[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

166 / OTTOBRE 2021 (CXCVII)


arte

TINTORETTO IL TERRIBILE DEVOTO

SCAMPATO ALLA PESTE AL SERVIZIO DI SAN ROCCO / PARTE II

di Marialuisa Dus

 

Per Tintoretto gli anni Sessanta sono un periodo di gloriosa creatività, genera figli e pitture in quantità. Nel 1560 nasce il primogenito Domenico, destinato a rilevare l’attività del padre, poi Marco, Gerolima, Giovanni Battista, Ottavio e, negli anni Settanta e Ottanta, Lucrezia e Laura. Tintoretto quasi quarantenne sposa Faustina Episcopi. Madre, moglie, padrona e amministratrice di casa, la giovanissima donna consente a Tintoretto di dedicarsi alla pittura lavorando senza tregua. Marietta, invece, nata da una relazione precedente con una donna straniera, forse tedesca, muore a soli trentasei anni; detta da tutti Tintoretta, sua discepola, diventa presto un’ammirata ritrattista.

 

Tintoretto e i notturni dedicati a San Rocco

 

A questo periodo di febbrile ricerca artistica appartiene San Rocco in prigione confortato da un angelo. Il telero del 1567 è stato concepito per fronteggiare il dipinto del 1549 San Rocco risana gli appestati, noto anche come San Rocco in ospedale. Lunghi all’incirca sei metri e larghi tre, i due notturni orizzontali costituiscono un dittico imponente. Stupefacenti scene teatrali dove figure gesticolanti, toccate da luce artificiale, si dimenano nel dramma e implorano aiuto. Il dolore affligge i corpi degli ammalati e le anime dei condannati. Negli oscuri luoghi della pena il malato soffre, il delinquente si ribella e il pentito chiede grazia divina. Il devoto Tintoretto mette in scena il tema del risanamento.

 

Il dipinto notturno conferisce dignità al mistero delle tenebre e all’incanto della notte. I lumi artificiali restituiscono il visibile indorato e l’invisibile che si perde nell’oscurità. La luce crea gerarchie fra le cose, esalta e smorza. Al variare della fonte luminosa, della sua forza e della sua distanza, i colori si vivacizzano o si spengono, si rinnova la resa plastica. L’ombra governa l’iperrealismo della scena. Il contrasto tra definito e indefinito dona fedeltà fotografica e rende il racconto coinvolgente. Tra immagine e spettatore il rapporto si fa più intimo.

 

Tintoretto certamente conosceva il Martirio di San Lorenzo di Tiziano del 1548 e la Liberazione di San Pietro di Raffaello del 1512-13, prime pitture notturne assieme al Sonno di Costantino di Piero della Francesca del 1458-66. Il «picciol torchio» che – Michelangelo Buonarroti asserisce – «tolle la vita della notte» apre la strada alla ricerca luministica nell’arte a venire. Tintoretto sperimenta la pittura notturna così da anticipare con i racconti religiosi ambientati in gattabuie e taverne i maestri del Lume dell’arte barocca e con gli episodi biblici immersi nel Creato i maestri del Sublime dell’arte romantica. Nel dittico dedicato alle Meditazioni della Vergine, dipinto per la Scuola Grande di San Rocco, trionfa il lirismo dei paesaggi notturni ottocenteschi.

 

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Madonna in meditazione, 1582-87, olio su tela, 425 x 211 cm

Scuola Grande di San Rocco, Venezia.

 

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Madonna leggente, 1582-87, olio su tela, 425 x 209 cm

Scuola Grande di San Rocco, Venezia

 

A esaltare il naturalismo dei notturni dedicati a San Rocco, istantanee dai toni mistici e dimessi, sono soluzioni antiaccademiche: concitati gesti carici di sentimento, arditi effetti chiaroscurali e robustezza plastica, ripresa più nella forma che nella possanza dai modelli tosco-romani. La disperazione infiamma i singoli episodi delle due composizioni che si dispiegano con vivace armonia in un interno cupo. Il tormento si placa nell’aura spirituale del Santo che in ospedale benedice l’appestato e in prigione trova conforto nel messaggero divino.

