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N. 126 - Giugno 2018 (CLVII)

paolo canè

il turborovescio
di Francesco Agostini

 

Paolo Canè: chi non si ricorda del suo mitico “turborovescio”? Nell’epoca post-Panatta, caratterizzata da tennisti italiani onesti ma nella media, il nome di Paolo Canè saltava all’occhio di tutti con evidente distacco vista la sua classe ed eleganza. Nato a Bologna il 9 aprile 1965, era dotato di un dritto potente e penetrante e di un rovescio velocissimo e letale: fu per questo motivo, infatti, che il giornalista Gianpiero Galeazzi lo ribattezzò simpaticamente il “turborovescio”.

 

Il servizio, invece, era l’unica nota dolente del bagaglio tecnico del bolognese: troppo lento per competere ad altissimi livelli, anche se estremamente lavorato.

 

Nella bacheca personale, Paolo Canè vanta tre titoli Atp a fronte di cinque finali raggiunte. Il primo trofeo vinto fu a Bordeaux nel 1986 contro lo svedese Carlsson, poi venne Bastad nel 1989 e, infine, Bologna nel 1991, dove sconfisse un altro svedese, Gunnarsson. Le due finali perse, invece, furono a Bologna nel 1986 e a Bologna nel 1989, dove fu fermato dagli argentini Jaite e Roldàn.

 

Da questo si evince un rapporto a dir poco privilegiato con la Svezia (un trofeo vinto in Svezia, a Bastad, e due finali vinte contro due svedesi), arricchito anche da un leggendario primo turno di Coppa Davis quando, nel 1990 a Cagliari, l’Italia passò il turno anche grazie a una vittoria di Paolo Canè su Mats Wilander.

 

A fine partita uno sfiancato Gianpiero Galeazzi commentò, pieno di gioia: “Abbiamo superato il primo turno ma sembra di aver vinto la Coppa Davis”.

 

Una vittoria importante quella di Paolo Canè, che in carriera ebbe modo di battere anche altri grandissimi tennisti quali Stefan Edberg (ecco che la Svezia è presente un’altra volta, per questo fu soprannominato l’ammazza-svedesi) e Pat Cash, senza contare il best ranking raggiunto in carriera, il numero 26. Ma non solo.

 

Il bolognese è a tutt’oggi l’unico tennista italiano che è stato in grado di vincere una medaglia olimpica, un bronzo conquistato a Los Angeles nel 1984, quando il tennis era ancora considerato dimostrativo (cioè in prova) e non pienamente olimpico.

 

Questo è il racconto di Paolo Canè e di quella memorabile edizione: “Vinsi al primo turno contro Pat Cash che era tra i primi dieci del mondo, a seguire però mi strappai gli addominali nei quarti di finale. Giocai servendo a 30 km/h contro l’australiano Simon Youl, stavo perdendo e poi lui si ruppe una caviglia. In quell’edizione non c’era la finale per il terzo posto, assegnarono la medaglia di bronzo a me e all’americano Jimmy Arias che aveva perso l’altra semifinale contro Edberg”.

 

Insomma, Paolo Canè è stato un eccellente tennista da un punto di vista tecnico, bloccato soltanto da due piccoli-grandi problemi: un fisico e una tenuta mentale non sempre all’altezza.

 

La mentalità del bolognese è sempre stata piuttosto fragile, così come il suo fisico spesso soggetto a fastidi e a infortuni. Ma era l’aspetto mentale quello che più limitava il suo talento: fumino e soggetto a violenti sbalzi d’umore, Paolo Canè è stato un talento imprevedibile e bizzarro.

 

La mente lo abbandonò, ad esempio, in una delle partite più importanti della sua carriera, quell’incontro del 1987 sul campo centrale di Wimbledon contro Ivan Lendl: “Se allora ci fosse stato il tetto, l’incontro non sarebbe stato interrotto e poi ripreso per due giorni e forse l’avrei vinta. Il problema fu interrompere e riprendere quel match 5 volte in due giorni per la pioggia che andava e veniva. A livello di concentrazione e attenzione nell’attesa mi sono bruciato tutte le energie mentali: alla fine ero cotto, continuavo a vedere quella vittoria arrivare però non potevi mai giocarla. Nel quinto set l’incantesimo finì”.

 

Paolo Canè si lasciava andare spesso a liti furibonde con se stesso in cui perdeva il controllo della situazione e, spesse volte, anche le partite: per questo motivo, infatti, Gianni Clerici lo soprannominò Neuro-Canè. Il suo rapporto con Roma e con gli Internazionali d’Italia, ad esempio, è sempre stato problematico e difficile. Di amore e odio, diciamo, anche se era considerato uno dei più grandi talenti italiani.

 

Memorabile l’episodio a Vienna, quando distrusse la racchetta in mano a un ignaro spettatore, ‘colpevole’ soltanto di essere intento a bere champagne mente il bolognese sudava e faticava in campo.

 

Questo il ricordo del giornalista Claudio Colombo sull’accaduto: “Ricordo la racchettata assestata alle mani di un tifoso a Vienna: lui, dopo cinque ore e mezzo, stava soffrendo le pene dell’inferno e il tifoso, forse un parente dell’avversario, brindava a champagne. Gli sbriciolò la flute e un paio di falangi, prima di immolare sé medesimo nella inevitabile sconfitta per squalifica”.

 

Ma che fa al giorno d’oggi Paolo Canè?

 

L’ex tennista bolognese ha aperto una scuola tennis dove tramanda la sua passione e il suo amore per questo sport ai giovani, la vera linfa vitale per il futuro: “Ho una scuola di tennis a Gorle che si trova a cinque minuti dal centro di Bergamo, ho due campi e una trentina di allievi, organizzo lezioni private; ad ottobre inizio il quarto anno. Ho bambini dai 6 anni e arrivo fino a ragazzi di 16 anni, una scuola molto dura, con molta disciplina, una scuola all’americana che non c’è in Italia. Prima di tutto c’è il divertimento, ma c’è anche l’imparare e il rispetto per questo sport e per l’allenatore”.

 

L’amore per il tennis è quindi rimasto nel cuore di Paolo Canè, grande tennista e personaggio davvero simpatico e singolare.

 

Quanto tempo dovrà ancora passare prima che torni sul campo un altro turborovescio come il suo?



 

 

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