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N. 6 - Giugno 2008 (XXXVII)

TRAFALGAR, 21 ottobre 1805
Quando l’Inghilterra conquistò il dominio dei mari

di Cristiano Zepponi

 

Il Trattato di Amiens del 1802 decretò la fine dello scontro tra l’Inghilterra e la Francia napoleonica, vittoriosa sul campo di Marengo nel giugno del 1800. Napoleone, allora, approfittò del primo periodo di pace in dieci anni accelerando il ristabilimento della coesione nazionale, ed il rafforzamento dei suoi poteri personali. Sulla base di un plebiscito, quindi, fu proclamato dal Senato primo console a vita (il 2 agosto del 1802), mentre attraverso una riforma costituzionale – la costituzione dell’anno X – acquisì il diritto di designare il successore, la presidenza del Senato, di sciogliere il Tribunato ed il Corpo Legislativo.

 

In seguito, il giovane còrso perseguì un progetto di accentramento amministrativo, di unificazione legislativa e semplificazione burocratica, mentre continuavano i lavori per l’elaborazione del Codice Civile. Si operò per il risanamento delle finanze attraverso lo strumento delle imposte indirette e soprattutto per una riforma dell’insegnamento, volta in special modo alle scuole secondarie: furono fondati i licei, dediti specialmente agli studi letterari, e ristrutturate le “grandi scuole” di tipo universitario, tra cui l’ “école polytechnique”, al fine di formare funzionari e gruppi dirigenti preparati ed efficienti, provenienti dalle file della borghesia.

 

Il processo d’accentramento dei poteri si concluse con il senatoconsulto del 28 floreale dell’anno XII (8 maggio 1804), con cui veniva approvata una nuova Costituzione che introduceva il ruolo di imperatore dei francesi, poi approvato dal solito plebiscito popolare.

 

Napoleone, quindi, ricevette la corona e la consacrazione di papa Pio VII il 2 dicembre del 1804, nella cattedrale di Notre Dame, a imitazione dei rituali dell’impero carolingio. Ma di sicuro, come la pace aveva favorito l’introduzione del consolato a vita, la ripresa della guerra l’aveva aiutato nell’imperiale scalata.

 

Già nel 1803, infatti, l’Inghilterra – preoccupata per la politica doganale e commerciale della Francia, oltre che per l’attività espansionistica dispiegata nelle colonie ed in Italia, e per la riorganizzazione territoriale dell’area germanica in funzione antiaustriaca -  aveva riaperto le ostilità, preoccupandosi subito di riproporre un blocco navale, mentre Napoleone riprendeva ad ammassare truppe sulla costa settentrionale. “Ricominciamo la guerra dei cent’anni”, commentò sconsolato l’acuto Talleyrand.

 

Il blocco, come sempre, funzionò alla perfezione: la flotta francese rimase immobilizzata, disseminata nei porti di Tolone e Cartagena nel Mediterraneo, Cadice, Vigo, Ferrol e Brest nell’Atlantico. La noia, la solitudine, l’eremitica staticità di vascelli persi nell’oceano misero a dura prova gli equipaggi, stipati in squallide stive, sottoposti a punizioni corporali decise da ammiragli persuasi che in mare non valessero le leggi terrestri.

 

Ma la grande flotta francese, in questo modo, non poteva riunirsi.

Napoleone, che di mare capiva assai poco, ignorò stizzito la proposta (avanzata dall’americano Robert Fulton) di costruire battelli a vapore per ovviare alla situazione di stallo. Elaborò invece un piano assai ambizioso: impegnare la flotta inglese nel mar dei Carabi, lontano dalle sue basi, sgombrando così il campo per una massiccia invasione dell’isola. Sapeva, per di più, di poter contare sulla decadente – ma pur sempre gloriosa – potenza della flotta spagnola.

 

Ordinò quindi all’ammiraglio Villeneuve  di forzare il blocco anglo-sassone intorno a Tolone e  fare rotta verso le isole francesi nelle Indie Occidentali, per poi incontrare le navi del commodoro Ganteaume. “L’Inghilterra è nostra”, scrisse ad un suo ammiraglio, sull’onda dell’entusiasmo.

