++++

 

[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 158 / FEBBRAIO 2021 (CLXXXIX)


contemporanea

TARKOVSKIJ, AUTOBIOGRAFIA DI UN POPOLO

LO SPECCHIO E ANDREJ RUBLËV

di Gianfranco Massetti

 

Esiste nella storia del popolo russo un complesso materno che il regista sovietico Andreij Tarkovskij descrive in due opere cinematografiche: Lo specchio e Andrej Rublëv, rispettivamente del 1975 e del 1966. Significativo è il prologo de Lo Specchio, perché entra immediatamente nel tema.

 

Un programma televisivo trasmette la guarigione, per mezzo dell’ipnosi, di un giovane studente disturbato dalla balbuzie. Il terapista è una donna, già da questo esordio associata a doti taumaturgiche legate alla sfera affettiva. Le ragioni del titolo della pellicola risiedono nei versi di una poesia che viene recitata all’inizio del film, e che appartiene al padre del regista, il poeta russo Arsenij Tarkovskij.

 

Il titolo della poesia è Primi Incontri: “Ogni istante dei nostri incontri/ lo festeggiavamo come un’epifania,/ soli a questo mondo. Tu eri/ più ardita e lieve di un’ala di uccello,/ scendevi come una vertigine/ saltando gli scalini, e mi conducevi/ oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti/ al di là dello specchio./ Quando giunse la notte mi fu fatta/ la grazia, le porte dell’iconostasi/ furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva/ e lenta si chinava la nudità/ nel destarmi: “Tu sia benedetta”,/ dissi, conscio di quanto irriverente fosse/ la mia benedizione: tu dormivi,/ e il lillà si tendeva dal tavolo/ a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,/ e sfiorate dall’azzurro le palpebre/ stavano quiete, e la mano era calda./ Nel cristallo pulsavano i fiumi,/ fumigavano i monti, rilucevano i mari,/ mentre assopita sul trono/ tenevi in mano la sfera di cristallo,/ e – Dio mio! – tu eri mia./ Ti destasti e cangiasti/ il vocabolario quotidiano degli umani,/ e i discorsi s’empirono veramente/ di senso, e la parola tu svelò/ il proprio nuovo significato: zar./ Alla luce tutto si trasfigurò, perfino/ gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,/ come a guardia, stava tra noi/ l’acqua ghiacciata, a strati./ Fummo condotti chissà dove./ Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,/ città sorte per incantesimo,/ la menta si stendeva da sé sotto i piedi,/ e gli uccelli c’erano compagni di strada,/ e i pesci risalivano il fiume,/ e il cielo si schiudeva al nostro sguardo…./ Quando il destino ci seguiva passo a passo,/ come un pazzo con il rasoio in mano”.

 

Nei tuoi possedimenti al di là dello specchio” è, dunque, anche la ragione di un film dove le molteplici generazioni si riflettono in un gioco di specchi, riproducendo all’infinito la medesima immagine. Lo Specchio è la storia delle generazioni che si succedono nel corso tempo, ed è storia personale che si riflette nella storia di un popolo e di una civiltà; la storia di un processo di difficile identificazione e di un “complesso materno”, che caratterizza la storia personale del regista e la storia collettiva di un popolo, a cui il destino ha conferito una funzione messianica.

 

Durante un periodo di malattia del regista, caratterizzato da momenti di riflessione sul proprio passato, questi vede le sue vicende esistenziali proiettarsi nel vissuto del figlio, che è come lui costretto a subire le conseguenze della separazione dei genitori e di un’educazione fortemente condizionata dalla componente femminile materna.

