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N. 12 - Maggio 2006

TALAMON/TELAMONE

Il tempio e la battaglia – Parte III

di Antonio Montesanti

 

Evoluzione mitica

 

Se in Grecia, madre della storia e delle leggende, di Dei ed Eroi, il mito era immutabile, qualcosa di estremamente prefissato, in cui poteva variare una versione, ma non di certo la struttura stessa del racconto, in Etruria questi venne ad assumere una valenza differente che presso i Greci stessi.

 

Ad oggi, in base alle testimonianze di tipo iconografico, possiamo affermare con assoluta certezza che gli Etruschi recepirono si il mito greco, ma che esso aveva un valore differente. Mentre per i Greci i miti, le narrazioni potevano essere qualcosa di prefissato, con caratteristiche peculiari e la cui narrazione veniva presa da spunto dagli artisti e probabilmente dalle persone che assistevano alle rappresentazioni teatrali in molteplici aspetti e forme di esso, tra gli etruschi il Mito sembra portare sempre unico ed inequivocabile messaggio.

 

La corrispondenza tra mito e apprendimento in Grecia corrisponde ad una serie di informazioni e messaggi di tipo ideale o empirico, mentre il mito greco in Etruria è fonte di un messaggio unidirezionale.

 

È per questo che gli artisti, manifatturieri o letterari, esplicarono in madrepatria il mito sotto una miriade di molteplici forme, spesso prendendo, nel caso dell’artista figurativo, un quantitativo notevole di episodi afferenti ad un unico mito e che spesso dei quali ne poteva rimanere nell’immaginario collettivo, famoso uno solamente.

 

Nelle rappresentazioni potevano variare i dettagli decorativi, lo svolgimento delle azioni, ma lo schema di base rimaneva per lo più inalterato. Estremamente difficile era, piuttosto, la possibilità che uno schema figurativo o epico del periodo arcaico venisse cambiato o rimosso. Al contrario, piuttosto comune era la possibilità che altri schemi ‘mitici’ venissero ad aggiungersi.

 

Ancora più variegato, invece, era il panorama che riguardava la schematizzazione del mito sotto il profilo letterario.

 

Al contrario del profilo artistico propriamente manuale lo schema è rappresentato dal mito medesimo e non da una sua immagine o da un momento, ma questa volta è lo schema il mito stesso sul quale costruire, prendendo dai meandri della mente umana, l’anima della narrazione.

 

Attorno alla guerra di Troia nacquero aggiunte, le stesse che nell’arte figurata diventavano struttura ma che in quella letteraria erano sovrastruttura, e questo lo sappiamo perché conosciamo e riconosciamo gli originali o quelle opere che ci sono state tramandate nella loro forma originaria.

 

Agli esordi del V secolo a.C., in uno slancio di coscienza comune, in seguito alla scongiurata invasione persiana, la Grecia ha un fremito culturale che già era iniziato proprio durante i tentativi d’invasione achemenidi.

 

Forse la necessità di rendere il popolo cosciente ed edotto dei fatti perché si rendesse partecipe attivo degli eventi modifica notevolmente la realtà del teatro greco.

 

Sappiamo che prima di questo periodo, ad Atene, già si svolgevano degli agoni teatrali, gare che rappresentassero atti scenici durante le feste Dionisie.

 

Dobbiamo pensare che ancora nel 534 a.C. anno in cui la vittoria venne assegnata a Tespi, considerato l’ideatore della tragedia moderna, le rappresentazioni che dovevano commuovere il pubblico, ossia coinvolgerlo, fossero ancora di tipo arcaico, embrionale, primitivo. Era ancora previsto un corteo composto di satiri e menadi che precedeva un coro che cantava intorno ad un'ara su cui veniva immolato un capro, animale sacro a Dioniso.

 

Tespi fu dunque il riformatore e ‘rivoluzionatore’ del teatro o dell’idea che prima se ne aveva, tanto da divenire una figura ‘semimitica’ e, se Tespi sta alla rivoluzione teatrale antica allora Eschilo, di un trentennio posteriore, sta alla rivoluzione stilistica teatrale.

 

In una calda sera del mese di Elafebolione (marzo-aprile) del 467 a.C., ad Attene, Eschilo riceve la corona d’ulivo per la vittoria nell’agone teatrale con la trilogia dedicata al ciclo tebano: I 'Sette contro Tebe', la più antica tragedia conservata, costituiva l’apoteosi, il picco, il frammento mancante, in cui le altre due il 'Laio' e l"Edipo', costituivano gli altari all’ultima, considerato un capolavoro indiscusso, corredato dal dramma satiresco 'La Sfinge'.

 

Il dramma di Edipo e l’incalzante e pietoso destino che perseguita lui, la sua famiglia e la sua stirpe e ci è consegnato dal passato dall'unica tragedia conservata, i 'Sette contro Tebe', appunto.