 

Villeneuve, diligentemente, seguì gli ordini ricevuti, ma dovette presto avvedersi che i rinforzi promessi non sarebbero arrivati. Ritornò quindi sui suoi passi, dirigendosi verso Cadice, uno tra gli obiettivi della sortita. Lungo il percorso, all’altezza di Capo Finisterre, s’imbattè nella squadra inglese comandata da sir Robert Calder, combattendo uno scontro incerto, fra le nebbie atlantiche.

 

Il porto di Cadice era sorvegliato dalla flotta dell’ammiraglio Collingwood, che saggiamente lasciò passare l’avversario, per poi richiudere l’accesso. Scrisse alla sorella: “Le navi nemiche sono nel porto di cadice: e sono tante che sembrano una foresta. Sono almeno 36 vascelli di linea e un nugolo di fregate. Come posso fare ritrovandomi un cliente del genere? Ma spero di ottenere dei rinforzi, e se arrivano poveri loro!”.

 

Per sua fortuna, i rinforzi esistevano. Horatio Nelson aveva allora 47 anni, e non si può dire fosse un bell’uomo: “aveva la manica vuota per il braccio perso a Tenerife, l’occhio devastato a Calvi che lo aveva reso orbo, sulla fronte la cicatrice della battaglia del Nilo”.

In quei giorni, si trovava a Merton, a sudovest di Londra, posta a metà strada tra il porto di Portsmouth, dov’era attraccata la flotta, e l’Ammiragliato, dove risiedeva insieme ai coniugi sir William e lady Emma Hamilton.

 

Non era bello, Nelson, ma le ferite avevano accresciuto il fascino esotico degli uomini di mare. E lady Hamilton, che l’aveva conosciuto a Napoli nel 1798, quando aveva trentadue anni, aveva un marito più vecchio di trentacinque. Tra loro, insomma, scoppiò l’amore, mentre la vera moglie – lady Fanny Nelson – rimase avvolta nell’ombra, tanto scarso fu l’amore tra i due.

 

Il signor Hamilton favoriva quell’amore, invece di restarne offeso, al punto da permettere che la giovane chiamasse la figlia nata dall’ammiraglio nel 1801 con lo stesso nome del padre, Horatia. Alla morte, nel 1803, regalò all’illustre conoscente il ritratto prediletto di Emma, con la dedica “Al mio più caro amico, il più virtuoso, il più leale e coraggioso personaggio che abbia mai incontrato. Dio lo benedica e cada la vergogna su coloro che non dicono amen”.

 

Lo andò a chiamare il capitano Henry Blackwood della fregata Euryalus, inviato di Collingwood. Arrivò a Merton alle cinque del mattino del due settembre 1805; ne ripartì undici giorni dopo, alla volta della Victory, ormeggiata, ormai, da troppo tempo.

 

Nelson aveva stile, e conosceva il valore dell’immagine, oltre ad essere un vanesio memorabile. Sapeva farsi amare, e catalizzare l’attenzione degli equipaggi: “E’ arrivato lord Nelson!”, scrisse alla moglie un rasserenato Collingwood alla vista dei sospirati rinforzi, il ventotto del mese, “una sorta di gioia generale ne è stata la conseguenza”.

 

Le voci dei marinai, ammirate e concitate, raccontavano allora una miriade di episodi, di cui era stato protagonista. Una volta, si dicevano, vide addolorato un tenente di nome Pasco. Dopo aver insistito per capirne il motivo, il ragazzo gli spiegò che l’ufficiale della posta si era dimenticato di mettere sulla nave per l’Inghilterra una lettera per la moglie. “Inseguiamo la nave, facciamole i segnali e diamole la lettera”, gli rispose benevolo.

E lo fece davvero. “Il tenente potrebbe morire in battaglia. La moglie deve avere il suo ricordo”, sussurrò di nascosto agli ufficiali.

 

Pierre de Villeneuve, curiosamente, appare un tipo umano opposto. Incredibilmente perseguitato dalla sfortuna nonostante una giovinezza in mare ed una notevole trafila di promozioni (al punto da diventare ammiraglio a trentadue anni), aveva partecipato alla deludente spedizione in Irlanda (nel 1796) ed al disastro di Abukir. E non si può dire che ciò avesse giovato alla sua fama.

 

Ci si misero anche i suoi capitani, contestandone gli ordini, criticando il suo fondato timore della potenza navale inglese, diminuendo la portata delle riparazioni che riteneva necessarie prima di prendere il mare. I suoi due viceammiragli, Dumanoir e Magon, lo contrastavano di continuo. E Napoleone lo disprezzava apertamente: “Non nominatemi più”, disse al ministro della Marina, “quel codardo e la sua umiliante vicenda”. Le coliche psicosomatiche che lo accompagnavano in quei giorni, forse, originavano proprio dalle parole dell’imperatore dei francesi.