 

Con realismo e pietà umana il dittico presenta gli episodi più importanti della vita del Santo. Gli spazi bui e disadorni dell’ospedale e del carcere rievocano gli interni fuligginosi delle locande, dove Tintoretto ambienta le sue Ultime cene. Sguardi supplichevoli di volti contriti s’incrociano in cerca di conforto. Gli ignudi di Michelangelo rivivono in figure ondeggianti che si muovono nel lividore del male. Infermi seduti su sgabelli e tavolacci, sdraiati a terra e distesi su letti disfatti. Alle figure maschili seminude, ripiegate nel dolore, fanno da contrappunto quelle femminili, giovani donne, acconciate alla moda, infermiere dei malanni del corpo e della mente. La floridezza della sanità contrasta con l’annichilimento della malattia. D’improvviso la bellezza del corpo si guasta. A ferire il vigore non è la commovente vecchiaia ma il male, il morbo e la corruzione. Ammorbati e disobbedienti si assistono a vicenda per superare la pena che li affligge. Tintoretto, uomo di fede, sintetizza con modernità narrativa due situazioni deliranti dell’esistenza umana.

 

 

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San Rocco risana gli appestati, 1549, olio su tela, 307 x 673 cm

Chiesa di San Rocco, Venezia

 

 

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San Rocco in carcere confortato da un angelo, 1567, olio su tela, 300 x 670 cm

Chiesa di San Rocco, Venezia

 

Una pittura d’azione dentro un’architettura formata da cavità notturne. «Le cognizioni delle ombre e dei lumi acquistate con tanta industria» da Tintoretto, che Giannatonio Moschini ricorda nella Guida per la città di Venezia del 1815, si riversano in uno spazio profondo, strutturato prospetticamente che accoglie un tumulto di figure che si torcono e si tendono. La vivacità delle posture assunte dai corpi avvalora il tono espressionista della pittura. Il dittico è un inno al corpo. Il rapporto tra figura e ambiente è risolto con arditi effetti di luce e di scorcio. L’artificioso gioco di ombre e lumi esalta le forme, i gesti e i colori e coinvolge lo spettatore. Tintoretto nel suo studio – racconta il biografo vicentino Ridolfi – aggiusta e illumina in un piccolo teatro di legno marionette di cera, cartapesta e gesso ricreando la scena da dipingere. Lo storico dell’arte Roberto Longhi, insofferente del Tintoretto «macchinista che si sporge un po’ troppo oltre le quinte, ciò che non è mai buon teatro» riconosce al pittore veneziano una «natura geniale, colma in principio d’idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti».

 

Nell’ospedale la luce artificiale inonda le figure in primo piano così tanto da sbiancare il pavimento; in lontananza, nell’oscurità, illuminato da una flebile luce di candela, un gruppetto si appresta a tumulare un cadavere. Nel carcere invece la luce divina illumina dall’alto il centro della scena, dove San Rocco si apre alla Grazia. Sulla destra dietro un’ampia inferriata, la luce di una lanterna appesa al soffitto rischiara la buia cella dove s’intravede l’ombra di un uomo in piedi.

 

Nelle due tele dedicate a San Rocco tra le tinte spente e bruciate, tanto care a Tintoretto, lampeggiano i colori squillanti della pittura del Veronese. Macchie di vivace colore punteggiano il dominante monocromatismo degli incarnati: sono le vesti svolazzanti che coprono le nudità. Interessato più al gesto che all’anatomia, Tintoretto restituisce immediatezza dipingendo abiti mossi e corpi agitati. Una pittura sintetica e moderna che emoziona, animata da una voce interiore che Tintoretto imprigiona sulla tela come un regista.

 

L’alito vibrante che muove gli appestati di San Rocco è lo stesso che anima gli sciancati di Sant’Agostino. Della pala d’altare dipinta nel 1549 per la chiesa vicentina di San Michele Ridolfi mette in evicenza i «parecchi ignudi accomodati in alcuni scorsi dottamente condotti». Come da tradizione iconografica nei quadri di Tintoretto volteggiano i santi che da morti compiono il miracolo, sopra le teste dei devoti malati, smarriti dall’apparizione divina. Volteggia San Marco, Sant’Agostino e anche l’angelo in morbide vesti turchine che visita il giovane Rocco in prigione. Nella pittura aerea di Tintoretto la figura sospesa ritorna e, col passar degli anni, con sempre maggior insistenza. Le macchie tintorettiane vanno via via rabbuiandosi, si alleggeriscono, perdono peso fino a volteggiare nell’aria come baluginanti fantasmi.