 

Per anni, i drammaturghi cercheranno nella rappresentazione delle sventure, preformulate dall'epos, di Edipo e dei suoi discendenti, una formula nuova che avesse potuto mandare un messaggio potente in grado di smuovere gli animi per far comprendere tramite questo sommovimento l’eventualità delle azioni umane rispetto, non più agli dei, ma al fato.

 

Come detto una struttura, che in questo caso ebbe la funzione di ‘schema’, venne riutilizzata e modificata nei contenuti successivamente dallo stesso Eschilo, che rispolverò il materiale mitologico per dargli una nuova veste cercando di condurre la tragedia all’esasperazione teatrale, nelle 'Supplici', in cui viene mosso uno dei temi, un altro ‘schema’, che per i Greci era il dramma più grande: il seppellimento delle persone care da parte dei figli, che supplicano, al pari di Priamo con Achille, affinché possano seppellire i padri.

 

Lo stesso Sofocle prenderà spunto dallo stesso mito: la sua 'Antigone' prevarrà sulle altre tragedie concorrenti nel 440 a.C.; nel 430 a.C. scriverà l’‘Edipo re’ e tale e anta sarà la fortuna di quest’ultima che ancora nel 401 a.C. verrà rappresentata postuma alla morte del tragediografo l’‘Edipo a Colono’.

 

Euripide, narrando in maniera esemplare l’ineluttabilità della sorte, scriverà le ‘Fenicie’, che prende il nome dalle fanciulle, destinate al santuario di Apollo a Delfi, che costituiscono il coro. Rappresentata fra il 411 ed il 408 a.C., viene considerata la tragedia del ciclo tebano più vicina al rilievo del frontone di Talamone, quanto secondo O.W.v. Vacano, Edipo è protagonista, vivendola nel momento in cui si compie, della sua maledizione sotto le mura della città di Tebe.

 

Il mito

 

La saga o ciclo tebano narra che le premesse alla tragedia umana che si consumò sotto le mura di Tebe, capitale della Beozia, iniziarono in un periodo mitico “tre generazioni prima della guerra di Troia”. Laio, re di Tebe, si dannava l’anima perché non poteva avere figli ai quali lasciare il suo regno. Per questo si rivolse all’oracolo di Delfi, e interrogatolo rispose che se avesse voluto un discendente, Apollo lo avrebbe accontentato, ma che suo figlio sarebbe stato anche causa della sua morte perché lo avrebbe ucciso.

 

Non passò molto che Giocasta, moglie di Laio, partorì un maschio. Ricordandosi della predizione, Laio, per non commettere infanticidio, fece bucare i piedi del figlio, attraverso i quali venne legato nei boschi del monte Citerone ed esposto alle belve. Il piccolo venne trovato e tratto in salvo da un pastore, che gli dette nome Edipo (colui che ha i piedi gonfi) ed in seguito lo consegnò a Pòlibo, re di Corinto, il quale non aveva figli e per questo lo adottò e allevò come legittimo erede e successore al trono della città istmica.

 

Divenuto adulto Edipo venne a conoscenza del passato e per questo si recò a Delfi dove l’oracolo gli predisse le sue sventure: che avrebbe ucciso il padre, sposato la madre e generato dei figli che sarebbero stati suoi fratelli. Credendo che il dio si fosse riferito al suo presunto padre Pòlibo, Edipo si allontanò da Corinto per evitare il misfatto.

 

In quel periodo, Tebe era in balia della Sfinge, creatura mostruosa, figlia di Echidna e di Tifone o di Ortro e di Chimera, a seconda delle versioni, giunta in Beozia dall’Etiopia. Il suo corpo era un incrocio: la testa di donna corpo di leone, coda di serpente e ali di aquila. La Sfinge venne mandata nelle campagne tebane per punire gli abitanti della regione, perché Era, la moglie di Zeus era adirata con Laio, che aveva rapito il giovane Crisippo di Pisa. Risiedeva sul monte Ficio e a tutti i viaggiatori che incontrava poneva il suo quesito che aveva imparato dalle Muse:

 

«Qual’è quell’essere, che ha una voce sola, che alla mattina ha quattro piedi, al pomeriggio con due e alla sera tre, e più sono ed è più debole quanti più ne ha?».

 

Chi non rispondeva veniva divorato sul posto.

 

Durante il suo esilio, lungo la strada tra Delfi e Tebe, Edipo incontrò il corteo di Laio, che si stava dirigendo in direzione opposta per chiedere consiglio ad Apollo perché lo liberasse dalla Sfinge. Laio che ovviamente non riconobbe il figlio, fece scansare lo straniero, al quale un cavallo del carro reale gli pestò un piede ed invece delle scuse ricevette anche una frustata. Preso dall’ira uccise tutti escluso un vecchio del corteo che tornò a Tebe raccontando il fatto ai concittadini. La prima parte della predizione si era avverata, Edipo aveva ucciso il padre.

 

Saputo l’accaduto, ossia che Laio era morto, i Tebani proposero che chi avesse sconfitto la Sfinge, risolvendo l'enigma, sarebbe divenuto re di Tebe e sposato la regina ormai vedova.

