[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 215 / NOVEMBRE 2025 (CCXLVI)


contemporanea

TANNU TUVA
STORIA DI UN PAESE DIMENTICATO TRA RUSSIA E MONGOLIA
di Lorenzo Riva

 

Consultando una mappa dell’Asia orientale prodotta nel periodo interbellico, si può notare la curiosa presenza di uno Stato sconosciuto ai più, incastonato tra la Mongolia e l’Unione Sovietica. Si tratta di Tuva, un Paese che oggigiorno non esiste più – almeno come Paese indipendente – essendo una delle repubbliche che compongono la Federazione russa, nonostante sia abitata soprattutto da popolazioni non slave. I tuvani, infatti, parlano una lingua imparentata con l’uzbeco, il kazako o il kirghiso, in quanto appartenente alla famiglia linguistica turca. Sotto altri punti di vista, però, gli abitanti appaiono affini ai mongoli, con i quali condividono tradizioni culturali, pastorizia nomade e confessione buddista, anche se quest’ultima risulta mescolata alle pratiche sciamaniche preesistenti. D’altronde, in passato i tuvani impiegavano il mongolo come lingua colta, mentre Tuva era considerata parte della Mongolia.

 

Dalla metà del XVIII secolo Tuva fece parte dell’Impero cinese – all’epoca guidato dalla dinastia Qing – che inquadrò la regione nella Mongolia Esterna. Il controllo delle autorità centrali sui territori settentrionali, però, era piuttosto labile, in quanto fondato sulla fedeltà dei notabili locali all’imperatore. Peraltro, l’assenza di minoranze Han rendeva ancora più precaria la sovranità di Pechino su quelle terre, facilitando spinte centrifughe e interferenze straniere. Nell’800, infatti, la Russia volse il proprio sguardo verso le terre tuvane, attratta da risorse minerarie e appezzamenti coltivabili. Inizialmente, San Pietroburgo cercò di penetrare pacificamente, tanto che nel 1881 stipulò un accordo con le autorità cinesi: in particolare, il documento garantiva ai russi la possibilità di commerciare e trasferirsi liberamente all’interno di Tuva. In tal modo, nel giro di pochi decenni migliaia di coloni provenienti dall’Impero zarista – soprattutto contadini, minatori, cacciatori e avventurieri – si stabilirono nei nuovi insediamenti appositamente edificati nell’area, tra i quali spiccava Belotsarsk – oggi nota come Kyzyl – attuale capitale della Repubblica tuvana. Secondo le stime del 1912, nella regione vivevano ben 12.000 russi, a fronte di una popolazione indigena che non superava le 50.000 unità.

 

Nel 1912 la Cina fu scossa dalla rivoluzione Xinhai, che consegnò alla storia la monarchia in favore di un governo repubblicano. Contemporaneamente, nelle zone nordoccidentali del Paese si verificarono sommosse anticinesi, che comportarono da un lato la formazione di uno Stato mongolo indipendente, dall’altro la separazione di Tuva tanto dalla Cina quanto dalla Mongolia Esterna. L’élite tuvana – composta principalmente da aristocratici e monaci – era divisa in due grandi fazioni: la prima – numericamente maggioritaria – abbracciava posizioni filo-mongole, dato che sperava di unirsi alla Mongolia indipendente in virtù di legami storici e culturali; la seconda, invece, esprimeva istanze russofile. A prevalere fu quest’ultima, tanto che nel 1913 i suoi esponenti scrissero una petizione indirizzata allo zar Nicola II, affinché il sovrano intervenisse in protezione dei tuvani. Di conseguenza, nell’estate del 1914 San Pietroburgo decise di trasformare la regione in un protettorato russo, senza incorporarla direttamente nel suo impero.

 

Nondimeno, la Rivoluzione d’ottobre e lo scoppio della guerra civile mutarono nuovamente la situazione sul campo, aprendo la possibilità di sottrarsi alla dominazione straniera. In effetti, agli occhi di molti abitanti il controllo russo non era differente da quello cinese, risultando sgradito a una fetta considerevole della popolazione. Per questo motivo, il Congresso pan-tuvano proclamò l’indipendenza della regione nel 1918, consacrata l’anno successivo da una rivolta anti-moscovita. In tal modo, il territorio finì per essere conteso tra nazionalisti indigeni, mongoli, bolscevichi e bianchi: a spuntarla furono i comunisti – usciti vittoriosi dal conflitto civile – che crearono la Repubblica Popolare di Tannu Tuva (“Tannu” significa “taiga” in tuvano), uno Stato formalmente indipendente e separato dall’Unione Sovietica.