 

Al ricordo delle due donne che hanno condizionato la sua vita, la madre e la moglie, da lui giudicate caratterialmente simili, il regista sovrappone le impressioni che gli vengono suscitate dal ritratto leonardesco di Ginevra Benci: «È impossibile esprimere – scrive Tarkovskij in Scolpire il tempola sensazione finale che questo ritratto produce su di noi. È persino impossibile dire con sicurezza se questa donna ci piace o non ci piace, se è simpatica o sgradevole. Ella ci attira e ci ripugna. In lei c’è qualcosa di inesprimibilmente bello e, nello stesso tempo, di ripugnante, di diabolico. Ma di diabolico tutt’altro che nel senso attraente del romanticismo. Semplicemente qualcosa che è al di là del bene e del male. Si tratta di un fascino col segno negativo: in lei c’è quasi un che di degenere e di stupendo».

 

Tarkovskij si abbandona per questa via ai ricordi della propria infanzia e di sua madre nella casa in campagna, durante lo sfollamento del periodo bellico. Diverse immagini si alternano senza alcuna sequenza logica: l’arrivo del nuovo medico del paese, l’incendio di un fienile, il ritorno di suo padre dal fronte, il sogno di sua madre e della casa che sta per crollare, e via dicendo.

 

Ridestatosi dai ricordi, il regista chiama la madre al telefono e questa lo informa della morte di una sua cara compagna di lavoro di quand’era giovane. Riaffiora così alla memoria del regista un episodio di quando la madre lavorava nella redazione di una casa editrice. Una sera aveva lasciato col fiato sospeso tutti i colleghi a causa di un refuso di stampa. In quegli anni che avevano visto l’ascesa al potere di Stalin, un errore tanto banale avrebbe anche comportato l’accusa di tradimento o boicottaggio, e la deportazione in Siberia di un’intera redazione.

 

A questo ricordo ne succedono altri che ritraggono gli esuli politici dalla Spagna. Immagini ricavate dalle riprese documentarie della guerra civile spagnola scorrono accanto a manifestazioni di entusiasmo popolare con il lancio di palloni aerostatici.

 

Quindi, il ricordo del regista si sposta sul proprio figlio: un ragazzo prossimo all’adolescenza vive quelle che Freud definirebbe sensazioni di déjà vu ed esperienze di “onnipotenza del pensiero”. Una signora anziana, vestita con abiti ottocenteschi, compare nel soggiorno di casa e il ragazzo è invitato a leggere da un quaderno alcuni passi che vi sono sottolineati.

 

Li citiamo dal racconto Bianco, bianco giorno, nei Racconti Cinematografici, canovaccio delle sceneggiature dei film. Si tratta della trascrizione della lettera inviata da Puskin a Caadaev nel 1836. «È indubbio – sostiene – che la divisione delle chiese ci ha separati dall’Europa e che non abbiamo partecipato a nessuno dei grandi eventi che l’hanno scossa, ma noi abbiamo svolto la nostra propria missione. È stata la Russia, sono stati i suoi spazi sconfinati a inghiottire l’invasione mongola. I tartari non hanno osato superare le nostre frontiere occidentali e lasciarci di retroguardia. Sono ritornati verso le loro steppe e la civiltà cristiana è stata salvata. Per il raggiungimento di questo scopo abbiamo dovuto assumere un’esistenza assolutamente particolare che, pur lasciandoci cristiani, ci ha tuttavia resi profondamente estranei al mondo cristiano […] Dite che la sorgente da cui abbiamo attinto il cristianesimo era impura, che Bisanzio era degna di ogni disprezzo ecc. Ah, amico mio, Gesù Cristo non è forse nato tra gli ebrei, e Gerusalemme non era calunniata da tutti? Il Vangelo è forse meno stupefacente per questo? […] Per quanto riguarda poi la nostra insignificanza dal punto di vista storico, non posso decisamente essere d’accordo con Voi […]. Mettendovi una mano sul cuore, non trovate qualcosa di importante nell’attuale situazione della Russia, qualcosa che colpirà gli storici futuri? Anche se sono sinceramente devoto al nostro sovrano, non posso proprio esaltarmi vedendo quello che mi circonda; come letterato ne sono irritato, come uomo afflitto da pregiudizi ne sono offeso, ma vi giuro sul mio onore che per nulla al mondo vorrei cambiare patria, o avere un’altra storia, diversa da quella dei nostri padri, esattamente come Iddio ce l’ha data».

