[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 210 / GIUGNO 2025 (CCXLI)


arte

Tra musica e amicizia
A proposito di Thomas Bernhard

di Gaetano Cellura

 

Thomas Bernhard non si perdonò mai di non aver voluto incontrare Paul Wittgenstein nei suoi ultimi mesi di vita. S’era limitato a guardare l’amico da lontano; e come si guarda uno che, “già da tempo disdetto dal mondo”, doveva rimanerci suo malgrado. O a pensarlo, in uno stato da far pietà, nel suo appartamento, “ultimo buco di un uomo finito”. Bernhard si comportava in questo modo, consapevolmente infamante, per la paura di “essere messo direttamente a confronto con la morte”.

 

Ma chi era Paul Wittgenstein? Era il nipote del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, l’autore del Tractatus. Con Bernhard si conoscevano da dodici anni. Avevano condiviso la suprema passione per la musica (intere serate ad ascoltare Mozart e Beethoven “senza dire una parola”); il disgusto per il mondo letterario viennese, con i suoi caffè e i suoi premi; la contemporanea degenza in ospedale; e, in fondo, pure una eguale follia: ma mentre Paul se n’era lasciato completamente dominare, Bernhard no.

 

Il suo romanzo breve, Il nipote di Wittgenstein, romanzo di “assoluta tristezza”, nasce come una serie abbondante di annotazioni per ricordare l’amico da vivo, la potenza della sua mente. Ma diventa, di pagina in pagina, il resoconto di una morte lenta da cui la vita di un altro uomo trae linfa. Perché erano dodici anni di seguito che Paul non faceva altro che morire e che questo suo morire dava all’amico Thomas la forza per sopravvivere. O almeno, la forza di rendergli “più sopportabile la vita”.

 

Come lo zio Ludwig, Paul era in pessimi rapporti con la propria famiglia, “nemica dell’arte e dello spirito e soffocata dai suoi stessi milioni”. Ma disprezzava soprattutto la società del suo tempo, “in balìa dell’ottusità degli scienziati atomici”. Metteva in questione la natura e gli esseri umani che amava e odiava con uguale forza, il governo e il parlamento, ma anche e continuamente metteva in questione se stesso.

 

Paul era diventato pazzo “perché di colpo si era messo contro tutto e tutti”. Ma in tutto vedeva chiaro: da pazzo nei pazzi, da sano nei sani, da ricco nei ricchi e da povero nei poveri. Bernhard non aveva mai conosciuto un uomo di ricchezza intellettuale pari a quella del suo migliore amico. Paul se ne liberava buttandola dalla finestra proprio come aveva fatto con la ricchezza materiale. Ma mentre la prima era in lui inesauribile, la seconda, una volta fuori, non è più tornata, riducendolo in miseria.

 

Lui e lo zio Ludwig rappresentavano un’onta per la loro famiglia. Uno perché pazzo; l’altro perché filosofo. Un filosofo, per la famiglia, reso celebre dagli inglesi che, “di punto in bianco”, l’hanno considerato un “gigante dello spirito”. Bernhard dice che nelle loro conversazioni solo una volta, una sola volta, Paul gli ha parlato dello zio. E per dirgli che il filosofo era “il più pazzo di tutta la famiglia”: un multimilionario che era andato a fare il maestro in un piccolo villaggio.

 

Non si spinse oltre sullo zio Ludwig. Forse perché si sentiva segnato dallo stesso destino. E in fondo, per Bernhard, tra lo zio e il nipote non c’era altra verità che questa: il primo era un pensatore che aveva pubblicato il proprio pensiero; il secondo un pensatore che non aveva pubblicato nulla.

 

Negli ultimi tempi Paul Wittgenstein aveva chiuso le porte al mondo dei vivi. E al suo funerale, scrive Bernhard, si presentarono solo otto o nove persone. Paul se ne aspettava almeno duecento. La loro amicizia era stata difficile e faticosa, ma cementata da “ogni sorta di passioni e malattie”. E anche da ciò che avevano di diverso due che pur si somigliavano molto.

 

Dei tre allievi di Horowitz, tutt’e tre virtuosi del pianoforte, Glenn Gould, Wertheimer e Bernhard, io narrante de Il soccombente, il primo eccelleva in modo sensazionale. Perché era qualcosa di più di una promessa. Qualcosa di più di un virtuoso. Glenn Gould era un genio. Un genio che avrebbe strabiliato il mondo: “già da bambino andava ben oltre la padronanza tecnica dello strumento”.

