[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

169 / GENNAIO 2022 (CC)


arte

RIPERCORRENDO LA STORIA DEL TATUAGGIO

TRA CULTURA ED ESTETICA / II

di Emanuel De Marchis

 

Parlando delle tecniche per eseguire i tatuaggi, le pratiche in uso sono solitamente due: con le bacchette, secondo la tradizione più antica, o con le macchinette elettriche. Rientra nel primo caso la tecnica tuttora diffusa in area polinesiana, dove, come abbiamo visto, ha avuto origine la stessa parola “tatuaggio”, rimandante al concetto di “battere”, “marchiare”.

Nello specifico, la tecnica in questione prevede l’utilizzo di due attrezzi: il primo, ricavato da ossa o conchiglie, somiglia a un pettine, ha accorpati vari aghi (da tre a venti aghi) ed è fissato a un’impugnatura di legno. Il secondo consiste invece in un semplice bastoncino, utilizzato per picchiettare il pettine suddetto, onde scalfire la cute con i vari aghi impregnati d’inchiostro. Nei tagli prodotti sulla pelle viene quindi inserito ulteriore inchiostro, spesso ottenuto dalla cenere di piante mescolata con acqua e olio). In precedenza, bisogna ovviamente aver tracciato il disegno da riprodurre, e per far ciò si usa un bastoncino carbonizzato, con cui si tracciano appunto le varie linee che saranno poi seguite dal pettine.

Il disegno impresso sulla pelle viene di volta in volta ribattuto con un bastone e con le mani, per far meglio penetrare l’inchiostro. Finita l’incisione, la pelle viene trattata con succo di banana o di albero del sandalo e gentilmente accarezzata con foglie e spugne marine, per lenire l’irritazione. L’ultima fase di ogni tatuaggio, ieri come oggi, è infatti la “cura”. Solo con le opportune cure, d’altronde, si può mantenere vivo il disegno sottocutaneo creato.

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Realizzazione di un tatuaggio con la tecnica polinesiana delle bacchette

Per quanto riguarda i materiali, se nella tradizione polinesiana gli inchiostri sono ricavati principalmente da resine e ceneri, gli aghi venivano invece un tempo realizzati con ossa animali e lische di pesci. In epoche recenti, si è quindi passato all’uso di aghi metallici e di colori industriali a tossicità controllata.

A proposito di elementi tossici: in passato, per ottenere un inchiostro ben denso, si estraeva la fuliggine dalla gomma, bruciando le suole delle scarpe, e nelle carceri, fino alla prima metà del novecento, i detenuti usavano bruciare gli scarti degli pneumatici dismessi dei mezzi di trasporto della polizia penitenziaria o di macchinari agricoli.

Nel complesso, la realizzazione di un tatuaggio fatto a mano è più lunga e dolorosa di uno eseguito con una macchinetta elettrica (per ogni disegno si crea una serie apposita di aghi, ognuno corrispondente a determinate necessità), ma in compenso le ferite guariscono prima. In breve, ci vuole di più a farlo, ma meno a curarlo rispetto a quelli disegnati con le macchinette di nuova generazione. Peraltro, la definizione di un tatuaggio fatto con le bacchette risulta più grezza di quella ottenuta con una macchinetta, in quanto le linee appaiono più spesse. Nondimeno, tale lavorazione rappresenta per molti lo spirito autentico del tatuaggio.

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Particolare degli strumenti di lavoro della tradizione polinesiana

Tornando all’elemento ritualistico dei tatuaggi polinesiani, sappiamo che essi rappresentavano storicamente lo stato sociale di chi li sfoggia. Un tempo, quelli più articolati erano per esempio priorità dei capi e delle loro famiglie, mentre oggi ci si tatua, in Polinesia come altrove, per un numero disparato di motivi, rispondenti a esigenze estetiche e di affermazione artistica del proprio io. Ogni amante dei tatuaggi non può però non apprezzare la loro origine ritualistica e i rudimentali mezzi con cui in passato – e, ribadiamolo, talvolta ancora oggi – essi venivano realizzati.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]