Alexander Lauriston, comandante delle forze di terra sulla flotta, aiutante da campo e amico di Napoleone, ne denunciava costantemente incompetenza, indecisione, presunzione, codardia: “Sire”, scrisse una volta, “qui abbiamo bisogno di un uomo”.

 

Napoleone, alla fine, decise di sostituirlo con l’ammiraglio Rosily, che partì subito verso Cadice. “Se il vento me lo permette, salperò domani”, scrisse allora Villeneuve – “un rottame che dev’essere cacciato”, come ribadì Napoleone – al ministro della Marina, percependo l’imminente siluramento.

 

Ignorò così i pessimi segnali inviati nel corso del consiglio di guerra dell’otto ottobre sulla Bucentaure: in quell’occasione, di fronte alla riluttanza dei comandanti spagnoli – che s’appellavano all’impreparazione delle ciurme ed al maltempo – si era sfiorata la rissa tra alleati. “Il barometro sta cadendo”, disse l’ammiraglio spagnolo Gravina. “Non è il barometro che cade. E’ il coraggio di certa gente”, rispose Villeneuve. Era, per David Howarth, una flotta in guerra contro sé stessa.

 

 

All’alba di domenica venti ottobre, comunque, prese il mare, accompagnata dallo sguardo del popolo di Cadice raccolto in preghiera, affinché Dio concedesse la vittoria. Trentatre navi di linea, e vari vascelli minori, sfilarono silenziosamente sulle acque calme del porto.

 

Se ne avvide la fregata Euryalus, che subito lanciò il ‘segnale 370’: le navi nemiche stavano uscendo. L’avvistamento interruppe la colazione di Nelson, che s’avvide della situazione verso le nove e mezzo; segnalò, con aplomb tutto britannico, che la colazione era annullata; ed ordinò la caccia generale.

 

Il nemico sembrava fuggire verso ovest, e Nelson ordinò d’inseguirlo. “Possa il dio delle battaglie coronare i miei sforzi con il successo. Ti arriverà certo questa mia ultima lettera prima della battaglia, così spero in Dio di poterla completare dopo”, scrisse all’amata.

 

Nelson sapeva di essere in inferiorità numerica, e adottò di conseguenza i suoi piani: i vascelli inglesi furono ripartiti in tre colonne, contravvenendo al classico posizionamento in linea, che si sarebbero avvicinate perpendicolarmente agli avversari, tentando di isolarli in piccole sacche in modo da impedire che si appoggiassero a vicenda. Puntò insomma sull’azione nave contro nave, contando sull’evidente superiorità manovriera dei propri bastimenti, e sull’eccezionale perizia di capitani e cannonieri inglesi.

Poche battaglie, scrisse Howarth, furono combattute con la premessa che all’inizio dello scontro una delle parti combattenti – quella inferiore di numero – era quasi del tutto sicura che avrebbe vinto, mentre quella più numerosa era certa che avrebbe perso.

 

La notte tra il venti ed il ventuno Villeneuve si convinse, probabilmente, di veleggiare verso la catastrofe. La flotta era incapace di segnalare di notte, come richiesto dall’ammiraglio Magon, che apprese dal ricognitore Achille della presenza di navi anglosassoni a sud-sud ovest. Era una notte d’attesa, in cui ognuno ebbe qualche minuto per riflettere: “Cara Harriet, abbi cura di mio figlio”, scrisse ad esempio Blackwood, “Fai di lui un uomo migliore di suo padre”.

 

La folla variopinta delle navi francesi somigliava più ad un anarchico carosello, che ad una formazione militare, e cercava disperatamente di sfuggire all’inseguimento inglese passando per Gibilterra, per approdare poi a Tolone.

La mattina del 21, però, fu raggiunta. Villeneuve provò allora ad invertire la rotta, in cerca di salvezza, verso Cadice: “quello è un incompetente”, disse al suo secondo il capitano della San Juan Nepomuceno, il quarantacinquenne Don Cosme Churruca, “con questa ritirata ci ha rovinati”.

