga.

 

Nel suo diario, Schröder, al secondo giorno di navigazione annotò: «Numerosi passeggeri sono molto nervosi. Nonostante ciò, tutti sembrano convinti che non rivedranno mai più la Germania. Prima di partire ho assistito a dei saluti, alquanto, commoventi, per non dire strazianti, frutto della consapevolezza che stavano lasciando non solo gli oggetti, ma anche gli affetti più cari e che non li avrebbero mai più rivisti. Ma sono convinto che grazie al bel tempo, al mare tranquillo, al buon cibo e al servizio adeguato, ben presto gli animi si rassereneranno e regnerà la solita atmosfera dei lunghi viaggi oceanici. Il mare ha il potere di lenire i dolori e di far dimenticare tutte le angosce e le ansie che ci ammorbano sulla terra ferma».

 

 

Alcuni giorni prima della partenza, l’armatore dell’Hamburg-America Line gli aveva fatto pervenire il seguente ordine: «La maggior parte dei passeggeri non è autorizzata a sbarcare a Cuba, secondo le nuove disposizioni giunte dall’Avana. Per questo motivo manterrai velocità e rotta ridotti, nella speranza che la situazione, non del tutto chiara, si risolva prima del vostro arrivo».

 

Speranza condivisa dal Capitano. Le nuove disposizioni a cui si riferiva l’armatore erano il Decreto 55 del gennaio 1939, con il quale si disponeva che coloro che volevano emigrare a Cuba, dovevano versare una cauzione di 500 $, in modo d’assicurare allo stato cubano che non sarebbero divenuti un onere per lo stato. Mentre non c’era alcun onere finanziario per i turisti che volevano visitare Cuba.

 

Benitez Gonzalez, il Direttore dell’Ufficio Immigrazione, aveva venduto dei permessi turistici, spacciandoli per permessi di soggiorno, inoltre, si era intascato la somma, con la conseguenza che il governo cubano non aveva la caparra necessaria per permettere l’accesso agli Ebrei.

 

Non appena informato, il presidente cubano Federico Laredo Brúissed, una settimana prima della partenza della nave, dichiarò illegali i certificati dei passeggeri del Saint-Louis e, dietro le pressioni della popolazione che aveva manifestato l’8 maggio contro lo sbarco di altri ebrei in territorio cubano, dispose la chiusura dei porti.

 

Mentre nuvole di tempesta si addensavano sul futuro dei passeggeri, il capitano s’attenne alle indicazioni e compì uno scalo passeggeri a Cherbourg, in Francia, per caricare altri 38 passeggeri, in questo modo il numero totale degli ebrei ascendeva a 937, c’erano solo sei passeggeri non ebrei: un coppia cubana e quattro spagnoli. Quindi riprese la navigazione che si svolse senza problemi, i passeggeri si rasserenarono e vissero l’avvicinamento a Cuba, con animo sereno e allegro.

 

Il 27 maggio il transatlantico attraccò nel porto dell’Avana e, mentre i passeggeri si preparavano a scendere convinti di essere arrivati a destinazione, il governo di Cuba comunicò che solo 28 passeggeri erano autorizzati a scendere dalla nave: di questi 22 erano ebrei, detentori di visti americani validi e prossimi alla chiamata, gli altri 6 erano i cittadini cubani e gli spagnoli.

 

Il resto dei passeggeri, poiché detenevano i certificati “Benitez”, senza alcun valore, non vennero autorizzati a scendere. Dinanzi alle proteste e alle scene di panico si scelse di rassicurare i passeggeri di voler vagliare un’eventuale soluzione.

 

Sol, all’epoca un ragazzino di dodici anni, ricordò, anni dopo: «Tutti erano spaventati a morte, alcuni passeggeri tentarono di raggiungere la riva a nuoto. Un passeggero, di nome Max Loewe, veterano della Prima Guerra Mondiale, rimase talmente sconvolto dalla notizia che scese nella sua cabina e si tagliò le vene, quindi si gettò in acqua».

 

Prontamente, ripescato da un membro dell’equipaggio, venne condotto presso l’ospedale dell’Avana. La notizia del tentato suicidio, nel giro di poche ore, fece il giro del mondo, accendendo i riflettori dei media sulle traversie dei passeggeri della Saint-Louis.

 

Il 9 giugno 1939, il New York Times pubblicò un editoriale intitolato “La St. Louis la nave più triste sul mare” e, quotidianamente, pubblicò notizie sulle condizioni dei rifugiati.