 

  

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Sant’Agostino risana gli sciancati, 1549, olio su tela, 255 x 175 cm

Pinacoteca di Palazzo Chiericati, Vicenza

 

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Erezione del serpente di bronzo, 1575-76, olio su tela, 840 x 520 cm

Scuola Grande di San Rocco, Venezia

 

Tintoretto dipinge i due teleri per la Chiesa di San Rocco a distanza di quasi vent’anni. Nel pittore del pentimento persistono l’arditezza e la furia creativa. Con il tempo la pennellata si fa più energica, aumenta la ruvidezza del segno. Il secondo Tintoretto si mostra più maturo, studia di meno e produce di più, definisce un catalogo di tipi interscambiabili. Ritorna sul tema del notturno e dell’ambientazione interna ma le figure perdono rotondità, diventano instabili, smagriscono e invecchiano assieme al loro artefice.

 

«Quell’hospitio è ripieno di donne e uomini infermi. Alcuni saliti sopra panche si sfasciano le ferite; altri languenti si veggono tratti per terra in iscorci maravigliosi, in guisa che pare eschino co’ piedi fuor della tela; alcuni vecchi vengono sostenuti da giovani, e donne sollevate ne’ letti, che fan sembianti di raccomandarsi alla pietà del Santo».

 

Ridolfi descrive così la prima composizione apprezzandone la qualità di rappresentarsi con «mestizia appropriata al luogo». Il secondo componimento invece lo definisce un «curioso capriccio» e della scena mette in risalto i «pezzi incatenati, co’ ceppi ai piedi, e d’altri ancora (oltre agli infermi) che spuntano fuori col capo dalle ferrate collocate nel piano, ai quali vien posto il cibo dagli spitalieri».

 

Fra crocchi d’infermi e incatenati emerge la figura di San Rocco con la testa illuminata dal nimbo raggiante che nelle tenebre riluce come segno divino di speranza. L’aureola, molto più accesa nel Santo guaritore, sembra ravvivarsi nel Santo malato all’arrivo dell’angelo. Non manca, in entrambe le scene, il fedele compagno del giovane pellegrino. Due teleri, due cani, due razze, il più mansueto a pelo lungo nell’ospedale, il più guardingo a pelo raso nel carcere.

 

San Rocco in ospedale dà le spalle allo spettatore, mostra il tabarrino e si china sul malato che esibisce le piaghe infette. Nell’avvicinarsi al giovane il mantello del Santo si apre lasciando intravedere i calzoni e la giubba giallo-blu sottostanti. Tuona al centro della scena il corpo illuminato dell’appestato. Alle sue spalle due uomini aiutano l’infermo che fatica a levar la gamba. Dentro sagome buie di vestiti scuri, risaltano i loro volti arrossati e le loro mani gesticolanti. Poco sopra i due assistenti, il buio fondale si rasserena in uno squarcio sulla natura. All’interno di una nicchia voltata e lievemente illuminata, una finestrella a lunetta con inferriata inquadra un lembo di cielo azzurro su cui si stagliano le chiome verdi di una coppia di alberi.

 

Astanti in primo piano, ai lati della scena due donne introducono lo spettatore all’interno dell’ospedale. Con trecce bionde raccolte sul capo e abiti fluttuanti, guardano al cuore della scena laddove la miracolosa guarigione sta per avvenire. I loro candidi volti appaiono ravvivati dal rossore della giovinezza. Le faccende che le occupano non distolgono la loro attenzione. La cortigiana di destra è pronta ad alleviar la sete portando su un vassoio a chi è arso di febbre un’ampolla d’acqua fresca. La cortigiana di sinistra, con lo sguardo rivolto al luogo del miracolo, risveglia la curiosità dell’infermo ai suoi piedi che torce la testa per ammirare con i propri occhi.

 

Ancora in forza per credere nella salvezza sono due vecchi: un’anziana donna intenta a sollevar l’amica dal letto e un uomo barbuto con giubba verdastra che inginocchiato assiste un giovane sofferente. Al centro del gruppo di destra dardeggia il rosso sangue del drappo che copre le gambe della donna a letto. Alla base di questa composizione piramidale di figure, un uomo con turbante, seduto a terra a gambe incrociate e testa abbassata, pensieroso fissa il disegno a scacchiera del pavimento in attesa di uno slancio per alzarsi.

