N. 53 - Maggio 2012
(LXXXIV)
Tolleranza e identità
sui recenti episodi d'intolleranza religiosa
di Lawrence M.F. Sudbury
Gli
ultimi
casi
di
intolleranza
religiosa
in
Medio
Oriente
e in
Africa
non
possono
che
far
inorridire
chiunque
abbia
un
minimo
di
umanità:
vedere
fedeli
di
qualsiasi
credo
che
perdono
la
vita
solo
per
il
fatto
di
aver
partecipato
ad
una
funzione
religiosa
nel
posto
e
nel
momento
“sbagliato”
o
membri
del
clero
uccisi
solo
per
aver
professato
la
fede
a
cui
hanno
dedicato
la
vita
può
apparire
unicamente
il
frutto
di
una
visione
distorta
di
qualunque
religione
e di
una
interpretazione
deviata
e
profondamente
erronea
di
qualsiasi
testo
sacro,
tenendo
conto
che
nessuna
forma
di
vera
spiritualità,
in
nessun
caso,
secondo
la
cosiddetta
“regola
aurea”
(che,
in
diversi
gruppi
assume
nomi
diversi,
senza
mutare
di
sostanza)
si
pone
mai
in
contrasto
con
i
principi
basilari
dell’etica
naturale.
Superato
lo
shock
di
immagini
agghiaccianti
che
periodicamente
ci
vengono
presentata
dai
notiziari,
sollevando
indignazione
da
parte
di
politici
e
alte
gerarchie
(senza
che
poi
nulla
di
concreto
venga
fatto
di
conseguenza
una
volta
spenta
l’eco
di
vani
proclami
e
accorate
condanne),
una
riflessione
più
lucida
e
meditata
si
impone.
Ebbene,
prendiamone
atto:
l’intolleranza,
questa
“malattia
dell’anima”
che
tutti
definiscono,
a
parole,
inaccettabile,
retaggio
medievale
e
barbarico,
sta,
nella
pratica,
crescendo
e
sta
crescendo
in
qualunque
ambito,
sia
esso
civile,
razziale,
sessuale
e,
conseguentemente
si
sarebbe
tentati
di
dire
visto
che
la
fede
è
pur
sempre
espressione
umana
in
risposta
a
domande
umane
(e
divine,
se
così
si
vuole
credere),
religioso.
O
meglio,
forse
parlare
di
crescita
è
inesatto
se
confrontiamo
i
sistemi
sociali,
giuridici
e di
pensiero
odierni
con
quelli
del
passato
remoto
(o
anche
prossimo),
ma
certamente
molto
meno
obiettabile
è
dire
che
non
sta
scemando
al
ritmo
che
in
una
società
globalizzata,
informatizzata,
fondata
sulla
comunicazione
interpersonale
e di
massa
ci
si
potrebbe
attendere.
Per
attenerci
unicamente
al
campo
religioso,
non
si
parla
qui
solo
del
fondamentalismo
di
mujaheddin
ignoranti,
indottrinati
fino
all’esasperazione,
cresciuti
in
contesti
sociali
di
violenza
e di
povertà
sia
materiale
che
culturale.
Anzi,
per
certi
versi,
in
una
società
in
cui
la
separazione
tra
politica
e
religione
è
impensabile
e
entrambe
le
componenti
si
sono
staticizzate
dal
punto
di
vista
del
pensiero
antropologico
e
della
visione
dei
rapporti
umani
alla
chiusura
della
Sunna
del
XIII
secolo,
in
cui
il
singolo
conta
ben
poco
di
fronte
alla
ummah,
in
cui,
soprattutto
nella
visione
wahabita,
ogni
tentativo
di
cambiare
lo
status
quo
e di
modernizzare
il
pensiero
è
vissuto
come
bestemmia
contro
la
volontà
immutabile
di
Dio,
l’esistenza
di
forme
di
intolleranza
estrema
è,
se
non
scusabile,
almeno
più
comprensibile
che
in
altre
realtà.
