[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 208 / APRILE 2025 (CCXXXIX)


ambiente

NELLE TERRE ARTICHE
GEOGRAFIA e GEOPOLITICA TRA PASSATO E PRESENTE

di Titti Brunori Zezza

 

Il progressivo aumento della temperatura che caratterizza il tempo presente sul nostro pianeta ha reso più accessibile un’area geografica che sino a pochi anni fa era percepita dai più quasi come un non luogo per la rigidità del suo clima. Nella parte estrema dell’emisfero settentrionale i greci avevano collocato il mitico popolo degli Iperborei, caro a Apollo che ogni anno andava a visitarli. Là dove non scendeva mai la notte, questi godevano di una eterna giovinezza. Terra misteriosa era quella, tanto che ancora nel VI secolo un monaco scriveva che il Mar Iperboreo era noto solo a colui che lo aveva creato. Solo alla fine del IV secolo un intrepido colono greco, partendo da Massalia (l’attuale Marsiglia) dove risiedeva, aveva osato spingersi su, su, verso l’estremo nord, raggiungendo una terra dove il sole non era visibile per metà dell’anno mentre per gli altri sei mesi era costantemente presente. Tale fenomeno egli aveva annotato nel suo diario di viaggio intitolato Sull’oceano, di cui si conservano oggi purtroppo solo pochi frammenti, suscitando nei suoi contemporanei incredulità e disprezzo nei suoi confronti in quanto ritenuto un millantatore. Così quelle terre al confine del mondo allora conosciuto, ammantate di misteri e leggende, caddero nuovamente nell’oblio per molti secoli a venire, conservando limiti sfumati. A quell’intrepido greco, invece, gli storici odierni attribuiscono una dignità pari a quella dei successivi grandi esploratori, avendo egli descritto per primo quel fenomeno che noi oggi ben conosciamo e che ebbe modo di osservare navigando, a partire dalla Britannia, per sei giorni sino a raggiungere un’isola il cui nome era Thule. Secoli dopo, Seneca nella sua tragedia intitolata Medea (scena III, coro II) riprenderà quel toponimo proprio per evocare una terra remota ai confini del mondo: “Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l’Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un’ultima Thule”.


Ebbene, questo toponimo oggi identifica la base militare che gli USA posseggono in Groenlandia attraverso la quale essi controllano la propria difesa missilistica. Il presidente Trump, da poco insediatosi alla Casa Bianca, ha da subito manifestato l’intenzione di comprare quell’isola di ghiaccio, la più grande sul globo terrestre, come già d’altra parte aveva fatto durante il precedente mandato; anzi, in forma più esplicita questa volta ha dichiarato di volerla annettere al territorio statunitense “ad ogni costo”.

 

Netto e immediato è stato il rifiuto dei suoi abitanti, come pure quello della Danimarca, poiché l’isola di fatto appartiene attualmente ancora a quest’ultima nazione che l’aveva acquisita nel 1814 e a cui, a partire dal 1979, ha concesso l’autogoverno tranne che per il controllo su difesa, affari esteri e politica monetaria, elargendo ogni anno in suo favore dei sussidi pari quasi alla metà del bilancio economico dell’isola. Qui, proprio recentemente, si sono tenute le elezioni amministrative che hanno evidenziato, oltre la netta contrarietà della maggior parte della popolazione ad accettare la proposta del presidente degli USA, anche la volontà di non scindere ancora definitivamente il legame con la Danimarca, rimandando a tempi futuri il conseguimento della completa indipendenza dell’isola.

