[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 153 / SETTEMBRE 2020 (CLXXXIV)


filosofia & religione

RIFLESSIONI SULLA TECNICA

Parte II / HEIDEGGER E LA RICERCA DELL’ESSENZA

di Raffaele Pisani

 

Se leggiamo qualche passo della sua opera intitolata La questione della tecnica, del 1953, dove il filosofo tedesco parla dei modi tradizionali di coltivare e di costruire per contrapporli a quelli moderni, siamo portati a giudicarlo come uno che cerca in un passato idealizzato quell’armonia tra attività umane e natura che, già ai tempi in cui scriveva questo, era ormai compromessa.

 

Vediamo qualche esempio: «La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva dire accudire e curare. L’opera del contadino non pro-voca la terra del campo. Nel seminare il grano esso affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo. Intanto, però, anche la coltivazione dei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione (Bestellens) che richiede (stellt) la natura. Essa la richiede nel senso della pro-vocazione. L’agricoltura è diventata industria meccanizzata dell’alimentazione».

 

Quanto al costruire, contrappone due esempi significativi: il mulino a vento, che adopera quella forza che la natura dona spontaneamente, e la centrale idroelettrica, che invece sottomette la forza dell’acqua per le sue esigenze produttive, facendo di un fiume o di un bacino dei semplici accessori di una centrale.

 

Del primo dice: «Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti perché le accumuliamo». Della seconda afferma: «La centrale idroelettrica è impiantata (gestellt) nelle acque del Reno. Questo è richiesto a fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un certo distretto e la sua rete sono impegnati a produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell’ambito di questo successivo concatenarsi dell’impiego di energia elettrica anche il Reno appare come qualcosa di bestellte, di impiegato».

 

Questi tratti non ci devono portare a conclusioni semplicistiche, il pensiero di Heidegger è estremamente complesso e nel corso del tempo ha subito un cambiamento di direzione, la famosa Kehre, che ha fatto molto discutere gli studiosi.

 

Chi cerca nel suo pensiero ricette pratiche per agire nel presente andrà incontro a grandi delusioni. Se vogliamo dire che è comunque una guida di riferimento, non la dobbiamo intendere come un binario che costringe in una direzione, quanto piuttosto come un punto luminoso nel cielo a cui ci si può riferire.

 

L’accettazione entusiastica della tecnica come il suo rifiuto sono atteggiamenti che non colgono il cuore della questione e, come dice lo stesso Heidegger, ci mantengono allo stato di prigionia. Si tratta invece di cogliere l’essenza, solo così potremo procurarci un rapporto libero con essa.

 

Martin Heidegger nacque nel 1889 a Messkirch, si laureò in filosofia dedicandosi ben presto alla carriera universitaria; l’elenco delle sue pubblicazioni è molto lungo e facilmente reperibile. Ne L’essere e il tempo svolge l’analisi dell’esistenza dell’uomo, vale a dire di quell’ente che si pone la domanda del senso dell’essere. L’uomo è un Da-sein, un esserci, è gettato in una situazione e con essa si confronta. L’uomo è pure in rapporto con gli altri e con il mondo, Mit-sein e In der Welt sein; si prende cura degli altri e delle cose.

 

L’uomo che si rivolge esclusivamente agli enti vive un’esistenza inautentica legata al “si dice, si fa”, rimane perciò sul piano ontico. Ma la domanda originaria sul senso dell’essere non trova risposta negli enti. Solo affrontando l’angoscia di fronte alla possibilità del nulla che si rivelano essere gli enti, si vive quel distacco, quella anticipazione della morte, che introduce nel piano ontologico.

 

La metafisica occidentale secondo Heidegger, da Platone a Nietzsche, è frutto dell’oblio dell’essere, che è anche oblio della differenza tra l’essere e l’ente; la verità che i primi filosofi avevano concepito come un disvelarsi dell’essere, come non-nascondimento, alétheia, è diventata esattezza della rappresentazione, Orthòtes. La tecnica è quindi l’esito di questo errore originario: l’uomo occidentale, dimentico dell’essere si è dedicato all’ente sviluppando oltre misura la tecnica; questo però non è un felice destino, donde la necessità di chiarire il malinteso.

 

L’essere si manifesta nel linguaggio, specie quello poetico, Heidegger ha una particolare predilezione per Hölderin; nell’arte in generale e nella tecnica intesa nella sua essenza, di cui ci proponiamo di chiarire qualche aspetto.

 

All’inizio del breve scritto di una trentina di pagine sulla questione della tecnica Heidegger così si esprime: «Noi poniamo la domanda circa la tecnica e intendiamo con ciò procurarci un rapporto libero con essa. Tale rapporto è libero quando apre il nostro esserci all’essenza della tecnica. Se corrispondiamo a tale essenza, ci mettiamo in condizione di esperire la tecnicità nella sua delimitazione». Questo discorso iniziale trova la sua esplicitazione verso la fine della trattazione, ma procediamo nell’ordine dell’autore.

 

Usualmente la tecnica è definita come: attività dell’uomo, come mezzo in vista di fini; Heidegger trova siano esatte tali definizioni ma l’esattezza, come abbiamo appena visto, non è necessariamente la verità intesa nel suo significato autentico e originario di alétheia. Anche riguardo la strumentalità e la finalità descritta dalle tradizionali quattro cause aristoteliche Heidegger compie un radicale cambio di prospettiva.