 

Le autorità della Mongolia socialista – satellite della Russia bolscevica – chiesero a Mosca di poter annettere Tuva nel 1921; tuttavia, la risposta ottenuta fu ambigua, perché non conteneva né un diniego né un’approvazione nei confronti della domanda. In realtà, i sovietici avversavano l’unione delle due nazioni, temendo di perdere il controllo di un’area strategicamente importante e abitata da una folta minoranza russa. Ulan Baataar, dunque, dovette accettare l’indipendenza del vicino, abbandonando ogni velleità irredentista. Ad ogni modo, va specificato che la Repubblica Popolare di Tannu Tuva – dal 1926 denominata solo Tuva – ottenne il riconoscimento soltanto dall’Unione Sovietica e dalla Mongolia.

 

Il regime alla guida del Paese – incentrato sul Partito Rivoluzionario del Popolo Tuvano (PRPT) – traeva ispirazione da quello bolscevico; eppure, le politiche perseguite nei primi anni divergevano sensibilmente da quelle moscovite. Invero, Donduk Kuular – leader della nazione – non celava le proprie posizioni filo-mongole e filo-buddiste, che gli valsero la diffidenza dell’Unione Sovietica. Infatti, negli anni ‘20 le autorità scelsero il buddismo come religione di Stato, vietarono la propaganda antireligiosa, incoraggiarono lo studio della lingua mongola, tollerarono la proprietà privata e inviarono molti giovani a formarsi in Mongolia. La comunità russofona – rimasta in loco nonostante i rivolgimenti politici – viveva separata dal gruppo etnico maggioritario: sottostava a leggi moscovite, deteneva passaporti sovietici e frequentava scuola apposite, sfuggendo de facto al controllo di Kyzyl.

 

Nonostante Tuva si proponesse come nazione indipendente alleata di Mosca, in realtà costituiva piuttosto uno Stato satellite dell’Unione Sovietica. Basti pensare che i dicasteri preposti agli affari interni e alla sicurezza – assieme alla stampa di regime e al settore minerario – erano eterodiretti dal Cremlino, che limitava fortemente l’autonomia decisionale della repubblica. Perfino sul versante economico la dipendenza dall’ingombrante vicino era palese: dirigenti russi presiedevano le industrie più importanti, mentre la popolazione adoperava il rublo come valuta, rimpiazzato dall’akşa soltanto negli anni ‘30. L’esercito tuvano – numericamente contenuto – non poteva certo competere con l’Armata Rossa, vera garante della sicurezza nazionale.

 

L’orizzonte politico di Kuular – decisamente disallineato ai progetti sovietici – spinsero Stalin a caldeggiare un colpo di Stato, effettuato nel 1929 da elementi fedeli a Mosca. Tra costoro figurava Salchak Toka – nuovo capo della nazione – che appariva decisamente più ligio alle direttive staliniste, segnando una discontinuità rispetto alla linea del predecessore. Il golpe fu accompagnato da una grande purga che colpì quasi la metà dei membri del PRPT, caduti rovinosamente in disgrazia. La nuova leadership cercò di cancellare tanto i legami con la Mongolia quanto la confessione buddista, attraverso una capillare operazione di ingegneria sociale: lama e sciamani furono duramente perseguitati, mentre i templi – non più impiegati per scopi religiosi – subirono l’abbattimento. I dati del 1928 riportano 4813 lama e 28 monasteri, ridotti rispettivamente a 15 e 1 nel 1932, dopo tre anni di persecuzioni antireligiose. La lingua tuvana – fino ad allora scritta in caratteri mongoli – divenne il nuovo idioma letterario, impiegato prima con l’alfabeto latino e poi – a partire dai primi anni ‘40 – con quello cirillico. Invece, l’imposizione della collettivizzazione delle campagne riscontrò scarso successo, dato che la maggioranza della popolazione continuava a praticare la pastorizia nomade.