 

Nella prima metà dell’Ottocento, Caadaev era in corrispondenza con una donna della nobiltà russa a cui aveva scritto diverse lettere di contenuto filosofico. Nel 1836, avrebbe poi pubblicato la prima di queste Lettere filosofiche. In essa vi sosteneva che la Russia non aveva mai camminato in sincronia con gli altri popoli e ciò era stato la causa dell’arretratezza del popolo russo, che poteva essere colmata soltanto assimilando la cultura del mondo occidentale. Caadaev poneva così le basi di un dibattito ideologico-culturale che avrebbe opposto, nei successivi decenni, gli intellettuali “occidentalisti” a quelli “slavofili”, sostenitori della peculiare missione di salvaguardia della civiltà cristiana della terza Roma da parte della chiesa ortodossa. La lettera di Puskin costituisce pertanto una delle prime risposte degli “slavofili” alle Lettere filosofiche di Caadaev.

 

Ritornando alle sequenze autobiografiche del film, il regista racconta al proprio figlio del periodo della guerra. Di quando, sotto la direzione di un istruttore, lui e altri giovani adolescenti dovevano esercitarsi per essere pronti a combattere. Di questi compagni, uno gli è rimasto particolarmente nel cuore, un giovane di Leningrado, che aveva perso i genitori durante l’assedio della città. Refrattario alla disciplina, quando l’istruttore comandava il “dietro front”, questi lo prendeva alla lettera marciando alle spalle degli altri. In russo, il termine che si usa per l’ordine del “dietro front” stabilisce appunto di ruotare di trecentosessanta gradi attorno a se stessi.

 

All’episodio seguono altre immagini di repertorio: il passaggio dell’esercito sovietico attraverso il lago Sivas: una lunga teoria di uomini coperti di fango che sembrano emergere come sagome dalla “madre umida-terra”. La presa di Berlino da parte dell’armata rossa. Le foto del presunto cadavere di Hitler. I festeggiamenti per la fine della guerra a Mosca. Il fungo atomico. Stalin e Mao. Il culto della personalità che muore in Unione Sovietica per rinascere in Cina. Gli scontri nella zona di confine cino-sovietica del fiume Ussuri. Immagini che esprimono il punto di vista slavofilo di Tarkovskij.

 

La missione salvifica della Russia in rapporto ai destini apocalittici di un’umanità minacciata dalle forze del male. I riferimenti letterari che si possono fare in proposito risalgono alla trilogia Cristo e Anticristo di Merezcovskij e a poesie come Panmongolismo di Solov’ev o Gli Sciti di Block, che coi suoi versi intendeva recuperare il mito di questo antico popolo a vantaggio della tradizione slavofila.

 

Ritornando alla sua vicenda, il regista ricorda la separazione dalla moglie e la scelta di suo figlio di rimanere a vivere con lei. Ritorna con la memoria all’epoca della guerra, quando erano sfollati e la madre si era venduta un paio di orecchini, per procurarsi da mangiare. Altri ricordi si affollano nella sua mente: la sorella, sua nonna, il padre che ritorna dal fronte, suo figlio che sfoglia un libro con disegni e dipinti di Leonardo da Vinci. Di ricordo in ricordo, la madre, lui e la sorella bambini, che giocano su una radura accanto alla nonna anziana, la macchina da presa sfuma su una cortina di alberi al tramonto.

 

Significativa è ancora, nell’epilogo del film, la citazione di alcune opere di Leonardo: La Vergine delle Rocce, Il Cenacolo, un autoritratto di Leonardo da vecchio, il cartone che ritrae Sant’Anna la Madonna il bambino e San Giovannino, il dipinto di Sant’Anna e la Vergine con il bambino, per finire con i disegni di uno studio di mani.