 

Nelson, che era rimasto sveglio per tutta la notte, uscì sul ponte ornato da tutte le brillanti decorazioni ottenute. Si avvide presto che la costa di Trafalgar si profilava sottovento, e non offriva riparo alle navi francesi. Alle sei e venti Villeneuve, fatalisticamente rassegnato, ordinò che la flotta si disponesse in ordine di combattimento, scatenando un prevedibile subbuglio. Il porto distava solo venti miglia, ma la flotta era ormai imbottigliata.

 

Alle sette, la flotta inglese era disposta sulle tre linee preventivate, ma Nelson cambiò improvvisamente il piano: dopo aver constatato il caos che regnava nel campo nemico, infatti, ordinò di attaccare su due sole colonne, fino ad arrivare a ridosso delle navi avversarie, anche a costo di subire qualche danno.

 

Gli stati d’animo variavano, in quelle ore, a seconda della nazionalità. Mentre i cannonieri inglesi incidevano propositi bellicosi sui pezzi, mentre Blackwood sussurrava a Nelson che “se prendiamo quattordici navi è la gloria”, mentre gli equipaggi britannici già pregustavano il bottino rappresentato dalle imbarcazioni all’orizzonte, i marinai francesi alzavano le grida “Vive l’Empereur! Vive l’Amiral!”, portando in parata l’aquila imperiale donata dall’imperatore.

 

Sulle navi spagnole, invece, regnava la disperazione. Quella guerra non li riguardava, le truppe non nutrivano eccessivo astio per l’avversario, e soprattutto era diffusa la sensazione che l’inefficienza della flotta avrebbe causato un disastro. I soldati di terra, imbarcati malvolentieri, si contorcevano per il mal di mare. Soprattutto, non avendo imperatori né aquile, né obiettivi di gloria, né speranze, levavano al cielo continue preghiere.

 

Don Cosme Churruca, il citato comandante della San Juan Nepomuceno, rappresentava perfettamente lo stato della marineria ispanica: non riceveva la paga da nove anni, non vestiva divise nuove, si era sposato a fatica e aveva dovuto troncare la luna di miele; eppure, disse: “se sentirete che la mia nave è stata catturata, vorrà dire che sarò morto”.

Ma è chiaro che dietro la retorica, la sfiducia aveva preso il sopravvento. Non potendo sfruttare altre – e più nobili – motivazioni, disse quindi francamente alla ciurma: “prometto eterne benedizioni a chi farà il suo dovere. Chi non lo farà, sarà fucilato”.

 

Nelson, frattanto, era tornato in cabina: qui, si preoccupò di lady Hamilton, senza però voler disonorare la moglie. “Lascio lady Hamilton come un legato al mio re e al mio paese: provvedano loro a darle un’ampia provvigione affinché mantenga il suo rango nella vita”. Raccomandò allo stesso modo la figlia, chiedendo che potesse continuare ad usare il nome Horatia Nelson Thompson.

 

Nelson sapeva che troppe parole sarebbero state superflue; e allora, a mezzogiorno meno un quarto - subito prima di puntare la prua verso l’ammiraglia francese, la Bucentaure - sugli alberi della Victory salì un segnale rivolto alla flotta: “L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere”.

 

 

“Impegnate il nemico più da vicino”, ordinò pochi minuti dopo, quando già le cannonate francesi si abbattevano sul mare, e bucavano le vele della Royal Sovereign, la nave di Collingwood, che comandava la colonna di destra. Le navi imperiali Hèros, Bucentaure e Santissima Trinidad – una delle più grandi del mondo, con 130 cannoni - aprirono il fuoco contro l’ammiraglia inglese: una palla uccise il segretario di Nelson, Scott, un’altra cadde presso l’ammiraglio stesso.

“E’ un lavoro troppo caldo questo”, scherzò allora con il capitano Hardy, “per durare a lungo”.

 

La Victory, dato lo scarso vento, passò lentamente a fianco del veliero di Villeneuve, e scaricò una fragorosa bordata capace di fracassarne la fiancata. Subito dopo si avventò contro la Redoutable, un vascello da 74 cannoni comandato dal capitano Jean-Jacques-étienne Lucas. Questi, ansioso di coprirsi di gloria, aveva riempito il ponte di moschettieri e fucilieri, che aprirono un fuoco martellante.

 

Le navi franco-spagnole di testa non riuscivano ad avvicinarsi per soccorrere i compagni, isolati ed ormai numericamente inferiori: la colonna di destra aveva tagliato a metà lo schieramento imperiale, gettandolo nella confusione più totale.