 

Averlo incontrato, avergli sentito suonare le Variazioni Goldberg fu la fine di Wertheimer, del pur bravissimo Wertheimer. La fine della sua carriera virtuosistica. E fu anche la sua tragedia esistenziale. Glenn suonava lo Steinway; Wertheimer il Bosendorfer. Glenn chiamava Wertheimer “il soccombente” perché degli allievi di Horowitz a Salisburgo era il solo che non accettò mai di essergli secondo. Il solo a soffrire della sindrome di Salieri.

 

Glenn era un uomo felice; Wertheimer un infelice che non poteva fare a meno della propria infelicità, senza la quale sarebbe stato ancora più infelice. Glenn aveva un’idea folle: eliminare se stesso come intermediario musicale tra lo Steinway e Bach. Ed era certo di riuscirci un bel giorno.

 

Ogni mattina appena sveglio si ripeteva: non voglio essere l’uomo che suona il pianoforte ma il pianoforte in sé, “lo Steinway in sé”. Per Wertheimer, il geniale Glenn era stato il primo impatto con la realtà: un impatto che lo obbligò ad abbassare per sempre il coperchio del suo Bosendorfer.

 

Bernhard avrebbe potuto raccontare la vita del genio del pianoforte, il più grande pianista del secolo (e si ripromise di farlo). Ma preferì il racconto della vita di Wertheimer, l’amico più fragile. Con cui condivideva, oltre alla passione per la musica, quella di visitare i cimiteri.

 

Glenn morì a cinquantun anni, di morte naturale, suonando il suo Steinway; Wertheimer, senza famiglia (aveva perso i genitori in un incidente d’auto), si impiccò a un albero a cento metri dalla casa della sorella, che sposandosi l’aveva abbandonato e lasciato solo. Questo volle far credere. Ma la causa del suo suicidio era un’altra.

 

Al pari di Paul Wittgenstein, Wertheimer viveva da tempo, da quando aveva abbassato il coperchio del suo pianoforte, da quando aveva sentito le Variazioni Goldberg nell’interpretazione di Glenn Gould, come uno “disdetto dal mondo”. Del geniale amico aveva invidiato persino la morte, avvenuta nel momento della sua massima celebrità mondiale.

 

Sia pure molto tristi, Il nipote di Wittgenstein e Il soccombente sono due romanzi magistrali. Nel primo il legante è l’ammirazione senza invidia per la mente straordinaria di Paul; nel secondo l’ammirazione indistinguibile dall’invidia.

 

Più d’una cosa tuttavia ti fa dimenticare la tristezza che campeggia nell’uno e nell’altro romanzo. Sono la fluidità e la musicalità della prosa di Bernhard, le sue anafore incantevoli, le parole così calibrate e precise che ne fanno, se non il maggior narratore, sicuramente il maggiore scrittore di lingua tedesca.

 

Thomas Bernhard odiava l’Austria. Odiava Vienna. Odiava soprattutto Salisburgo, nelle cui vicinanze ha vissuto in casa dei nonni materni. Una città per lui “micidiale”, ottusamente cattolica e ottusamente nazionalsocialista; il suo Festival una simulazione, “uno strumento – scrive nell’Autobiografia – che serve a imbrogliare la gente, a distrarla con la musica e il teatro”.

 

Anche Glenn Gould l’eccelso, che all’inizio ne era rimasto incantato, finì per non amarla. Diceva che il suo clima, troppo umido, rovinava il pianoforte e le mani e il cervello di colui che lo suona. L’odiava tanto perché non gli ha consentito durante l’infanzia e l’adolescenza di provare gioia e senso di sicurezza: “una tortura per me questa città”. Disse questo e altro di ancora più grave. Al punto di attirarsi il disprezzo dei salisburghesi e degli austriaci.

 

La scuola era l’istituzione che meglio rifletteva lo spirito della città. Bernhard considerò gli anni del ginnasio, alla fine abbandonato, “un periodo sciagurato”. Era un momento decisivo della sua inquieta adolescenza – gli anni del dopoguerra, del si salvi chi può. Quando si pensava che il peggio – bombardamenti, bambini morti dentro il rifugio per asfissia o per paura – fosse alle spalle. E c’era invece tanta fame, tanti mutilati; le ragazze si davano agli americani, ai nuovi padroni, in cambio di cioccolata e calze di nylon. In questo momento decisivo Thomas Bernhard va nella “direzione opposta”, così la chiamava, a quella della scuola.