 

Di conseguenza, la socializzazione fu abbandonata già nel 1933, parallelamente alla riapertura di alcuni monasteri e alla reintroduzione del commercio privato. Inoltre, il controllo delle miniere passò da Mosca a Kyzyl, mentre la minoranza slavofona incominciò ad essere soggetta alle leggi tuvane, perdendo lo status peculiare di cui aveva goduto fino a quel momento. Tuttavia, una nuova feroce purga – accuratamente orchestrata dall’NKVD – colpì il partito nel 1938, riavvicinando il Paese alla linea stalinista. Pertanto, nel 1941 i coloni sovietici – che formavano quasi ¼ della popolazione – ricevettero la cittadinanza di Tuva assieme al permesso di entrare nel PRPT, mentre l’insegnamento del russo divenne obbligatorio nelle scuole, così come l’utilizzo dell’alfabeto cirillico per la scrittura della lingua tuvana.

 

L’indipendenza di Tuva si concluse nel pieno della Seconda guerra mondiale, poiché il Cremlino decise di annettere la repubblica nel 1944. L’integrazione all’Unione venne giustificata adducendo alla volontà delle masse lavoratrici tuvane, desiderose di far parte della grande famiglia sovietica. In realtà, Stalin intendeva controllare direttamente un territorio ricco di uranio, cobalto, mercurio, carbone, oro, amianto e zinco, lanciando al contempo un monito alla Cina, che ancora sperava di recuperare la Mongolia Esterna. Inutile dirlo, del cambiamento si occuparono soltanto i rappresentanti moscoviti e tuvani, senza curarsi minimamente dell’opinione pubblica locale. La regione venne così incorporata all’interno della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR) come oblast’ autonoma, elevata al rango di repubblica socialistica sovietica autonoma (RSSA) nel 1961. L’annessione comportò da un lato la collettivizzazione delle campagne, dall’altro la russificazione della società, riconducibile soprattutto a due fattori. Anzitutto, nel sistema scolastico divenne predominante l’utilizzo della lingua di Puškin, che finì per oscurare la presenza della parlata autoctona. In seconda battuta, le politiche moscovite incentivarono il trasferimento di manodopera russa, necessaria per sviluppare l’industria locale. Inoltre, spesso i prigionieri reclusi nelle colonie penali tuvane sceglievano di rimanere in loco una volta scarcerati, incrementando la componente russofona.

 

Le relazioni tra Mosca e Kyzyl rimasero pacifiche fintanto che l’URSS si mostrò unita e stabile: la dissoluzione dell’Unione, al contrario, favorì l’emersione di tensioni interetniche nella repubblica siberiana. Difatti, parte dei tuvani covava un forte rancore nei confronti delle istituzioni centrali, alimentato dalla russificazione e dalle critiche condizioni socioeconomiche. La minoranza russa, dal canto suo, si percepiva marginalizzata, data la diffidenza che riscontrava tra gli autoctoni. Peraltro, la situazione linguistica della regione non favoriva la distensione dei rapporti: la maggioranza della componente slava, effettivamente, ignorava completamente la lingua tuvana, mentre appena il 60% degli indigeni era in grado di comunicare in russo. In questo contesto nacque Khostug Tyva, un partito nazionalista che proponeva la secessione di Tuva dalla Russia, nella speranza di conseguire l’indipendenza al pari dell’Ucraina o del Kazakhstan. Le tensioni accumulatesi sfociarono nel 1990 in una rivolta russofoba, durante la quale gruppi estremisti tuvani attaccarono civili russi intermi. Gran parte della minoranza slava – terrorizzata dal clima sedizioso e insoddisfatta delle magre prospettive socioeconomiche – decise di migrare altrove tra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo, incentivata dall’assenza di legami consolidati con un territorio in cui risiedeva da pochi decenni. Nonostante il fermento nazionalista, la maggioranza degli abitanti non riteneva concretizzabile il sogno indipendentista, soprattutto a causa della dipendenza economica di Tuva dai sussidi elargiti dal Cremlino. Ancora oggi la regione – colpita da disoccupazione, alcolismo e criminalità – rappresenta una delle repubbliche più povere della Federazione Russa, dalla quale continua a ricevere lauti finanziamenti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]