 

Lo scontro durava da una ventina di minuti, o poco più, quando uno dei tiratori francesi, appollaiato su un albero, colpì Nelson alla spalla sinistra, penetrando la carne fino alla spina dorsale; due marinai ed un sergente dei royal marines lo trasportarono sottocoperta, dal dottor Beatty, che s’avvide subito della gravità delle sue condizioni.

 

Dalla nebbia, mentre i francesi si preparavano ad abbordare la Victory, comparve d’improvviso l’inglese Temerarie, che attaccò a sua volta la Redoutable, ferendone il capitano.

 

Sotto la coperta della Victory, in mezzo alla polvere, ai frammenti ed al fragore della battaglia, per tre ore Nelson agonizzò, con lucido realismo. Non avvertiva più la parte inferiore del corpo, respirava con difficoltà, avvertiva atroci dolori ad ogni sussulto della nave. Fuori, il fragore delle urla, delle cannonate, dello scontro.

 

Villeneuve, isolato, abbandonato alla furia degli avversari e privo di scialuppe, chiese soccorso alle navi vicine, ma senza esito. Allora fece abbassare i suoi colori e fu preso in consegna dai marinai della nave inglese Conqueror, per essere poi accompagnato a bordo della Mars. Qui, consegnò la spada al tenente William Hennah.

 

Poco dopo le quattordici, comunque, la battaglia era sostanzialmente conclusa. La Santissima Trinidad fu colata a picco da due piccole imbarcazioni inglesi, lAfrica e la citata Conqueror, che si piazzarono sotto il suo bordo e la sfasciarono interamente, senza che questa – dall’alto della sua mole – potesse reagire.

L’Aigle si difese coraggiosamente, come la San Juan Nepomuceno del capitano Churruca, che morì in battaglia come aveva promesso, pur di non arrendersi.

 

“Abbiamo preso dodici delle quattordici navi nemiche che erano qui davanti”, riferì allora Hardy al morente Nelson, rassicurandolo al contempo che, pur malridotte, le navi inglesi restavano a galla. Sembra che le perdite inglesi ammontassero a 24 morti ed un centinaio di feriti.

 

Alle sedici e quindici la Victory segnalò di interrompere l’inseguimento, e richiamò le navi britanniche. I capitani ignorarono deliberatamente l’ultimo ordine di Nelson - ancorare la nave - e lo assistettero fino all’ultimo. “Tra pochi minuti sarò morto. Non buttatemi a mare”, ironizzò alla fine l’ammiraglio.

 

“Si è continuato a sparare a fuoco ridotto fino alle 16,30, quando è stata data notizia della vittoria al molto onorevole Lord visconte Nelson […], morto poco dopo per la ferita riportata”, si legge sul giornale di bordo.

 

Quando la notizia si diffuse, gli equipaggi smisero di festeggiare la vittoria. “Il mio cuore è devastato dal più straziante cordoglio”, disse Collingwood, a nome probabilmente di tutti i marinai britannici. “Uomini rudi che hanno combattuto come diavoli siedono prostrati e piangono come una ragazzetta”, scrisse a casa un altro marinaio.

 

Le leggende, che accompagnano sempre la fine degli uomini capaci di colpire l’immaginazione dei contemporanei, non lo risparmiarono; dato che il corpo dell’illustre defunto fu immerso in una botte di brandy - per garantirne l’integrità - nella cattedrale di San Paolo a Londra, da allora, si racconta che i marinai bevvero dalla botte e che per questo il grog distribuito sui vascelli britannici è stato rinominato “Sangue di Nelson”.

 

Londra, comunque sia, fu informata solo il 5 novembre. Il “Times” scrisse: “Non sappiamo se dobbiamo piangere o gioire. Il paese ha vinto la più splendida e decisiva vittoria che abbia mai adornato gli annali navali dell’Inghilterra. Ma è stata acquistata a caro prezzo. Il grande e galante Nelson non è più”.

 

“Orribile notizia quella che giunge da Cadice”, appuntò il solito Talleyrand: l’invasione dell’Inghilterra fu rimandata per sempre. Napoleone viveva il momento di maggior splendore della sua parabola, e volse le spalle al mare, stizzito come un amante tradito. Si dedicò allora a quello che gli riusciva meglio; poco più di un mese dopo, dunque, si ritrovò sul campo di Austerlitz.



 

 

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