Ma,
attenzione,
l’intolleranza
non
è
mai
unilaterale.
Forse
può
apparire
paradossale,
ma
risulta,
ragionando
a
mente
fredda,
molto
più
devastante
l’intolleranza
di
pastori
radicali
che,
facendosi
scudo
ideologico
di
un
“fondamentalismo”
andato
ben
oltre
le
sue
legittime
premesse
(se
ricordiamo
che
il
“fondamentalismo”
cristiano
nasce
unicamente
come
volontà
di
riscoperta
dei
“fondamenti
biblici”
su
cui
la
fede
riposa),
arrivano
a
bruciare
i
testi
sacri
di
altre
religioni,
provocando
reazioni
a
catena
difficilmente
troncabili
(e
le
cronache
anche
recenti
sono
la
riprova
di
ciò),
persino
rispetto
proprio
a
tali
reazioni,
nel
momento
in
cui
questi
atti
di
intolleranza
non
solo
vanno
a
colpire
il
cuore
della
fede
altrui,
ma
provengono
da
società
in
cui,
almeno
teoricamente,
l’accettazione
del
libero
pensiero
individuale
è
collante
sociale
primario.
E
poi,
se
vogliamo
scendere
ancora
più
a
fondo
nella
questione,
dobbiamo
andare
oltre
i
fatti
eclatanti
che
riempiono
le
prime
pagine
dei
giornali,
perché
è
nel
quotidiano
che
l’intolleranza
si
esplica
in
forme
più
striscianti,
forse
meno
evidenti,
ma
tali
da
formare
quell’humus
su
cui
si
pianta
il
seme
dell’odio
che
genera
poi
i
massacri
che
ci
fanno
inorridire.
L’intolleranza
che
si
nasconde
ma
che
“genera
mostri”
è
quella
del
passante
che
non
sopporta
di
vedere
musulmani
che
pregano
sui
marciapiedi
al
venerdì
sera
(senza
pensare
che
certamente
essi
preferirebbero
pregare
al
chiuso,
se
potessero)
ma
che
poi
si
dice
contrario
alla
costruzione
di
moschee,
viste
come
covi
di
terroristi;
intolleranza
è il
professore
di
liceo
che,
incaricato
di
presiedere
agli
esami
di
stato
in
una
scuola
ebraica,
si
lamenta
di
non
poter
terminare
il
suo
lavoro
un
giorno
prima
perché
non
può
interrogare
di
sabato;
intolleranza
è
quella
del
cristiano
che
divide
la
cristianità
tra
membri
della
sua
Denominazione
e
“gli
altri”
che,
indubbiamente,
se
non
la
pensano
come
lui,
se
non
hanno
la
sua
stessa
interpretazione
della
Bibbia
(sempre
ammesso
che
non
si
sia
accontentato
di
interpretazioni
pre-digerite
da
altri)
devono
per
forza
sbagliare
ed
essere
“eretici”;
intolleranza
è
anche
permettere
a
solo
sette
Denominazioni
(controllare
il
C.U.D.
per
credere)
sulle
circa
40
censite
in
Italia,
di
stipulare
accordi
per
ottenere
l’”8
per
mille”,
condannando
tutti
gli
altri
fedeli
a
una
sorta
di
cultualità
semi-catacombale
o a
doversi
affidare
unicamente
al
volontarismo
degli
aderenti
(e,
per
favore,
evitiamo,
in
un
mondo
di
computer
sempre
più
perfezionati,
la
banalità
del
rifugiarsi
in
affermazioni
relative
alla
difficoltà
di
ripartizione
tra
Chiese
con
troppi
pochi
fedeli...)
Insomma,
l’intolleranza
religiosa
è
presente,
è
quotidiana
ed è
così
palese
anche
nelle
nostre
“civiltà
democratiche”
che,
come
spesso
accade,
finiamo
quasi
per
non
vederla
più.
