Tra musica e amicizia
A proposito di Thomas Bernhard
di Gaetano
Cellura
Thomas Bernhard non si perdonò mai
di non aver voluto incontrare Paul
Wittgenstein nei suoi ultimi mesi di
vita. S’era limitato a guardare
l’amico da lontano; e come si guarda
uno che, “già da tempo disdetto dal
mondo”,
doveva rimanerci suo malgrado. O a
pensarlo, in uno stato da far pietà,
nel suo appartamento, “ultimo buco
di un uomo finito”. Bernhard si
comportava in questo modo,
consapevolmente infamante, per la
paura di “essere messo direttamente
a confronto con la morte”.
Ma chi era Paul Wittgenstein? Era il
nipote del filosofo austriaco Ludwig
Wittgenstein, l’autore del
Tractatus. Con Bernhard si
conoscevano da dodici anni. Avevano
condiviso la suprema passione per la
musica (intere serate ad ascoltare
Mozart e Beethoven “senza dire una
parola”); il disgusto per il mondo
letterario viennese, con i suoi
caffè e i suoi premi; la
contemporanea degenza in ospedale;
e, in fondo, pure una eguale follia:
ma mentre Paul se n’era lasciato
completamente dominare, Bernhard no.
Il suo romanzo breve, Il nipote
di Wittgenstein, romanzo di
“assoluta tristezza”, nasce come una
serie abbondante di annotazioni per
ricordare l’amico da vivo, la
potenza della sua mente. Ma diventa,
di pagina in pagina, il resoconto di
una morte lenta da cui la vita di un
altro uomo trae linfa. Perché erano
dodici anni di seguito che Paul non
faceva altro che morire e che questo
suo morire dava all’amico Thomas la
forza per sopravvivere. O almeno, la
forza di rendergli “più sopportabile
la vita”.
Come lo zio Ludwig, Paul era in
pessimi rapporti con la propria
famiglia, “nemica dell’arte e dello
spirito e soffocata dai suoi stessi
milioni”. Ma disprezzava soprattutto
la società del suo tempo, “in balìa
dell’ottusità degli scienziati
atomici”. Metteva in questione la
natura e gli esseri umani che amava
e odiava con uguale forza, il
governo e il parlamento, ma anche e
continuamente metteva in questione
se stesso.
Paul era diventato pazzo “perché di
colpo si era messo contro tutto e
tutti”. Ma in tutto vedeva chiaro:
da pazzo nei pazzi, da sano nei
sani, da ricco nei ricchi e da
povero nei poveri. Bernhard non
aveva mai conosciuto un uomo di
ricchezza intellettuale pari a
quella del suo migliore amico. Paul
se ne liberava buttandola dalla
finestra proprio come aveva fatto
con la ricchezza materiale. Ma
mentre la prima era in lui
inesauribile, la seconda, una volta
fuori, non è più tornata,
riducendolo in miseria.
Lui e lo zio Ludwig rappresentavano
un’onta per la loro famiglia. Uno
perché pazzo; l’altro perché
filosofo. Un filosofo, per la
famiglia, reso celebre dagli inglesi
che, “di punto in bianco”, l’hanno
considerato un “gigante dello
spirito”. Bernhard dice che nelle
loro conversazioni solo una volta,
una sola volta, Paul gli ha parlato
dello zio. E per dirgli che il
filosofo era “il più pazzo di tutta
la famiglia”: un multimilionario che
era andato a fare il maestro in un
piccolo villaggio.
Non si spinse oltre sullo zio
Ludwig. Forse perché si sentiva
segnato dallo stesso destino. E in
fondo, per Bernhard, tra lo zio e il
nipote non c’era altra verità che
questa: il primo era un pensatore
che aveva pubblicato il proprio
pensiero; il secondo un pensatore
che non aveva pubblicato nulla.
Negli ultimi tempi Paul Wittgenstein
aveva chiuso le porte al mondo dei
vivi. E al suo funerale, scrive
Bernhard, si presentarono solo otto
o nove persone. Paul se ne aspettava
almeno duecento. La loro amicizia
era stata difficile e faticosa, ma
cementata da “ogni sorta di passioni
e malattie”. E anche da ciò che
avevano di diverso due che pur si
somigliavano molto.
Dei tre allievi di Horowitz, tutt’e
tre virtuosi del pianoforte, Glenn
Gould, Wertheimer e Bernhard, io
narrante de Il soccombente,
il primo eccelleva in modo
sensazionale. Perché era qualcosa di
più di una promessa. Qualcosa di più
di un virtuoso. Glenn Gould era un
genio. Un genio che avrebbe
strabiliato il mondo: “già da
bambino andava ben oltre la
padronanza tecnica dello strumento”.