 

Un artista che modella un calice d’argento che dovrà servire per un rito sacrificale è corresponsabile assieme alla materia argentea, a una forma a cui si riferisce per modellarlo e allo scopo per cui l’oggetto è destinato. La responsabilità, che non è di tipo morale ma eziologico, è quella di lasciar avanzare l’evento, lasciar apparire la cosa.

 

Il moto che porta questa produzione, questo schiudersi, questo venire alla luce è in se stesso completo nella natura physis, mentre invece nella téchne, intesa come arte o come tecnica, questo avviene con la corresponsabilità dell’autore.

 

Le moderne tecniche industriali, di cui abbiamo fatto cenno all’inizio, cosa hanno in comune e in cosa differiscono da quelle legate alla tradizione?

 

Nella loro essenza sono entrambe disvelamento, è nel loro procedere che differiscono. Alla produzione, poiesis,delle seconde si contrappone la provocazione delle prime. In queste la natura è vista come un fondo, giacenza Bestand a cui si può attingere. Una cosa, anche la più estetica è considerata in base alla suo possibile impiego; fa il riferimento a un paesaggio lungo il Reno, che anche se in se stesso è pur un qualcosa, viene visto solo in quanto utilizzabile, ad esempio per l’industria delle vacanze.

 

L’uomo, l’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere, diventa egli stesso in un certo senso fondo, materiale umano; nel testo heideggeriano c’è già l’espressione: risorse umane. Nell’età della tecnica moderna egli è provocato dal disvelamento che porta a vedere la natura come riserva, fondo. Questo lo induce a costituire una scienza della natura calcolante e misurante, nella quale anch’egli è oggetto di calcolo.

 

La nascita della scienza nel senso attuale avviene quasi due secoli prima della relativa applicazione tecnica, è ragionevole pensare che Heidegger si riferisca in particolare alla Germania. Se storicamente è avvenuto questo, ben diverso è il discorso quando il riferimento è all’essenza della tecnica. Egli afferma: «La moderna teoria fisica della natura non apre solo alla via della tecnica, ma all’essenza della tecnica moderna. Giacché la riunione provocante nel disvelare impiegante domina già nella fisica». Nel Seicento la tecnica era già nata nella sua essenza, i calcoli matematici e le leggi della fisica erano già finalizzati a misurare, a computare la natura come fondo come risorsa.

 

L’uomo che nel suo essere nel mondo, come abbiamo accennato sopra, ha il compito di prendersi cura dell’ente, ha finito invece per provocarne drammaticamente l’usura.

 

Avevamo accennato come anticipazione al rapporto libero dell’uomo con la tecnica; ora che abbiamo capito la sua essenza come disvelamento, sappiamo che essa non è il risultato di un meccanismo ineluttabile né il frutto della volontà dell’uomo. Il disvelamento, di cui la tecnica è parte, è secondo Heidegger un destino e l’uomo diventa libero nella misura in cui appartiene a tale destino. Leggiamo: «È l’accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò con cui la libertà ha una parentela più stretta e profonda». Svelare è un’azione, un dinamismo che libera da un diaframma, il vero è tale nell’atto di liberarsi.

 

Il pericolo dell’errore, sempre presente nell’uomo, riveste un carattere particolare nel tempo in cui impera una tecnica pro-vocante; questa può mascherare il disvelamento in quanto tale e indirizzarci solo sul disvelato utilizzabile come fondo. Solo avendo chiara l’essenza della tecnica ci si può salvare. Essenza non intesa secondo la tradizione: la quidditas che permane al variare delle circostanze; il significato autentico Heidegger lo scova nel linguaggio poetico, precisamente in Goethe, nel termine fortgewähren, continuare a concedere. Heidegger ci invita a considerare, più di quanto finora abbiamo fatto, cosa sia che davvero dura e afferma che «Solo ciò che è concesso dura. Ciò che principalmente, dall’origine, dura è quello che concede».

 

L’uomo è posto davanti a un bivio che conduce alla salvezza o alla rovina: «Da un lato, l’im-posizione pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell’impiegare, che impedisce ogni visione dell’evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l’essenza della verità. D’altro lato l’im-posizione accade da parte sua in quel concedere il quale fa sì che l’uomo – finora senza rendersene conto, ma forse in modo più consapevole nel futuro – duri nel suo essere adoperato-salvaguardato per la custodia dell’essenza della verità. Così appare l’aurora di ciò che salva».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Martin Heidegger, La questione della tecnica, a cura di Federico Sollazzo, trad. Gianni Vattimo, goWare, Firenze 2017.

Karl Jaspers, La situazione spirituale del tempo, pref. di Armando Rigobello, Jouvence, Roma 1982.

Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, curatrice Laura Boella, trad. Luca Oliva e Silvia Soannini, Franco Angeli, 2012.

Michela Nacci, Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Loescher Editore, Torino 1982.

Bertrand Russell, Panorama scientifico, trad. Emilio A.G. Loliva, Laterza, Bari 1934. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]