 

Con il dipinto di Sant’Anna e la Vergine siamo così condotti al saggio di Sigmund Freud su Un ricordo di infanzia di Leonardo da Vinci. Affidandosi al romanzo biografico di Merezcovskij, Freud aveva fornito l’interpretazione del “misterioso” carattere di Leonardo e del suo “mancinismo” riconducendoli all’esistenza di un irrisolto “complesso edipico”.

 

Nel caso de Lo Specchio c’è di più. Scrive Platone nelle Leggi: «[…] per quanto riguarda le mani, noi siamo diventati, ciascuno di noi, quasi zoppi per la stoltezza delle nutrici e delle madri. Infatti essendo la natura di ciascuna delle due parti delle membra ugualmente equilibrata, direi, durante le nostre abituali operazioni siamo stati noi a differenziarle per un uso sbagliato […]. Lo prova il costume degli Sciti che non si limitano ad allontanare l’arco con la sinistra e a tirare a sé la freccia con la destra soltanto, ma usano scambievolmente tutte e due le mani, per l’una e per l’altra funzione».

 

Dopo più di duemila anni, gli facevano eco, dalla poesia Gli Sciti, i versi dello slavofilo Blok. Invitavano il vecchio mondo alla saggezza di Edipo e a fermarsi davanti all’enigma posto dalla Sfinge. Da sempre, la Russia era la Sfinge d’Europa e Tarkovskij ci aiutava a scoprirlo anche con l’Andrej Rublëv.

 

Siamo in Russia intorno all’inizio del 1400. Davanti a una chiesa, un uomo sta tentando il volo sopra un rudimentale aerostato. Il pallone che lo deve sollevare in aria è costruito con pelli cucite. Un gruppo di persone si avventa contro coloro che stanno collaborando all’impresa, ma le funi che tengono ancorata a terra la navicella sono recise: il pallone s’innalza, suscitando contrastanti emozioni di rabbia o di meraviglia. Dopo avere sorvolato le campagne circostanti per breve tempo, si scuce e precipita nuovamente al suolo.

 

L’estasi del “volo sciamanico” si dissolve e il destino dell’antesignano di Gagarin è così segnato. C’è un occulto cordone ombelicale che lega l’uomo alla terra: la forza di gravità. E Tarkovskij sembra voler suggerire che un vincolo occulto di uguale intensità lega i suoi connazionali alla Madre Russia.

 

Esiste nella storia di questo paese una “coazione ripetere” il proprio passato sotto la forma di un regime politico di natura dispotica. Un tempo erano gli czar. Dopo la rivoluzione sovietica ci sono Stalin e i successivi dirigenti del PCUS. In ogni caso, si può dire che tra gli uni e gli altri non vi sia mai stata alcuna soluzione di continuità.

 

Dal punto di vista filologico, l’autocrazia degli czar discende dall’autorità esercitata dal capo guerriero delle tribù della steppa, che adotta, nella versione deformata della lingua russa, il titolo latino di Cesar. Sospeso da sempre tra questa aspirazione a essere occidente e l’eredità dei pastori nomadi asiatici, il popolo russo è andato alla ricerca delle proprie radici culturali trovando un’identità nella tradizione del nomadismo scita: « – dice la poesia di Aleksandr Blok – noi siamo Sciti, barbari dell’Asia/ Dagli occhi avidi, dagli occhi a mandorla, pastori».

 

Ed è su questi pastori dalle origini misteriose che si allunga, secondo quanto ci tramanda Erodoto, l’ombra altrettanto misteriosa e leggendaria delle guerriere amazzoni.

 

Il film di Tarkovskij racconta in alcuni episodi alquanto laconici le tappe della crisi e dell’evoluzione artistica di uno dei maggiori decoratori di icone del quattrocento, alla luce dell’evolversi della situazione storica russa. Si tratta del notissimo Andrej Rublëv, il cui travaglio artistico-culturale sembra riflettere il percorso di maturazione ideologica di Tarkovskij, intellettuale che appartiene alla generazione del “disgelo”.