Averlo incontrato, avergli sentito
suonare le Variazioni Goldberg
fu la fine di Wertheimer, del
pur bravissimo Wertheimer. La fine
della sua carriera virtuosistica. E
fu anche la sua tragedia
esistenziale. Glenn suonava lo
Steinway; Wertheimer il Bosendorfer.
Glenn chiamava Wertheimer “il
soccombente” perché degli allievi di
Horowitz a Salisburgo era il solo
che non accettò mai di essergli
secondo. Il solo a soffrire della
sindrome di Salieri.
Glenn era un uomo felice; Wertheimer
un infelice che non poteva fare a
meno della propria infelicità, senza
la quale sarebbe stato ancora più
infelice. Glenn aveva un’idea folle:
eliminare se stesso come
intermediario musicale tra lo
Steinway e Bach. Ed era certo di
riuscirci un bel giorno.
Ogni mattina appena sveglio si
ripeteva: non voglio essere l’uomo
che suona il pianoforte ma il
pianoforte in sé, “lo Steinway in
sé”. Per Wertheimer, il geniale
Glenn era stato il primo impatto con
la realtà: un impatto che lo obbligò
ad abbassare per sempre il coperchio
del suo Bosendorfer.
Bernhard avrebbe potuto raccontare
la vita del genio del pianoforte, il
più grande pianista del secolo (e si
ripromise di farlo). Ma preferì il
racconto della vita di Wertheimer,
l’amico più fragile. Con cui
condivideva, oltre alla passione per
la musica, quella di visitare i
cimiteri.
Glenn morì a cinquantun anni, di
morte naturale, suonando il suo
Steinway; Wertheimer, senza famiglia
(aveva perso i genitori in un
incidente d’auto), si impiccò a un
albero a cento metri dalla casa
della sorella, che sposandosi
l’aveva abbandonato e lasciato solo.
Questo volle far credere. Ma la
causa del suo suicidio era un’altra.
Al pari di Paul Wittgenstein,
Wertheimer viveva da tempo, da
quando aveva abbassato il coperchio
del suo pianoforte, da quando aveva
sentito le Variazioni Goldberg
nell’interpretazione di Glenn Gould,
come uno “disdetto dal mondo”. Del
geniale amico aveva invidiato
persino la morte, avvenuta nel
momento della sua massima celebrità
mondiale.
Sia pure molto tristi, Il nipote
di Wittgenstein e Il
soccombente sono due romanzi
magistrali. Nel primo il legante è
l’ammirazione senza invidia per la
mente straordinaria di Paul; nel
secondo l’ammirazione
indistinguibile dall’invidia.
Più d’una cosa tuttavia ti fa
dimenticare la tristezza che
campeggia nell’uno e nell’altro
romanzo. Sono la fluidità e la
musicalità della prosa di Bernhard,
le sue anafore incantevoli, le
parole così calibrate e precise che
ne fanno, se non il maggior
narratore, sicuramente il maggiore
scrittore di lingua tedesca.
Thomas Bernhard odiava l’Austria.
Odiava Vienna. Odiava soprattutto
Salisburgo, nelle cui vicinanze ha
vissuto in casa dei nonni materni.
Una città per lui “micidiale”,
ottusamente cattolica e ottusamente
nazionalsocialista; il suo Festival
una simulazione, “uno strumento –
scrive nell’Autobiografia –
che serve a imbrogliare la gente, a
distrarla con la musica e il
teatro”.
Anche Glenn Gould l’eccelso, che
all’inizio ne era rimasto incantato,
finì per non amarla. Diceva che il
suo clima, troppo umido, rovinava il
pianoforte e le mani e il cervello
di colui che lo suona. L’odiava
tanto perché non gli ha consentito
durante l’infanzia e l’adolescenza
di provare gioia e senso di
sicurezza: “una tortura per me
questa città”. Disse questo e altro
di ancora più grave. Al punto di
attirarsi il disprezzo dei
salisburghesi e degli austriaci.
La scuola era l’istituzione che
meglio rifletteva lo spirito della
città. Bernhard considerò gli anni
del ginnasio, alla fine abbandonato,
“un periodo sciagurato”. Era un
momento decisivo della sua inquieta
adolescenza – gli anni del
dopoguerra, del si salvi chi può.
Quando si pensava che il peggio –
bombardamenti, bambini morti dentro
il rifugio per asfissia o per paura
– fosse alle spalle. E c’era invece
tanta fame, tanti mutilati; le
ragazze si davano agli americani, ai
nuovi padroni, in cambio di
cioccolata e calze di nylon. In
questo momento decisivo Thomas
Bernhard va nella “direzione
opposta”, così la chiamava, a quella
della scuola.