 

In quella sorta di bacino d’acqua ghiacciata per molta parte dell’anno, quale appare il Mar Glaciale Artico, si specchiano la Groenlandia, come pure la Finlandia, la Svezia, la Norvegia, l’Islanda, il Canada e gli USA con il loro Stato dell’Alaska, e infine anche l’Unione Sovietica. Otto Stati che fanno parte del cosiddetto Consiglio Artico, nato per affrontare i particolari problemi di quella regione geografica da cui, dopo l’invasione dell’Ucraina, è stata espulsa la Russia. Quest’ultima, forte dei suoi 24mila chilometri di coste, si è sempre ritenuta la potenza dominante in quest’area geografica che da sempre percepisce come profondamente sua. D’altra parte, il suo è un dominio che affonda in queste terre profonde radici storiche e religiose. Anche il patriarca Kirill ha espresso il medesimo convincimento in un documento inserito in una capsula di metallo fatta inabissare nel Mar Glaciale Artico nel 2012.

 

Oggi l’intendimento del capo del Cremlino è che l’Unione Sovietica tragga in futuro maggiori vantaggi economici proprio dai suoi possedimenti nell’Artico grazie all’attuale rialzo termico che coinvolge anche quest’area geografica. Non solo attraverso un maggior sfruttamento delle consistenti fonti energetiche ivi esistenti, quale il petrolio di cui abbiamo beneficiato anche noi europei prima dell’invasione dell’Ucraina, ma anche dei preziosi minerali, le cosiddette terre rare, resi oggi più accessibili e indispensabili per la realizzazione di molti strumenti tecnologici di cui nel frattempo ci siamo dotati. A ciò si aggiungano anche i futuri benefici derivanti da quella nuova rotta polare che, con il concorso della Cina, la Russia sta tentando di aprire per accelerare il traffico commerciale tra Oriente e Occidente, abbattendo così i tempi della navigazione: una via sino a poco tempo fa impraticabile a causa dello spesso strato di ghiaccio che ostacolava la navigazione in queste acque. E proprio per tutelare tutti questi interessi economici, oggi in quest’area geografica vengono costantemente attenzionati dalle basi missilistiche dell’Unione Sovietica i vari Paesi facenti parte della NATO e in primis gli USA. Il Mar Glaciale Artico ha costituito per molto tempo una barriera naturale tra le due superpotenze; allora quel passaggio a nord era ostacolato dal consistente strato di ghiaccio che solo oggi, per le mutate condizioni climatiche, si va progressivamente assottigliando, mentre sino a poco tempo fa solo delle navi opportunamente attrezzate erano in grado di fenderlo. Oggi lo scioglimento dei ghiacci sta rendendo progressivamente più agevole il rapporto tra gli Stati ivi presenti, ma forse in futuro più problematica strategicamente quella loro vicinanza.

 

Dopo la scoperta del continente americano e la presa d’atto che non esisteva un passaggio nella sua parte centrale che mettesse in comunicazione Atlantico e Pacifico, così come al limite della sopportazione era considerata la rotta individuata da Magellano nei mari del Sud, in molti tra naviganti ed esploratori si erano cimentati a più riprese al fine di individuare nell’estremo nord un’altra possibile via più rapida per raggiungere dall’Europa le terre dell’estremo Oriente asiatico con cui quella intratteneva da sempre intensi scambi commerciali. Anche lo stesso zar Pietro il Grande aveva concepito già nel XVIII secolo la visionaria apertura di una via marittima di collegamento tra Oriente e Occidente, tra la Siberia appunto e la lontanissima Alaska.

 

Noi oggi abbiamo dimenticato che in quelle inospitali estreme regioni artiche, sino alla metà del XIX secolo, furono i cacciatori e i mercanti dediti al commercio delle pellicce a far valere il proprio dominio, avendo ottenuto il monopolio dello sfruttamento di quelle terre dallo zar Ivan il Terribile. Abbiamo anche dimenticato che furono difficoltà finanziarie momentanee (il risarcimento dovuto ai proprietari terrieri costretti a cedere parte delle loro terre ai contadini e ai servi della gleba a seguito della abolizione del cosiddetto “servaggio”) a spingere nel 1867 lo zar Alessandro II di Russia e duca di Finlandia a cedere per la modestissima cifra di 4.80 dollari per km quadrato agli USA il vasto territorio di quello che oggi è un loro Stato, l’Alaska appunto. La cosa allora lasciò perplessi molti russi, come pure molti americani, ritenendo questi ultimi che fosse stato pagato un prezzo troppo alto “per degli inutili ettari di neve”.