Ebbene,
se è
così
presente,
da
dove
nasce?
La
risposta
è
già
pronta,
prefabbricata
dalla
mente
di
qualche
intellettuale
di
un
paio
di
secoli
fa.
È
così
pronta
che
ci
sale
immediatamente
alle
labbra,
insieme
con
quello
scrollare
il
capo
che
sta
a
significare
uno
splendido,
grandiosamente
farisaico
“beh,
ma
io
non
sono
come
quelli”
(e
chi
sono
quelli,
se
la
rispostina
prefabbricata
viene
da
chi
fino
a un
minuto
prima
ha
ritenuto
giusto
dare
del
“tu”
al
vecchio
senegalese
che
gli
cerca
di
vendere
un
braccialetto
e
dare
del
“lei”
al
suo
capufficio
trentenne?)
:
l’intolleranza
nasce
dall’ignoranza,
ovviamente!
Lasciando
da
parte
casi
estremi
in
cui
porporati
(intendendo
con
questo
termine,
per
estensione,
ogni
genere
di
alta
carica
religiosa)
con
chili
di
dottorati
nel
cassetto
si
scagliano
contro
il
loro
confratello
che,
magari,
ha
letto
in
modo
differente
un
comma
di
un
dogma,
la
nostra
“rispostina”
non
è
certamente
sbagliata.
In
fondo
come
possiamo
definire
la
cultura
se
non
la
capacità
critica
di
anteporre
un
pensiero
razionale
a un
istinto
primario
(e,
non
nascondiamoci
dietro
un
dito,
il
rifiuto
del
diverso
è un
dato
così
atavico
da
risultare,
appunto,
istintivo),
la
capacità
critica
di
analizzare
i
dati
comuni
tra
due
realtà
oltre
a
quelli
dissonanti,
di
costruire
ponti
prima
di
scavare
fossati?
Sì,
certamente
l’intolleranza
viene
dalla
ignoranza,
ne è
filiazione
diretta...
Ma,
pure,
c’è
chi
soffia
sulle
ceneri,
chi
alimenta
questa
ignoranza.
È un
elemento
logico:
se
io,
ignorante,
assumo
una
posizione
estrema
su
un
argomento
che,
probabilmente,
non
conosco
a
fondo,
allora
ci
deve
essere
qualcuno
che
questa
posizione
me
l’ha
suggerita,
che
ha
alimentato
il
mio
pensiero
in
un
verso
piuttosto
che
nell’altro.
Dunque,
fatta
salva
la
componente
legata
all’ignoranza,
la
domanda
rimane:
da
dove
nasce
l’intolleranza
religiosa?
C’è
una
risposta
che,
a
chi
volesse
analizzare
il
fenomeno
sia
sincronicamente
che
diacronicamente,
non
potrebbe
che
appare
piuttosto
evidente:
dalla
paura.
Chi
crea
staccionate
e
muri
(di
qualunque
tipo,
siano
essi
fisici
o
ideologici)
se
non
chi
ha
paura?
Chi
pensa
a
difendersi
(e,
Sun
Tzu
insegna,
l’attacco
rimane
spesso
la
miglior
difesa)
se
non
chi
ha
paura?
In
ultima
analisi,
chi
odia
se
non
chi
ha
paura
(di
qualunque
cosa
abbia
paura,
di
ricevere
del
male
così
come
di
soffrire,
di
non
“pareggiare
i
conti”
così
come
di
“sentirsi
inferiore”)?
Ma
andiamo
più
a
fondo
e
chiediamoci,
allora,
cos’è
la
paura?
Fisicamente,
siamo
tutti
d’accordo,
la
paura
è un
meccanismo
di
difesa,
una
risorsa
istintiva
di
qualunque
essere
vivente,
ma
moralmente
e
intellettualmente?