 

 

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San Rocco risana gli appestati, 1549, particolare

Il Santo benedice con il segno della croce il giovane malato

 

 

 

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San Rocco risana gli appestati, 1549, particolari

Donne e vecchi assistono gli infermi

 

San Rocco in cella non indossa il tabarro dentro il quale è chiuso all’arrivo in ospedale. Del Santo prigioniero si vedono le vesti, la mantellina giallo-arancio, la tunica color vinaccia e le calze blu-scuro. A mettere in risalto l’accesa cromia degli abiti è il bianco della tunica del vecchio che tutto chino sopra il Santo si mostra disorientato. Nuvole scure retro illuminate incorniciano la triade formata dal Santo e dalla coppia di uomini barbuti che accanto a lui manifestano meraviglia di fronte alla visita inattesa. La scena centrale, sovrastata dall’imponente angelo, appare racchiusa da due figure maschili in piedi con busto incurvato e bacino lievemente inclinato disposte alle estremità, l’una del letto l’altra del tavolo.

 

La prigione presenta una spazialità meno profonda dell’ospedale, si accorciano le diagonali sceniche lungo cui si dispongono i personaggi. Il componimento appare più disorganico e l’impaginazione meno accademica. Persiste la visione dilatata sulla scena, tuttavia il cromatismo luministico si smorza e si fa più essenziale.

 

A sinistra lungo la parete della cella stanno due uomini incatenati, il più vicino costretto a star seduto infuria, il più lontano in piedi, leggermente chino colloquia con un esterno attraverso un oculo. I movimenti dei due carcerati si equilibrano. La coppia rievoca l’episodio dei due giovani malati, l’uno in piedi l’altro seduto sul medesimo letto, che guardano con preoccupazione i loro corpi tempestati di piaghe arrossate. Ritornano così, come una costante, le figure complementari, protagoniste all’interno del componimento di scenette a se stanti.

 

Ai piedi dell’incatenato ribelle, da una segreta sbuca la testa di un giovane con il braccio destro mozzato della mano. La testa del ragazzo è perno compositivo. L’episodio narrato si risolve in tre teste allineate e due corpi scorciati in maniera antitetica. A sinistra un prigioniero riverso sull’ammattonato trapassa la grata con un braccio per avanzare del cibo a un compagno mostrando la nuca e i muscoli della schiena. A destra un prigioniero, più vecchio e più prossimo allo spettatore, disteso spalanca le braccia in segno di stupore esibendo i piedi e il petto.

 

Sono due le donne che abitano la cella di San Rocco, fanno parte del gruppetto raccolto intorno al tavolo imbandito di sola tovaglia. L’una volante insegue l’angelo, l’altra indifferente alla venuta, seduta conversa con il prigioniero che le sta accanto. L’episodio ha tutto il sapore di una scena di locanda, mancano soltanto vini e vivande.

 

 

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San Rocco in carcere confortato da un angelo, 1567, particolare

Il Santo si apre alla Grazia

 

 

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San Rocco in carcere confortato da un angelo, 1567, particolare

Prigionieri incatenati e pentiti

 

 

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San Rocco in carcere confortato da un angelo, 1567, particolare

Arrivo del messaggero divino

 

Tintoretto e la Morte nera

 

Dopo la peste del 1347-48 giunta con il naviglio mercantile dalla Dalmazia, il morbo continua a flagellare Venezia. Con l’ondata del 1423 viene istituito il primo ospedale per l’assistenza e l’isolamento degli infetti. Nell’isola di Santa Maria di Nazareth, poco distante dal Lido di Venezia, nasce il Lazzaretto vecchio, così detto dal 1470. Nel 1468, nella Laguna Nord nell’isola chiamata Vigna Murada, proprietà dei monaci benedettini, viene fondato un nuovo lazzaretto, luogo di contumacia per le navi sospette provenienti dal Mediterraneo.