Va a lavorare a sedici anni nella
Cantina di Podlaha nel “quartiere
degli orrori di Salisburgo”, un
quartiere che finiva ogni giorno sui
giornali per botte, coltellate e
altri fatti di cronaca giudiziaria.
Per lui era un modo di andare contro
tutto. Meglio così, visto che il
ginnasio e i quartieri di
“artificiosa esteriorità” stavano
per portarlo al suicidio.
Il nonno materno e il commerciante
Podlaha, proprietario della Cantina,
furono i suoi educatori,
sostituirono la scuola. Il nonno,
lettore di Montaigne e scrittore
fallito, è il suo insegnante di
filosofia. Il commerciante Podlaha
colui che l’addestra alla dura
realtà della vita.
Bernhard dà un quadro plastico del
deprimente dopoguerra. Lui con la
paga di apprendista provvedeva ad
aiutare la famiglia e a mantenersi
gli studi musicali, verso i quali
mostrava elevato talento e pari
indisciplina. Ma vedeva tanta
angoscia esistenziale in giro, per
gli scarsi guadagni: la vita che ti
presenta sempre il conto, con la
guerra (“crimine elementare”) e con
la pace.
Le pagine dedicate al nonno sono le
più belle dell’Autobiografia
di Thomas Bernhard (composta da
cinque libri: L’origine,
La cantina, Il respiro,
Il freddo, Un bambino).
Il nonno amava il caos,
l’antagonismo, era spiritualmente
anarchico. E degli anarchici diceva
che erano il sale della terra.
Sulla chiesa e sulla scuola aveva
opinioni “devastanti”: l’una
rimbecilliva il popolo; l’altra
rendeva i “nostri bambini ripugnanti
come gli adulti che incontriamo
tutti i giorni per la strada”. Era
colto il nonno, amava scrivere, ma
del tutto inadatto a un impiego,
inadatto alla vita. “Un romanziere,
un pensatore! Gli altri lavoravano,
lui andava a spasso”. Uomo
solitario, visse del reddito di sua
moglie, nonna di Thomas, e del
marito della figlia, la madre di
Thomas.
Da molti anni lavorava a La Valle
delle sette fattorie, un
manoscritto di millecinquecento
pagine. Si alzava dal letto alle tre
del mattino per “riprendere nella
sua stanza la lotta con
l’impossibile, con la totale
mancanza di prospettive che è
propria del mestiere di scrittore”.
E in casa “regnavano sovrane
l’indigenza e la miseria”.
L’esperienza del sanatorio – gestito
dai medici come un penitenziario,
con le sue celle d’isolamento, gli
ammalati trattati “non secondo i
bisogni, ma sulla base dei criteri
più vili che ci si possa
immaginare”: raccomandazioni,
reputazioni, estrazione sociale – fu
per Bernhard ancora più “atroce” di
quella della scuola. Nove mesi di
atroce sofferenza. Lui apparteneva
alla parte degli ammalati sfavoriti.
E questo rafforzò la sua diffidenza
nei confronti dei medici e la sua
convinzione che doveva essere lui
stesso a prendere in mano la propria
malattia, se non voleva morire. Come
aveva preso in mano la sua vita dopo
la morte del nonno, che era stato la
sua scuola elementare, il suo
ginnasio, la sua università.
È il momento questo in cui matura il
lui, e in modo definitivo, quel
pessimismo radicale che gli fa
dividere il mondo in sani e malati;
e gli fa vedere la vita come
l’esecuzione di una pena, come
carcere continuo di cui i tuoi
genitori sono i colpevoli. Detto da
lui, che non ha conosciuto il padre
e che dalla madre era chiamato
“figlio di una tresca”, tutto questo
si afferma come più triste e vero.
Bernhard temeva che la sua
Autobiografia fosse vista come
le annotazioni di un folle o come
semplici “brandelli di ricordi” di
un’infanzia e di un’adolescenza
travagliate. Contiene invece tutto
il travaglio di un particolare
momento storico che non chiedeva
testimoni smemorati.
I temi principali della sua opera
sono stati l’odio per Salisburgo e
per la scuola come istituzione, la
follia (forse), la passione per la
musica, il carattere intellettuale
dell’amicizia. Dell'amicizia per
Paul Wittgenstein, mente
inaccessibile tra le tante sterili e
accessibili; per Wertheimer,
virtuoso del pianoforte che non
voleva essere il secondo di nessuno;
per Glenn Gould, genio assoluto del
pianoforte.