 

«Forse Cuba, come ha dichiarato un rappresentante del Governo, ha accolto troppi rifugiati tedeschi. Eppure – continuava il giornalista – queste 900 persone chiedono un rifugio temporaneo. Alcune delle barche ruotanti intorno alla nave, sono piene di parenti dei profughi, giunti mesi prima su queste sponde. Costoro cercano d’intravedere i volti dei loro congiunti, di mandare un saluto e, soprattutto, d’infondere il necessario coraggio per affrontare questi momenti difficili».

 

Al termine della settimana, il governo confermò la decisione di chiudere il porto ai chiedenti asilo, con la conseguenza che il capitano Schröder dovette comunicare che avrebbe ripreso il viaggio di ritorno con destinazione Amburgo.

 

Inutili, i tentativi di risanare la situazione dei raggirati, non per impossibilità politica, ma per paura che l’isola di Cuba, in poco tempo, brulicasse di profughi ebrei.

 

Il capitano Schröder, prima di lasciare il porto, inviò un cablogramma al Presidente cubano ricordandogli che il destino dei suoi passeggeri era frutto della sua ostinata decisione. Nel frattempo, rilasciò il seguente comunicato stampa: «Il Governo cubano ci sta costringendo a lasciare il porto. Ci hanno permesso di rimanere qui fino all’alba di venerdì, poi dovremo levare le ancora. La partenza non è frutto dell’interruzione dei negoziati, ma espressa volontà delle autorità cubane. Io e l’armatore rimarremo in contatto con tutte le organizzazioni ebraiche e con qualunque ufficio governativo che sia disposto a collaborare per giungere a una soluzione favorevole per i passeggeri. Per il momento costeggeremo le coste degli Stati Uniti».

 

Fu così che due giorni dopo, la nave lambiva le acque internazionali della Florida, situazione che motivò i rappresentanti delle comunità ebraiche americane e, anche, molti simpatizzanti a perorare la causa dinanzi al Presidente Franklin Delano Roosevelt.

 

I cittadini americani, appassionati a leggere le vicende di quei “dannati”, iniziarono a tempestare la Casa Bianca di lettere, e tra questi un’undicenne di Tacoma, Dee Nye, scrisse alla First Lady: «Madre del nostro paese, sono molto triste che il popolo ebraico debba soffrire in questo modo. Per favore, lasciali entrare in America (…) A casa mia abbiamo tre camere vuote, mia madre sarebbe felice di poter accogliere una famiglia».

 

Roosevelt ricevette anche una serie di appelli dal capitano della Saint-Louis, a cui non rispose, mentre il 4 giugno, A.M. Warren, Direttore della Sezione visti del Dipartimento di Stato chiuse, formalmente, i porti alla nave, giustificando la decisione con la seguente dichiarazione: «I rifugiati tedeschi sono in attesa del loro turno per accedere negli Stati Uniti. Del resto la quota di immigrati ammessi per quest’anno è stata raggiunta».

 

Il Governatore delle Isole Vergini, si rese disponibile ad accogliere, temporaneamente gli ebrei, a condizione che il Presidente Roosevelt lo approvasse, ma la richiesta venne rigettata sostenendo che si apriva un canale per permettere l’ingresso, in territorio americano, di spie naziste travestite da rifugiati.

 

Ragion per cui, il 7 giugno, meno di un mese dopo la partenza da Amburgo, la Saint-Louis rivolgeva la prua verso il vicino Canada, ultima nazione presso cui perorare aiuto, prima di ritornare indietro.

 

Mentre la nave era a due giorni dal porto di Halifax, il leader della comunità ebraica del Canada, sostenuto anche dalla popolazione, presentò una petizione al governo federale riguardante la possibilità di offrire rifugio ai passeggeri ebrei della Saint-Louis.

 

Il New York Times scrisse: «Possiamo solo sperare che in qualche parte del mondo i cuori si addolciscano e offrano rifugio. Il St. Louis grida al cielo la disumanità dell’uomo verso l’altro uomo».

 

I primi di giugno, George Wrong, autorevole sacerdote e storico dell’Università di Toronto, inviò un telegramma al Primo Ministro Mackenzie King supplicandolo di mostrare «la vera carità cristiana» e di offrire ai passeggeri ebrei un rifugio sicuro in Canada. La petizione era firmata da 37 donne e uomini influenti della città di Toronto tra cui B.K. Sandwell della rivista Saturday Night; Robert Falconer, ex Preside della Università di Toronto, e Ellsworth Flavelle, un ricco uomo d’affari.