Moralmente
e
intellettualmente
la
paura
è un
segno
di
debolezza,
di
insicurezza:
io
ho
paura
di
qualcosa
o
qualcuno
quando
mi
sento
debole
nei
suoi
confronti,
quando
penso
o
sento
di
non
avere
abbastanza
risorse
per
fronteggiarlo.
Nel
concreto,
allora,
l’intolleranza
religiosa
diventa
il
più
grande
segno
di
debolezza
e la
più
grande
autodenigrazione
dei
propri
principi
che
una
società
possa
sviluppare.
Storicamente
un
paio
di
casi
posso
bastare
per
esemplificare
il
concetto.
Quando
sono
nate
le
crociate,
atti
basati
ideologicamente
non
tanto
sulla
volontà
di
riconquista
territoriale,
quanto
sulla
volontà
di
eliminare
fisicamente
“l’altro”
(con
l’incredibile
concetto
del
malicidio)
se
non
quando
l’occidente
si è
sentito
debole
di
fronte
all’avanzata
dell’Islam?
Quando
l’Islam
ha
riscoperto
la
sua
vocazione
al
martirio
cruento
se
non
quando
ha
notato
l’occidentalizzazione
dei
costumi
che
si
stava
insinuando
all’interno
della
sua
gioventù?
Ecco,
dunque,
che
il
tentativo
di
imporre
il
mio
pensiero
religioso,
il
nascondermi
dietro
dogmi
misteriosi,
magari
sempre
più
ridicoli,
significa,
in
primo
luogo,
negare
ogni
confronto,
negare
ogni
possibilità
dialogica
e
chi
si
sente
sicuro
delle
proprie
posizioni
non
nega
mai
il
confronto,
anzi,
lo
cerca
quantomeno
per
riaffermare
logicamente,
dialetticamente
le
ragioni
in
cui
crede.
Chi
chiude
al
dialogo
ha
paura
perché
sente
le
proprie
posizioni
troppo
deboli
per
essere
difendibili.
Arriviamo
così
ad
un
punto
sensibile
del
discorso:
vivere
la
tolleranza
significa
abdicare
alla
propria
identità?
Assolutamente
no,
anzi,
al
contrario!
Per
comprendere
questo
punto
dobbiamo
tentare
di
definire
cosa
sia
la
tolleranza
e
non
è
cosa
facile.
Cercando
di
ridurre
il
concetto
al
grado
zero
potremmo
dire
che,
dal
punto
di
vista
religioso
e
spirituale,
la
tolleranza
può
significare
non
solo
sopportare
l’esistenza
di
pensieri
diversi
dal
nostro
(cosa
che
costituisce
un
dato
imprescindibile
ma
che
dovrebbe
essere
talmente
ovvia
in
una
corretta
interpretazione
di
qualunque
fede
da
risultare
evidente)
ma
anche
rimanere
aperti
al
dialogo
e al
confronto
intellettuale
verso
percorsi
alternativi
nell’ottica
di
un
comune
arricchimento:
nel
momento
in
cui
diverse
spiritualità
hanno
posto
l’accento
su
aspetti
differenti
o su
ottiche
differenti
relative
agli
stessi
aspetti,
una
visione
plurifocale
non
può
che
essere
di
indubbia
utilità
per
il
percorso
di
ogni
credente,
per
lo
sviluppo
di
una
fede
più
matura,
più
ragionata,
più
ricca
di
sfumature
e
spunti
di
percorso.
Allora,
due
atteggiamenti
diventano
nemici
principali
della
tolleranza:
1)
l’arroccamento
dietro
dogmi
intangibili
e
indiscutibili,
calati
dall’alto
senza
alcun
spiegazione
razionale
e
senza
lasciare
alcun
grado
di
apertura
al
dubbio
(e,
parliamoci
chiaro,
la
fede
viene
dal
dubbio
e
senza
il
dubbio
ben
difficilmente
possiamo
parlare
di
vera
fede,
dovendo,
piuttosto,
osservare
come
sarebbe
più
consono
parlare
di
ammaestramento
a
livello
animalesco
o,
al
più,
infantile);
2)
l’indifferentismo.