 

Va a lavorare a sedici anni nella Cantina di Podlaha nel “quartiere degli orrori di Salisburgo”, un quartiere che finiva ogni giorno sui giornali per botte, coltellate e altri fatti di cronaca giudiziaria. Per lui era un modo di andare contro tutto. Meglio così, visto che il ginnasio e i quartieri di “artificiosa esteriorità” stavano per portarlo al suicidio.

 

Il nonno materno e il commerciante Podlaha, proprietario della Cantina, furono i suoi educatori, sostituirono la scuola. Il nonno, lettore di Montaigne e scrittore fallito, è il suo insegnante di filosofia. Il commerciante Podlaha colui che l’addestra alla dura realtà della vita.

 

Bernhard dà un quadro plastico del deprimente dopoguerra. Lui con la paga di apprendista provvedeva ad aiutare la famiglia e a mantenersi gli studi musicali, verso i quali mostrava elevato talento e pari indisciplina. Ma vedeva tanta angoscia esistenziale in giro, per gli scarsi guadagni: la vita che ti presenta sempre il conto, con la guerra (“crimine elementare”) e con la pace.

 

Le pagine dedicate al nonno sono le più belle dell’Autobiografia di Thomas Bernhard (composta da cinque libri: L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino). Il nonno amava il caos, l’antagonismo, era spiritualmente anarchico. E degli anarchici diceva che erano il sale della terra.

 

Sulla chiesa e sulla scuola aveva opinioni “devastanti”: l’una rimbecilliva il popolo; l’altra rendeva i “nostri bambini ripugnanti come gli adulti che incontriamo tutti i giorni per la strada”. Era colto il nonno, amava scrivere, ma del tutto inadatto a un impiego, inadatto alla vita. “Un romanziere, un pensatore! Gli altri lavoravano, lui andava a spasso”. Uomo solitario, visse del reddito di sua moglie, nonna di Thomas, e del marito della figlia, la madre di Thomas.

 

Da molti anni lavorava a La Valle delle sette fattorie, un manoscritto di millecinquecento pagine. Si alzava dal letto alle tre del mattino per “riprendere nella sua stanza la lotta con l’impossibile, con la totale mancanza di prospettive che è propria del mestiere di scrittore”. E in casa “regnavano sovrane l’indigenza e la miseria”.

 

L’esperienza del sanatorio – gestito dai medici come un penitenziario, con le sue celle d’isolamento, gli ammalati trattati “non secondo i bisogni, ma sulla base dei criteri più vili che ci si possa immaginare”: raccomandazioni, reputazioni, estrazione sociale – fu per Bernhard ancora più “atroce” di quella della scuola. Nove mesi di atroce sofferenza. Lui apparteneva alla parte degli ammalati sfavoriti. E questo rafforzò la sua diffidenza nei confronti dei medici e la sua convinzione che doveva essere lui stesso a prendere in mano la propria malattia, se non voleva morire. Come aveva preso in mano la sua vita dopo la morte del nonno, che era stato la sua scuola elementare, il suo ginnasio, la sua università.

 

È il momento questo in cui matura il lui, e in modo definitivo, quel pessimismo radicale che gli fa dividere il mondo in sani e malati; e gli fa vedere la vita come l’esecuzione di una pena, come carcere continuo di cui i tuoi genitori sono i colpevoli. Detto da lui, che non ha conosciuto il padre e che dalla madre era chiamato “figlio di una tresca”, tutto questo si afferma come più triste e vero.

 

Bernhard temeva che la sua Autobiografia fosse vista come le annotazioni di un folle o come semplici “brandelli di ricordi” di un’infanzia e di un’adolescenza travagliate. Contiene invece tutto il travaglio di un particolare momento storico che non chiedeva testimoni smemorati.

 

I temi principali della sua opera sono stati l’odio per Salisburgo e per la scuola come istituzione, la follia (forse), la passione per la musica, il carattere intellettuale dell’amicizia. Dell'amicizia per Paul Wittgenstein, mente inaccessibile tra le tante sterili e accessibili; per Wertheimer, virtuoso del pianoforte che non voleva essere il secondo di nessuno; per Glenn Gould, genio assoluto del pianoforte.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]