 

Prima di rispondere alla petizione, Oscar Skelton, Sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri, scrisse al Primo Ministro, osservando che dal gennaio 1939, un centinaio di immigrati erano stati ammessi in Canada con Ordini speciali del Consiglio dei Ministri, perché non si adattavano ai criteri stabiliti dalle leggi sull’immigrazione.

 

Tra costoro il 60% era costituito da ebrei. Quindi, in linea teorica, si sarebbero potuti accogliere, ma Wrong decise di rigettare la petizione con la seguente motivazione: «I viaggiatori del St. Louis non avevano presentato alcuna richiesta formale finalizzata a poter immigrare in Canada, inoltre, le leggi sull’immigrazione prevedevano persone con capitale d’investimento o con perizia tecnica e scientifica» situazione in cui non rientravano gli ebrei (…) Il governo canadese non ha adottato il sistema di quote di ammissione come hanno fatto gli Stati Uniti. Non ammette gli immigrati per scopi temporanei in attesa di passar in altri paesi, com’è avvenuto, fino a poco tempo fa, a Cuba. Né ammette, per periodi brevi, la presenza di immigrati come avviene in alcune nazioni europee».

 

In effetti la situazione degli ebrei tedeschi era del tutto particolare, ed era stata rappresentata, alcuni mesi prima, sempre, da George Wrong al Governo Canadese, che in quell’occasione aveva messo in evidenza che la nazione canadese era «un vasto territorio vuoto» e che i canadesi non avvertivano il pericolo che correvano gli ebrei in Germania.

 

Il Primo Ministro, Mackenzie King, s’era impegnato, nella sua risposta, a operare per contribuire a risolvere il “più sconcertante dei problemi internazionali”, affermando: «Mi chiedo fino a che punto possiamo arrivare, senza peggiorare le condizioni di coloro che vogliamo aiutare». La risposta vaga, lasciava intravedere una remota possibilità di aiuto, qualora se ne fosse presentata l’occasione.

 

Un ruolo determinante, in questa storia, venne giocato da Frederick Blair, il direttore dell’Ufficio per l’Immigrazione Canadese, manifesto antisemita, che dichiarò: «Il Canada ha già fatto troppo per gli ebrei, del resto nessun paese sarebbe in grado di poter accogliere tutti gli ebrei che vogliono lasciare l’Europa, bisogna pur fissare un limite».

 

Il Canada aveva dovuto affrontare all’inizio degli anni Trenta una grave depressione, per cui gli ebrei erano visti come una minaccia economica e anche linguistica, dal momento che i francofoni temevano che gli ebrei avrebbero imparato l’inglese e quindi avrebbero capovolto gli equilibri di potere.

 

A fomentare la ventata di antisemitismo furono anche i sacerdoti cattolici del Quebec predicando messaggi antisemiti, ricordando che gli ebrei avevano ucciso Gesù Cristo e molti canadesi abitanti nelle zone rurali era convinti che non era vero che i nazisti perseguitassero gli ebrei, e attribuivano a quest’ultimi la crisi internazionale, dal momento che secondo costoro controllavano le borse.

 

King era ben consapevole di questa situazione e non volle rendersi impopolare, in vista dell’approssimarsi delle elezioni, per cui assecondò il respingimento, motivandolo come frutto di una mancata richiesta dei passeggeri.

 

Tale atteggiamento venne condannato, un mese dopo, il 19 luglio, dal Winnipeg Free Press che concluse l’articolo nel seguente modo: «Anche il Canada ha bisogno delle industrie che i rifugiati stanno portando negli Stati Uniti. C’è bisogno di talenti e mestieri che la nostra xenofobia ha finora limitato».

 

Dinanzi all’ennesimo rifiuto, il capitano Schröder diede l’ordine di puntare verso Amburgo, anche se in cuor suo aveva deciso di arenare la nave lungo le coste inglesi, pur di salvare i suoi passeggeri.

 

Quindi, riunì, sul ponte della prima classe, i viaggiatori e comunicò: «Nonostante la situazione difficile la compagnia di navigazione rimane in contatto con varie organizzazioni e organismi ufficiali allo scopo di tentare uno sbarco fuori dalle coste della Germania. Nel frattempo, ci spingeremo nei mari del Sud-America, in attesa di ricevere buone notizie».

