NELLE TERRE ARTICHE
GEOGRAFIA e GEOPOLITICA TRA PASSATO
E PRESENTE
di Titti Brunori Zezza
Il progressivo aumento della
temperatura che caratterizza il
tempo presente sul nostro pianeta ha
reso più accessibile un’area
geografica che sino a pochi anni fa
era percepita dai più quasi come un
non luogo per la rigidità del suo
clima. Nella parte estrema
dell’emisfero settentrionale i greci
avevano collocato il mitico popolo
degli Iperborei, caro a Apollo che
ogni anno andava a visitarli. Là
dove non scendeva mai la notte,
questi godevano di una eterna
giovinezza. Terra misteriosa era
quella, tanto che ancora nel VI
secolo un monaco scriveva che il Mar
Iperboreo era noto solo a colui che
lo aveva creato. Solo alla fine del
IV secolo un intrepido colono greco,
partendo da Massalia (l’attuale
Marsiglia) dove risiedeva, aveva
osato spingersi su, su, verso
l’estremo nord, raggiungendo una
terra dove il sole non era visibile
per metà dell’anno mentre per gli
altri sei mesi era costantemente
presente. Tale fenomeno egli aveva
annotato nel suo diario di viaggio
intitolato Sull’oceano, di
cui si conservano oggi purtroppo
solo pochi frammenti, suscitando nei
suoi contemporanei incredulità e
disprezzo nei suoi confronti in
quanto ritenuto un millantatore.
Così quelle terre al confine del
mondo allora conosciuto, ammantate
di misteri e leggende, caddero
nuovamente nell’oblio per molti
secoli a venire, conservando limiti
sfumati. A quell’intrepido greco,
invece, gli storici odierni
attribuiscono una dignità pari a
quella dei successivi grandi
esploratori, avendo egli descritto
per primo quel fenomeno che noi oggi
ben conosciamo e che ebbe modo di
osservare navigando, a partire dalla
Britannia, per sei giorni sino a
raggiungere un’isola il cui nome era
Thule. Secoli dopo, Seneca nella sua
tragedia intitolata Medea (scena
III, coro II) riprenderà quel
toponimo proprio per evocare una
terra remota ai confini del mondo:
“Giorno verrà, alla fine dei tempi,
che l’Oceano scioglierà le catene
del mondo, si aprirà la terra, Teti
svelerà nuovi mondi e non ci sarà
più un’ultima Thule”.
Ebbene, questo toponimo oggi
identifica la base militare che gli
USA posseggono in Groenlandia
attraverso la quale essi controllano
la propria difesa missilistica. Il
presidente Trump, da poco
insediatosi alla Casa Bianca, ha da
subito manifestato l’intenzione di
comprare quell’isola di ghiaccio, la
più grande sul globo terrestre, come
già d’altra parte aveva fatto
durante il precedente mandato; anzi,
in forma più esplicita questa volta
ha dichiarato di volerla annettere
al territorio statunitense “ad ogni
costo”.
Netto e immediato è stato il rifiuto
dei suoi abitanti, come pure quello
della Danimarca, poiché l’isola di
fatto appartiene attualmente ancora
a quest’ultima nazione che l’aveva
acquisita nel 1814 e a cui, a
partire dal 1979, ha concesso
l’autogoverno tranne che per il
controllo su difesa, affari esteri e
politica monetaria, elargendo ogni
anno in suo favore dei sussidi pari
quasi alla metà del bilancio
economico dell’isola. Qui, proprio
recentemente, si sono tenute le
elezioni amministrative che hanno
evidenziato, oltre la netta
contrarietà della maggior parte
della popolazione ad accettare la
proposta del presidente degli USA,
anche la volontà di non scindere
ancora definitivamente il legame con
la Danimarca, rimandando a tempi
futuri il conseguimento della
completa indipendenza dell’isola.