 

Questa è sommariamente la prima impressione che si è avuta all’apparizione del film nelle sale cinematografiche occidentali, verso la fine degli anni sessanta. I due Andrej sarebbero in buona sostanza accomunati dalla medesima aspirazione verso le istanze di un umanesimo in rotta di collisione con il potere costituito.

 

Una lettura in chiave politico-autobiografica del film rappresenta certamente una tentazione, a gettare nuova luce su di esso ha però contribuito l’uscita in Italia del romanzo cinematografico su Rublëv, che a suo tempo aveva preceduto la realizzazione della sceneggiatura scritta dal regista in collaborazione con Koncalovskij. Prima di prendere in considerazione il romanzo, è utile tuttavia confrontarsi con l’opera cinematografica.

 

Andrej Rublëv, Kirill e Daniil il Nero, tre monaci decoratori di icone, si trovano in viaggio, e assistono in una casa di contadini all’esibizione di un nano che irride il potere del principe. Il nano pagherà cari i suoi sberleffi al principe. Infatti, qualcuno lo denuncerà, provocando il suo arresto da parte delle guardie, mentre i tre pittori riprendono il loro cammino.

 

Dopo qualche anno Kirill incontra Teofane il Greco, il più importante decoratore di icone dell’epoca, e scambia con lui alcune opinioni. Teofane, positivamente impressionato gli propone di recarsi a Mosca per decorare la cattedrale dell’Annunciazione. Kirill accetta, ma vuole essere ufficialmente incaricato davanti a tutti i monaci del proprio convento. Qualche tempo dopo arriva al monastero un araldo del principe moscovita, che però rivolge l’invito ad affrescare la cattedrale non a Kirill ma a Rublëv. Accecato dall’ira, Kirill abbandona il monastero lanciando accuse di simonia contro i suoi fratelli. In questo episodio, le risoluzioni di condanna del “culto della personalità” da parte del XX Congresso del PCUS non potevano trovare miglior rappresentazione.

 

Dopo la partenza per Mosca, Rublëv s’incontra con Teofane il Greco. Chiacchierando in un bosco, i due manifestano una concezione del mondo diametralmente agli antipodi: Teofane è votato per intero al servizio di Dio, Rublëv è artefice invece di una filosofia della vita che colloca al proprio centro l’uomo. Il dialogo tra Teofane e Rublëv è completamente immaginario. Tuttavia, esso riesce a comunicare con esattezza anche la diversità dello stile artistico dei due pittori.

 

È noto che l’assenza di profondità spaziale delle icone, non è dovuto al fatto che gli artisti ignorassero le nozioni prospettiche della pittura, ma al fatto che queste opere dovevano suggerire una ieratica maestà del divino. Le tecniche della prospettiva, che i decoratori, al contrario, conoscevano molto bene, venivano ribaltate a vantaggio di una rappresentazione dell’immagine sacra che trapassando lo sguardo dei fedeli doveva trasmettere loro un sentimento di assoluta contrizione. Tutto ciò in sintonia con l’immagine di un potere politico che è quella del Basileus Bizantino.

 

Teofane è un pittore di grande talento che aderisce pedissequamente a questo programma, a differenza di Rublëv che invece conferisce una profondità spaziale ai propri soggetti, invitando i fedeli ad appropriarsi dello spazio del sacro e del divino, come farà più tardi la prospettiva geometrica dei pittori italiani, espressione – secondo il teologo e matematico Pavel Florenskij – della civiltà individualista «borghese».

 

Il film di Tarkovskij è interamente girato in bianco e nero, a eccezione del finale che offre una panoramica a colori delle opere di Rublëv. La scelta del bianco e nero è un omaggio a Sua Maestà Ejzenstejn, nei confronti del quale Tarkovskij si sente come l’Andrej Rublëv della situazione, colui che cerca di ridialettizzare il materialismo storico a partire da Feuerbach. L’antropologia di Tarkovskij non ha tuttavia al proprio centro il genere neutro dell’uomo, ma bensì la donna.