 

Nel Cinquecento la peste ritorna più volte a Venezia decimando nel 1575-77 un quarto della popolazione. Tintoretto conosce bene il terribile contagio che serpeggia in città, spesso i primi a morire sono i lavoratori dell’industria tessile, i tintori di seta. Nel 1840 il medico Angelo Antonio Frari afferma che Venezia per le continue invasioni del contagio «dovette sentire prima d’ogni altra nazione di Europa il bisogno di stabilire un mezzo di provvedimento sanitario capace di preservare la Capitale e i Veneti Stati dall’invasione di un morbo crudele». E, a riguardo della peste penetrata in Germania dall’Oriente, giunta a Venezia nell’estate del 1575, nel celebre libro Della peste e della pubblica amministrazione sanitaria Frari ricorda che l’epidemia «nel dicembre del 1575 sembrava estinta, ma nel marzo 1576 rincrudelì con maggior ferocia di prima».

 

Nell’estate del 1576 muoiono molti veneziani, mogli e figli di pittori, artisti e artigiani, amici di Tintoretto, prima i popolani poi i nobili. La fuga in terraferma ha inizio in primavera. A giugno in città muoiono cento persone ogni giorno, un mese dopo scarseggiano medici, preti, avvocati e magistrati, i cadaveri rimangono insepolti sulle fondamenta, le botteghe chiuse, le case serrate e i canali brulicano d’imbarcazioni che trasportano morti e sospetti. Nella Venezia isolata regna lo spettacolo della morte, le calli sono popolate da beccamorti e ladri. Molte le case sequestrate, tante quelle vuote. La figlia di Francesco Sansovino muore mentre lui e la moglie, confinati in quarantena, superarono la malattia. Muoiono anche il pittore Orazio Vecellio e il padre Tiziano, il giovane al lazzaretto, il vecchio a casa, forse di febbre.

 

Quell’anno Tintoretto rimane a Venezia per lavorare mentre la sua famiglia si trasferisce nella proprietà di campagna a Carpanedo, in terraferma dove il morbo arriva più tardi. Quando nell’estate del 1575 la peste stava per abbattersi su Venezia, Tintoretto si era offerto di dipingere il quadro di mezzo e l’intero soffitto della Sala Superiore della Scuola Grande di San Rocco promettendo di consegnare la tela centrale un anno dopo. Dipinge instancabilmente rintanato nel suo studio muovendosi in città soltanto per riscuotere soldi, firmare contratti e consegnare quadri.

 

È il 1576: a giugno consegna alcuni ritratti e i cartoni per i mosaici della Basilica di San Marco, a luglio dalla Scuola del Santissimo Sacramento ottiene l’incarico di dipingere tre teleri per la chiesa di Santa Margherita, ad agosto, in occasione della festa di San Rocco consegna alla Scuola omonima l’Erezione del serpente di bronzo. Il soggetto di grande attualità è simbolo della guarigione, per gli ebrei dal castigo dei serpenti, per i veneziani dal castigo della peste.

 

Al telero eseguito per il soffitto della Sala Superiore seguono la Caduta della manna e il Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia. Opere di grande effetto prospettico, raffiguranti gli episodi biblici citati da Alvise Mocenigo nell’orazione pubblica tenuta l’8 settembre del 1576 in Piazza San Marco, occasione in cui il doge supplica la fine della pestilenza e fa voto di costruire una Chiesa dedicata al Santissimo Redentore alla Giudecca.

 

In concomitanza della fine della peste, nel novembre del 1577 l’impresa promessa da Tintoretto alla Scuola Grande di San Rocco giunge a compimento. Tintoretto chiede compenso delle spese non delle fatiche, e ai confratelli avanza un’offerta nuova, la proposta finale. «Volendo dimostrar l’amor grando ch’io porto a ditta veneranda nostra scola per devocion ch’io ho nel glorioso messer san rocho da desiderio di veder essa scola finita […] mi obligo dedicar el restante della mia vita al suo servicio». Tintoretto quasi sessantenne si garantisce una rendita, un vitalizio di cento ducati l’anno e in cambio offre un gran lavoro che compie per sé, per la famiglia e per ringraziare l’amato San Rocco. Lavorerà per la Scuola ancora per un altro decennio.

 

Scampato alle petecchie negre della peste, il devoto depentor veneziano rende gloria al Santo protettore degli appestati e realizza il capolavoro della sua vita, una Sistina in Laguna. I teleri per la Scuola Grande suggellano in un trionfante sposalizio il primo incontro tra Tintoretto e San Rocco avvenuto nella Chiesa dedicata al Santo. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]