In quella sorta di bacino d’acqua
ghiacciata per molta parte
dell’anno, quale appare il Mar
Glaciale Artico, si specchiano la
Groenlandia, come pure la Finlandia,
la Svezia, la Norvegia, l’Islanda,
il Canada e gli USA con il loro
Stato dell’Alaska, e infine anche
l’Unione Sovietica. Otto Stati che
fanno parte del cosiddetto Consiglio
Artico, nato per affrontare i
particolari problemi di quella
regione geografica da cui, dopo
l’invasione dell’Ucraina, è stata
espulsa la Russia. Quest’ultima,
forte dei suoi 24mila chilometri di
coste, si è sempre ritenuta la
potenza dominante in quest’area
geografica che da sempre percepisce
come profondamente sua. D’altra
parte, il suo è un dominio che
affonda in queste terre profonde
radici storiche e religiose. Anche
il patriarca Kirill ha espresso il
medesimo convincimento in un
documento inserito in una capsula di
metallo fatta inabissare nel Mar
Glaciale Artico nel 2012.
Oggi l’intendimento del capo del
Cremlino è che l’Unione Sovietica
tragga in futuro maggiori vantaggi
economici proprio dai suoi
possedimenti nell’Artico grazie
all’attuale rialzo termico che
coinvolge anche quest’area
geografica. Non solo attraverso un
maggior sfruttamento delle
consistenti fonti energetiche ivi
esistenti, quale il petrolio di cui
abbiamo beneficiato anche noi
europei prima dell’invasione
dell’Ucraina, ma anche dei preziosi
minerali, le cosiddette terre rare,
resi oggi più accessibili e
indispensabili per la realizzazione
di molti strumenti tecnologici di
cui nel frattempo ci siamo dotati. A
ciò si aggiungano anche i futuri
benefici derivanti da quella nuova
rotta polare che, con il concorso
della Cina, la Russia sta tentando
di aprire per accelerare il traffico
commerciale tra Oriente e Occidente,
abbattendo così i tempi della
navigazione: una via sino a poco
tempo fa impraticabile a causa dello
spesso strato di ghiaccio che
ostacolava la navigazione in queste
acque. E proprio per tutelare tutti
questi interessi economici, oggi in
quest’area geografica vengono
costantemente attenzionati dalle
basi missilistiche dell’Unione
Sovietica i vari Paesi facenti parte
della NATO e in primis gli USA. Il
Mar Glaciale Artico ha costituito
per molto tempo una barriera
naturale tra le due superpotenze;
allora quel passaggio a nord era
ostacolato dal consistente strato di
ghiaccio che solo oggi, per le
mutate condizioni climatiche, si va
progressivamente assottigliando,
mentre sino a poco tempo fa solo
delle navi opportunamente attrezzate
erano in grado di fenderlo. Oggi lo
scioglimento dei ghiacci sta
rendendo progressivamente più
agevole il rapporto tra gli Stati
ivi presenti, ma forse in futuro più
problematica strategicamente quella
loro vicinanza.
Dopo la scoperta del continente
americano e la presa d’atto che non
esisteva un passaggio nella sua
parte centrale che mettesse in
comunicazione Atlantico e Pacifico,
così come al limite della
sopportazione era considerata la
rotta individuata da Magellano nei
mari del Sud, in molti tra naviganti
ed esploratori si erano cimentati a
più riprese al fine di individuare
nell’estremo nord un’altra possibile
via più rapida per raggiungere
dall’Europa le terre dell’estremo
Oriente asiatico con cui quella
intratteneva da sempre intensi
scambi commerciali. Anche lo stesso
zar Pietro il Grande aveva concepito
già nel XVIII secolo la visionaria
apertura di una via marittima di
collegamento tra Oriente e
Occidente, tra la Siberia appunto e
la lontanissima Alaska.
Noi oggi abbiamo dimenticato che in
quelle inospitali estreme regioni
artiche, sino alla metà del XIX
secolo, furono i cacciatori e i
mercanti dediti al commercio delle
pellicce a far valere il proprio
dominio, avendo ottenuto il
monopolio dello sfruttamento di
quelle terre dallo zar Ivan il
Terribile. Abbiamo anche dimenticato
che furono difficoltà finanziarie
momentanee (il risarcimento dovuto
ai proprietari terrieri costretti a
cedere parte delle loro terre ai
contadini e ai servi della gleba a
seguito della abolizione del
cosiddetto “servaggio”) a spingere
nel 1867 lo zar Alessandro II di
Russia e duca di Finlandia a cedere
per la modestissima cifra di 4.80
dollari per km quadrato agli USA il
vasto territorio di quello che oggi
è un loro Stato, l’Alaska appunto.