 

Rublëv, Daniil il Nero e i loro collaboratori sono di nuovo in viaggio. Stanno scendendo in barca il corso del fiume e per la notte si accampano su una riva, nei pressi di un bosco. Dal folto degli alberi, Rublëv sente provenire dei rumori che lo spingono a lasciare i suoi compagni per inoltrarsi nel bosco. Assiste così alla celebrazione di una festa pagana. Viene però scoperto e legato a un albero, ma una ragazza che si presenta davanti a lui completamente nuda lo libera.

 

Ancora profondamente turbato, al mattino, Rublëv raggiunge i suoi compagni e parte con loro in barca sul fiume. Di qui, assiste alla cattura di un gruppo di pagani da parte delle guardie del principe. Una ragazza riesce però a fuggire gettandosi in acqua: è la stessa che lo aveva liberato.

 

Finalmente, Andrej e i suoi compagni sono arrivati a destinazione. Devono affrescare la cattedrale di Vladimir con temi ricavati dal Giudizio Universale. Tuttavia, il rifiuto di rappresentare questo tema secondo il canone stabilito da Teofane il Greco è da parte di Rublëv categorico. I lavori della cattedrale sono fermi e non vanno avanti, perché Rublëv non è d’accordo neanche nel dipingere temi che affermino la subordinazione e la sottomissione della donna nei confronti dell’uomo. Al termine dell’episodio, farà il proprio ingresso nella cattedrale una sordomuta, la cui presenza è molto eloquente.

 

Il secondo tempo esordisce con la rievocazione della presa di Vladimir da parte delle orde tatare, un avvenimento che risulta in sé anacronistico, dal momento che la battaglia non si svolge come nel film nel 1408, ma addirittura alcuni anni prima della nascita di Rublëv. Volendo scartare l’ipotesi dell’errore, potrebbe trattarsi di un sottinteso riferimento alle tensioni politiche tra Russia e Cina, culminate nel 1962 con lo scontro sul confine del fiume Ussuri.

 

Guidati dal fratello gemello del principe russo, che vuole vendicarsi di lui, i tatari saccheggiano Vladimir, massacrandone gli inermi abitanti che si sono rifugiati nella cattedrale. Per difendere la ragazza sordomuta, lo stesso Rublëv si macchia dell’omicidio di un tataro. Così, a espiazione della propria colpa e in odio alla bestialità dell’uomo, egli decide di non rivolgere più la parola ad alcuno e di non dipingere più. In seguito, raggiunge con la sordomuta il monastero di Andronikov, dove farà ritorno qualche tempo dopo anche Kirill, che ottiene il perdono dei suoi fratelli. Intanto, durante una scorreria dei tatari la sordomuta deciderà di seguirli.

 

Sono trascorsi diversi anni, la popolazione del principato è stata decimata dai tatari e dalla peste. È giunto però il momento di ricostruire le macerie e si va alla ricerca di qualcuno che sappia fondere le campane da ricollocare sui campanili. Boriska è il figlio di un fonditore: è solo un ragazzo, ma sostiene di essere in possesso dei segreti del padre. Fervono i lavori e Rublëv segue l’attività del giovane con interesse e curiosità. Un giorno incontra il nano che anni prima venne arrestato dalle guardie del principe. Il nano è convinto che a denunciarlo quella volta sia stato Rublëv. Ha passato in carcere dieci anni e ha avuto la lingua mozzata.

 

Rublëv è continuamente sollecitato a recarsi a dipingere al monastero della Trinità. Cerca di convincerlo anche Kirill, il quale gli confessa di essere stato lui a denunciare il nano. Finalmente, la campana è pronta, suona, ma Boriska se n’è già andato. Rublëv si mette sulle sue tracce, lo riesce a raggiunge e apprende che non conosce alcun segreto della fusione. Ciò che lo ha guidato durante il lavoro è stato solo il suo intuito: quella “scintilla divina” che alcuni uomini possiedono e che bisogna mettere a profitto degli altri uomini. Trovando nel giovane nuova forza, Rublëv gli propone di girare insieme per la Russia: lui tornerà a dipingere e Boriska fonderà altre campane.