 

È stata l’Unione Sovietica, allora URSS, la prima a pianificare lo sfruttamento altamente inquinante di alcune delle preziose risorse minerarie ed energetiche fornite da quelle terre artiche che ancor oggi ne portano il marchio indelebile. Ricordiamo i famigerati campi di lavoro per detenuti politici voluti da Stalin concentrati nella Siberia settentrionale, che proprio a seguito di ciò vide accrescere la sua popolazione e la devastazione di interi territori.

 

È indubbio che ancora una volta, come è avvenuto in passato, l’ulteriore futuro sfruttamento delle potenzialità economiche di questa regione si ripercuoterà negativamente sul contesto ambientale. Dall’estrazione del carbone si è passati a quella del petrolio, quindi delle terre rare e anche del mercurio.

 

Le sparute popolazioni autoctone che ancora abitano la regione artica, siano esse i Sami oppure gli Inuit o i Nenet, con la loro storia, la loro lingua e tradizioni, oggi assistono impotenti allo sfruttamento dei loro territori sinora quasi condannati alla pace per le loro spesso proibitive condizioni climatiche. Per i Paesi in cui sono ancora presenti, anche se in numero sempre più ridotto, esse sono diventate una presenza ingombrante in quanto il loro rapporto con l’ambiente circostante si è sempre fondato su principi di equilibrio e non di mero sfruttamento delle risorse naturali, traendo essi dalla caccia e dalla pesca e poco altro il necessario per vivere.

 

Il loro isolamento oggi è terminato, risucchiati anch’essi, in questa nostra Era dell’Antropocene, in un meccanismo globale mosso da una sete insaziabile di possesso e da una nuova concezione di progresso. E tutto ciò a danno dell’ambiente in primo luogo, a cui si devono sommare gli effetti del rialzo termico in corso che ha avuto certamente nel tempo un andamento ciclico, ma che ha subito ultimamente una accelerazione proprio a causa dei numerosi gas serra immessi da noi umani nell’atmosfera.

 

Ed ecco, da ultimo, un altro aspetto dello sconvolgimento in atto da qualche anno a questa parte in quest’area geografica che costituiva sino a pochi anni fa una meta interessante solo per scienziati ed esploratori. È l’arrivo di migliaia e migliaia di turisti in cerca di nuove emozioni che, non appena la temperatura si fa accettabile, vengono scaricati a terra da enormi imbarcazioni. I tour operator hanno proposto loro esperienze esaltanti: la visione dell’aurora boreale, le corse sulla superficie ghiacciata, dal biancore abbacinante, su slitte trainate da cani, una calda sauna in confortevoli ambienti mentre fuori il freddo attanaglia il corpo. Ma il turismo di massa ha le sue esigenze, risponde a particolari bisogni, ed ecco allora che qui si sono allestiti in poco tempo hotel e ristoranti; le ultime gallerie per l’estrazione dei minerali appena dismesse si sono trasformate in percorsi emozionanti, i magazzini in loft e, essendo carente numericamente la manodopera locale per far fronte alle nuove esigenze ricettive, sono stati attirati qui, anche da Paesi estremamente lontani con la promessa di buoni guadagni, lavoratori stranieri da utilizzare nelle più svariate mansioni.

 

Il silenzio di queste terre oggi si è fatto assordante!


Nell’incertezza del tempo presente anche a queste latitudini, dove oggi proprio a causa dell’aumento delle temperature vagano nel mare minacciosi iceberg staccatisi dalla banchisa polare e anomali sciami di zanzare volteggiano nell’aria nella stagione più calda, mentre i pesci fuggono altrove in cerca di acque più fresche, l’uomo ancora una volta lascerà un’impronta negativa della sua presenza.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]