La cosa allora lasciò perplessi
molti russi, come pure molti
americani, ritenendo questi ultimi
che fosse stato pagato un prezzo
troppo alto “per degli inutili
ettari di neve”.
È stata l’Unione Sovietica, allora
URSS, la prima a pianificare lo
sfruttamento altamente inquinante di
alcune delle preziose risorse
minerarie ed energetiche fornite da
quelle terre artiche che ancor oggi
ne portano il marchio indelebile.
Ricordiamo i famigerati campi di
lavoro per detenuti politici voluti
da Stalin concentrati nella Siberia
settentrionale, che proprio a
seguito di ciò vide accrescere la
sua popolazione e la devastazione di
interi territori.
È indubbio che ancora una volta,
come è avvenuto in passato,
l’ulteriore futuro sfruttamento
delle potenzialità economiche di
questa regione si ripercuoterà
negativamente sul contesto
ambientale. Dall’estrazione del
carbone si è passati a quella del
petrolio, quindi delle terre rare e
anche del mercurio.
Le sparute popolazioni autoctone che
ancora abitano la regione artica,
siano esse i Sami oppure gli Inuit o
i Nenet, con la loro storia, la loro
lingua e tradizioni, oggi assistono
impotenti allo sfruttamento dei loro
territori sinora quasi condannati
alla pace per le loro spesso
proibitive condizioni climatiche.
Per i Paesi in cui sono ancora
presenti, anche se in numero sempre
più ridotto, esse sono diventate una
presenza ingombrante in quanto il
loro rapporto con l’ambiente
circostante si è sempre fondato su
principi di equilibrio e non di mero
sfruttamento delle risorse naturali,
traendo essi dalla caccia e dalla
pesca e poco altro il necessario per
vivere.
Il loro isolamento oggi è terminato,
risucchiati anch’essi, in questa
nostra Era dell’Antropocene, in un
meccanismo globale mosso da una sete
insaziabile di possesso e da una
nuova concezione di progresso. E
tutto ciò a danno dell’ambiente in
primo luogo, a cui si devono sommare
gli effetti del rialzo termico in
corso che ha avuto certamente nel
tempo un andamento ciclico, ma che
ha subito ultimamente una
accelerazione proprio a causa dei
numerosi gas serra immessi da noi
umani nell’atmosfera.
Ed ecco, da ultimo, un altro aspetto
dello sconvolgimento in atto da
qualche anno a questa parte in
quest’area geografica che costituiva
sino a pochi anni fa una meta
interessante solo per scienziati ed
esploratori. È l’arrivo di migliaia
e migliaia di turisti in cerca di
nuove emozioni che, non appena la
temperatura si fa accettabile,
vengono scaricati a terra da enormi
imbarcazioni. I tour operator hanno
proposto loro esperienze esaltanti:
la visione dell’aurora boreale, le
corse sulla superficie ghiacciata,
dal biancore abbacinante, su slitte
trainate da cani, una calda sauna in
confortevoli ambienti mentre fuori
il freddo attanaglia il corpo. Ma il
turismo di massa ha le sue esigenze,
risponde a particolari bisogni, ed
ecco allora che qui si sono
allestiti in poco tempo hotel e
ristoranti; le ultime gallerie per
l’estrazione dei minerali appena
dismesse si sono trasformate in
percorsi emozionanti, i magazzini in
loft e, essendo carente
numericamente la manodopera locale
per far fronte alle nuove esigenze
ricettive, sono stati attirati qui,
anche da Paesi estremamente lontani
con la promessa di buoni guadagni,
lavoratori stranieri da utilizzare
nelle più svariate mansioni.
Il silenzio di queste terre oggi si
è fatto assordante!
Nell’incertezza del tempo presente
anche a queste latitudini, dove oggi
proprio a causa dell’aumento delle
temperature vagano nel mare
minacciosi iceberg staccatisi dalla
banchisa polare e anomali sciami di
zanzare volteggiano nell’aria nella
stagione più calda, mentre i pesci
fuggono altrove in cerca di acque
più fresche, l’uomo ancora una volta
lascerà un’impronta negativa della
sua presenza.