 

Dall’inizio alla fine, la pellicola di Tarkovskij si avvale di un linguaggio simbolico molto articolato. La campana di Boriska reca un altorilievo con la rappresentazione di San Giorgio che sconfigge il drago, cioè il Demonio. San Giorgio è il protettore dei cavalli, e questi ultimi costituiscono un elemento simbolico piuttosto frequente. Conduttori del carro solare, la mitologia li associa da un lato al mondo infero e dall’altro alle acque celesti, alle fonti e ai fiumi. Così all’inizio del film, dopo la scena dell’aerostato, Tarkovskij introduce l’immagine di un cavallo. che si rotola nella prateria creando l’impressione di uscire dalla terra. Poco prima dei titoli di coda si assiste invece alla scena di quattro cavalli che stanno pascolando in riva a un fiume sotto la pioggia.

 

Il cavallo è però anche il simbolo dello spirito del popolo russo, della sua ansia di libertà, dell’identità col nomadismo scita e delle donne guerriere!

 

All’inizio del romanzo di Tarkovskij su Andrej Rublëv, Daniil il Nero racconta un frammento della sua esistenza: «Quindici anni fa (siamo nel 1400 n.d.r.) mi trovai a passare dalle parti di Mosca e decisi di fermarmi. Mi era capitato un buon lavoro: restaurare icone. Due antiche icone bizantine. Un piccola e l’altra un po’ più grande, così. Lavorai a quelle icone fino all’autunno. Dall’inizio di aprile. Fate un po’ il conto. Mi preparavo ad andarmene quando arrivarono i tatari. Circondarono le mura da tutte le parti e rimasero lì. Passò un giorno, ne passò un altro. Una settimana, due settimane, e non si decidevano ad attaccare. Il principe era andato a Kostroma con tutta la famiglia, dicevano per radunare un esercito. E allora i moscoviti decisero di difendere da soli la loro città. Senza il principe. Lungo tutte le mura e a ogni porta c’erano delle guardie, sempre all’erta, senza dormire, non stavano più in piedi dalla stanchezza, e i tatari continuavano a prendere tempo […]. Le donne e i bambini rimasero chiusi nella chiesa dodici giorni, senza mai uscire. E per tutto il tempo pregarono Dio. Poi cominciò la fame, e improvvisamente la gente cominciò ad ammalarsi: il primo giorno ti sentivi stanco e spossato, il secondo tutto il corpo ti si ricopriva di macchie nere, e il terzo giorno morivi. A quel punto gli uomini, per la disperazione saccheggiarono i depositi di birra e a Mosca cominciò la baldoria. Proprio allora i tatari chiesero il riscatto: cento rubli di monete e due carri di capelli delle nostre donne. Delle donne e delle fanciulle più giovani e belle. Due carri! E dissero proprio così: se vi riscattate, ce ne andremo, altrimenti avrete di che pentirvi! Così, lo ricordo come fosse ora, in un campo non distante dalla città si schierarono le donne e le vergini moscovite, formando una lunga fila davanti a due ceppi. Accanto a ogni ceppo c’era un tataro con la sciabola e un altro con la mola per affilare le lame. Tagliando i capelli, infatti, perdevano il filo molto in fretta. I tatari a cavallo avevano circondato tutto il campo e io ero insieme agli uomini, dietro di loro. Malati, deboli, gli uomini stavano lì a guardare, e anch’io guardavo. Passano le donne, le vergini, belle e meno belle, e nessuna versa una lacrima, tutte sembrano di pietra. E davanti a tutti, una dopo l’altra si tolgono il fazzoletto, pagando col disonore per i loro uomini, e per Mosca. Si tolgono il fazzoletto, si chinano sul ceppo, e il tataro con una mano afferra la treccia, e con l’altra, z-z-zik!, la recide, deponendola nel mucchio che diventa sempre più grande. Le donne passano, e dietro di loro z-z-zik, z-z-zik, stride la mola del tataro che affila le sciabole. E lì ci sono i loro uomini, i loro padri, i loro figli, che per la debolezza non possono fare nulla! E anch’io sto lì a guardare, e mi sento mancare l’aria, mi giro, e proprio in quel momento la vedo. Avrà avuto dieci anni, e guardava con gli occhi spalancati le donne oltraggiate e infelici. Ma forse non del tutto infelici. Chi è capace di raccapezzarcisi, con le donne. Ti ricordi, Andrej? […]. Ti ricordi il Campo delle Vergini?».