 

La notizia non confortò i passeggeri, che si resero conto che era impossibile, per la nave, fare scali non autorizzati, anche perché c’era il problema del carburante. Il capitano Schröder aveva appena terminato il suo discorso e stava rientrando sul ponte di comando che assistette a una scena che lo colpì profondamente, e che annotò nel suo diario: «Due ragazzini avevano creato, utilizzando le sedie a sdraio, del ponte di prima classe, un muro, con un unico ingresso. Loro s’erano posti a controllo dell’ingresso, quindi si presentavano dei bambini che chiedevano di poter entrare nel loro territorio. Le due guardie chiedevano: “Sei ebreo?” – “Sì” rispondeva un bambino. “Mi dispiace gli ebrei non sono ammessi!” urlava la guardia”. “Oh, per favore fammi entrare. Sono solo un piccolo ebreo”. Ma i bambini-guardie iniziavano a gridargli contro e a spintonarlo via. Il gioco tragico consisteva nel riuscire nel rimanere vicino all’ingresso nonostante tutto».

 

Il morale dei viaggiatori peggiorò e per questo venne creato un gruppo di passeggeri atto a prevenire eventuali colpi di testa da parte dei compagni di viaggio.  

 

Il 13 giugno, mentre la Saint-Louis era in alto mare, all’incirca a metà del viaggio di ritorno, Morris Troer, capo delle operazioni europee della JDC (Jewish Joint Distribution Committee), inviò un cablogramma al capitano Schröder che annunciava: «Disposizioni finali per lo sbarco di tutti i passeggeri. Sono felice d’informarti che i governi del Belgio, dell’Olanda, della Francia e dell’Inghilterra si sono resi disponibili ad accogliere gli ebrei a bordo».

 

Per la precisione la Francia era disposta ad accoglierne 224; il Belgio, 214; i Paesi Bassi 181 e la Gran Bretagna 287. Non appena il cablogramma venne reso noto ai profughi, questi chiesero al capitano di rispondere con il seguente testo: «I 907 passeggeri del Saint-Louis che da tredici giorni oscillano tra due sentimenti contrastanti, speranza e disperazione, vogliono porgervi la loro immensa gratitudine, grande come l’oceano su cui stiamo fluttuando. Accettate i nostri ringraziamenti più profondi ed eterni da parte di uomini, donne e bambini uniti dallo stesso destino e dal medesimo sogno: la libertà».

 

Oltre a questa, il capitano Schröder inviò a Morris Troper il suo ringraziamento: «Prima di lasciare Anversa voglio ringraziarti per la disponibilità e la collaborazione offerta. Soprattutto per il sostegno e l’operato che hai svolto a favore della ridistribuzione dei miei passeggeri. Ti comunico, inoltre, che i Rhuputis sono stati destinati al contigente francese, mi hanno detto che cerceranno di passare in Inghilterra. Mi unisco ai passeggeri nel rinnovare il mio personale ringraziamento e apprezzamento per tutto ciò che hai fatto».

 

Il 17 giugno la nave venne ancorata al molo di Anversa, in Belgio, e i passeggeri, appena scesi, si resero conto che dovevano sbrigarsi, perché i lampi della guerra si stavano addensando sull’Europa.

 

Dei passeggeri sbarcati, solo 87 riuscirono a emigrare prima del 10 maggio 1940, ovvero quando la guerra aveva avvinghiato l’intera Europa. 254 vennero fermati poche settimane dopo il loro sbarco, finendo deportati nei campi di sterminio di Auschwitz e Sobibór, dove morirono. Dei restanti non si ebbero più notizie, quasi sicuramente, alcuni vennero arrestati, altri riuscirono a fuggire verso la Spagna, altri morirono mentre tentavano di sfuggire al loro destino.

 

Il capitano Schröder, riprese il mare al comando del Saint-Louis, ma senza passeggeri, a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Di ritorno dalle Bermuda, Schröder evase un blocco della Royal Navy e attraccò nella neutrale Murmansk.

 

Con un equipaggio minimo a bordo, riuscì a superare le pattuglie alleate e raggiunse Amburgo il primo dell’anno del 1940. Gli fu assegnato un incarico e mai più andò al mare.

 

Venne riconosciuto il suo operato a favore dei profughi e, per questo motivo, non fu processato. Ricevette molti elogi e, nel 1957, fu insignito dell’Ordine al Merito dalla Repubblica Federale Tedesca: «per i servizi alle persone e nel soccorso dei rifugiati». Morì, nel 1959, all’età di 73 anni.

 

Nel marzo del 1993, lo Yad Vashem gli rese onore con la menzione di «Giusto tra le Nazioni».

  

 

Riferimenti bibliografici:

 

Kacer K., To Hope and Back: The Journey of the St. Louis, Second Story Pr, 2012.

Lawlor A., The Saddest Ship Afloat: The Tragedy of the MS St. Louis, Nimbus Pub Ltd, 2016.

Sinoue G., Una nave per l’Inferno, Neri Pozza, Vicenza, 2006.



 

 

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