Questo
secondo
atteggiamento
nemico
della
tolleranza
merita
un’analisi
più
approfondita.
Dicevamo
che
l’intolleranza
nasce
dalla
paura
e
dall’insicurezza.
Ebbene,
l’indifferentismo
ha
le
stesse
matrici
e si
sviluppa
dalla
paura
di
intraprendere
e
compiere
fino
in
fondo
una
scelta
di
vita
profonda
e
dall’insicurezza
di
mettersi
in
gioco,
di
scommettere
su
qualcosa
in
cui
si
crede
fermamente.
L’indifferentismo,
allora,
è la
scelta
di
non
scegliere
che,
per
naturale
rispecchiamento,
significa
anche
la
negazione
di
qualunque
scelta
possibile.
Ebbene,
come
può
esistere
la
tolleranza
là
dove
esiste
la
negazione?
Che
senso
ha
il
concetto
stesso
di
tolleranza
se
tale
atteggiamento
si
fonda
sul
vuoto,
sul’incertezza
agnostica,
sull’acquisizione
di
elementi
superficiali
e
non
profondamente
interiorizzati
di
realtà
differenti,
sulla
concettualità
vaga
di
un
deismo
generico
che
pone
l’inconoscibilità
e l’inesperienzialità
come
propria
radice
fondante?
Come
posso
accogliere
la
differenza
se
non
ho
pietra
di
paragone?
Per
questo,
in
realtà,
l’assunzione
di
una
identità
religiosa
forte,
così
convinta
della
propria
validità
da
essere
aperta
al
dialogo,
al
confronto,
da
essere
preparata
alla
discussione
ma
anche
alla
sintesi
a
livello
superiore,
diventa
presupposto
reale
della
tolleranza,
che
non
è
vago
buonismo
omninglobante,
ma
lavoro
costruttivo
a
partire
da
punti
fermi,
opera
di
smussamento
degli
angoli,
di
lavorio
dell’animo
aperto
verso
l’esterno.
Forse
è
questa
la
ragione
per
la
quale,
in
una
società
in
cui
impera
il
pensiero
debole
e
l’etica
situazionale,
l’intolleranza
sta
rifacendo
la
sua
comparsa:
laddove
le
certezze
vacillano,
pochi
dogmi
diventano
ancore
di
salvezza
contro
il
naufragio
dell’io
e
poco
importa
essere
in
grado
di
possedere
una
chiave
critica
per
interpretarli,
una
capacità
di
destrutturarli
e
ristrutturarli
in
dialettica
con
chi
ha
idee
diverse.
Ciò
che
conta
è la
mia
piccola
ancora,
la
mia
piccola
certezza
intoccabile,
su
cui
costruire
il
mio
mondo,
la
mia
piccola
serie
di
idee
e
formule
appiccicate
al
reale,
lente
di
visione
e
nucleo
di
interpretazione
ereditato
acriticamente.
Ecco
che
la
paura
e la
debolezza
dell’acriticità
(sia
essa
legata
a
scelte
non
personali
o a
non
scelte)
va
difesa
ad
ogni
costo,
negando
l’ulteriore,
negando
ogni
forma
di
interrogativo
a
cui
non
saprei
rispondere,
negando
ciò
che
è
altro
per
partito
preso,
perché
può
mettere
in
discussione
le
mie
piccole
certezza
non
interiorizzate.
Ma è
fede
questa?
Solo
una
identità
forte,
radicata,
meditata,
pronte
e
aperta
a
qualunque
apporto
e a
qualunque
confronto
ci
salverà
dall’intolleranza.
Ma
la
domanda
è se
ne
siamo
ancora
capaci.