 

In Russia era costume che le donne da marito dovessero portare i capelli raccolti in un’unica treccia. Il riscatto chiesto dai tatari assume perciò il significato di un oltraggio nei confronti delle vergini. Ma il Campo delle Vergini è soprattutto evocativo dell’epos boemo che narra di Vergini Guerriere con a capo la regina Vlasta, le quali contrastarono a Praga il potere degli uomini dopo la morte della principessa Libuše.

 

Questa leggenda che riecheggia il mito delle Amazzoni, riporta l’eco delle tradizioni matriarcali del mondo slavo e il racconto di Daniil il Nero sembra esserne a sua volta una chiara derivazione. Tarkovskij lo ripropone al termine del romanzo descrivendo la scena di un improbabile Giudizio Universale che attribuisce a Rublëv.

 

In tale descrizione ritorna anche l’immagine della donna “pagana”, incontrata da Rublëv nel bosco, che nel romanzo è più propriamente una strega dal nome evocativo di Marfa/Marta: «Bagnati e pesanti, i capelli della strega fluiscono sul suo semplice sarafan da contadina. Con la mano tesa in un gesto solenne, ella regge una nave con un’espressione di straordinaria importanza, perché quella è la nave che trasporta le anime dei defunti. Si sente lo sciabordio dell’acqua e quel grido angoscioso, disperato e pieno di dolore, appena attutito dalla nebbia: “Marfa-a-a-a! Nuota-a-a! Ma-a-arfa!”. Le donne giuste navigano, i visi maestosi e afflitti, e nel silenzio tornano a echeggiare i colpi sordi e regolari della sciabola del tataro. Volti di donne bellissime, belle e anche brutte, trasformate da Andrej nella schiera delle donne giuste in forza della splendida libertà della fantasia. Vanno e vanno le donne in triste processione, nella speranza che quel sacrificio valga loro la salvezza, e i colpi della sciabola del tataro, sempre meno affilata, risuonano sordi come il battito dei loro cuori».

 

L’ambientazione storica del film di Tarkovskij è quella della riscossa contro il dominio dell’Orda d’Oro che porta alla nascita dello Stato russo e all’affermazione della chiesa ortodossa. Un’epoca dove assistiamo anche alla repressione del paganesimo radicato nelle culture gilanico-matriarcali del mondo slavo.

 

L’Andrej Rublëv di Tarkovskij riusciva a intercettare un sentimento che si muoveva anche nei paesi dell’Est a ridosso della primavera di Praga. Nella città di Vlasta e delle guerriere amazzoni, il gesto di Jan Palach, per la repressione sovietica, ricordava altri roghi.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Conte, Gli Slavi, le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Torino 2006.

P. Florenskij, La prospettiva rovesciata, Milano 2020.

S. Freud, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, in Opere, vol. VI, Torino 1976.

A. Frezzato, Tarkovskij, Firenze 1977.

V. Giterman, Storia della Russia, Firenze 1980.

T. Masoni e P. Vecchi, Andrei Tarkovskij, Firenze 1997.

D. Merezcovskij, Le roman de Léonard de Vinci, Paris 1935.

Platone, Opere, vol. II, Roma-Bari 1974.

V. Schiltz, Gli Sciti: dalla Siberia al Mar Nero, Torino 1995.

A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano 1988.

A. Tarkovskij, Racconti cinematografici, Milano 1994.

A. Tarkovskij, Poesie scelte , Milano 1989.

A. Tarkovskij, Andrej Rublëv, Milano 1992.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]