 

Edipo prima di giungere a Tebe s’imbatté nella Sfinge che anche a lui ripropose l'enigma. Edipo lo risolse immediatamente, rispondendo che era l’uomo l’essere a cui si riferiva il mostro, poiché:

 

«Quando nasce cammina a carponi e quindi con quattro piedi; quando è nel fiore degli anni con due, e nella vecchiaia si aiuta con un bastone che è per lui il terzo piede».

 

Alla risposta la Sfinge si uccise gettandosi giù dal monte Ficio.

 

Una volta giunto in città, Edipo venne accolto come un eroe e Creonte, che faceva le veci del re, gli concesse il trono di Tebe ottenendo in premio la mano della vedova regina Giocasta.

 

La seconda parte dell'oracolo prendeva dunque forma: Edipo, inconsapevole, si era unito alla madre.
 

Ignari di essersi sposati a vicenda, figlio e madre, per quindici anni, sotto il loro regno fecero prosperare, amati, il popolo e il paese, generarono quattro figli gemelli a coppie, due maschi e due femmine: Eteocle, Polinice, Antigone, Ismene.

 

Tebe, fu afflitta allora da una tremenda pestilenza e per scacciare la quale venne consultato ancora una volta la Pizia a Delfi che rispose che l’uccisore di Laio doveva essere scacciato da Tebe, affinché il morbo cessasse. Ma non trovandolo, poiché Edipo non sapeva di ave ucciso il re di Tebe, venne interpellato l’indovino Tiresia che rivelò tutta la storia.

 

Incredulo si rivolse ad un cortigiano di Corinto che oltre a metterlo al corrente della morte di Pòlibo, gli ricordò che lui era stato adottato. Giocasta, presente al dialogo si rese conto delle disgrazie che li attendevano. La coppia quindi si punì per il misfatto incognito: Giocasta si suicidò impiccandosi ed Edipo si tolse la vista con una fibbia dell’abito della moglie.


La disperazione scese su Tebe; Edipo per un periodo visse da recluso, confortato dalle figlie ma dannato dai figli.

 

Da questo punto inizia il collegamento diretto con il frontone di Talamone.

 

Quindi si svolse la diatriba su quale dei due figli dovesse succedere ad Edipo, e dopo diverse discussioni e soluzioni giunsero all’accordo di regnare un anno per uno; il primo che avrebbe regnato sarebbe stato Eteocle e l’anno successivo sarebbe toccato a Polinice che secondo gli accordi sarebbe dovuto rimanere lontano dalla città.
 

Nel frattempo Polinice si recò in esilio ad Argo con la speranza di sposare una delle due figlie del re della città Adrasto: Egia o Deipile. Anche Adrasto ricorse all’oracolo delfico per scegliere i mariti tra i pretendenti delle figlie e il responso divino fu il seguente:

 

«Aggioga a un carro a due ruote il cinghiale e il leone che combattono nel tuo palazzo».

 

Il cinghiale era rappresentato da Tideo di Calidone (simbolo della città) mentre il leone era quello tebano di Polinice che vennero “assegnati” rispettivamente a Deipile e ad Egia.

 

Passato l’anno, al momento di passare il trono di Tebe al fratello, Eteocle si rifiutò non rispettando gli accordi.

Polinice, ormai genero di Adrasto, tornò nella città nella quale aveva passato il suo anno di esilio e si rivolse al re di Argo, il quale riunì tutti i capi argivi per una guerra contro lo spergiuro e l’ipocrita Eteocle. A Polinice si unirono immediatamente lo stesso Adrasto, Tideo, Capaneo, Ippomedonte, Partenope e per ultimo Anfiarao, cognato del re argivo, il quale aveva poteri da veggente e che si dimostrò riluttante poiché previde che la spedizione avrebbe avuto un esito infelice.
 

Lo scontro fratricida tra i figli/fratelli di Edipo (che torna di nuovo a Tebe per trovare un accordo) e l’indignazione, lo portarono Edipo a maledirli, dicendo che avrebbero dovuto dividersi il regno con le armi e, dopo aver benedetto Teseo e le proprie progenie, sprofondò nell’oltretomba.

 

Il frontone sembra riprendere un unico soggetto comune ai ‘Sette contro Tebe’ di Eschilo o alle ‘Fenicie’ di Euripide,il quale prendendo spunto dal suo predecessore, inizia descrivendo la situazione immediatamente precedente all’assalto alla rocca tebana. Ora, l’obbiettivo è il riconoscimento della tragedia dalla quale prese spunto il mito etrusco che si proietta nella coroplastica frontonale di Talamone, per un duplice motivo: cronologico e semantico.

 

La versione del mito nei ‘Sette contro Tebe’ di Eschilo

 

La tragedia si apre con Anfiarao nell’inutile tentativo di dissuasione nei confronti di Adrasto, a partire per la spedizione poiché l’indovino conosceva l’esito della campagna.


I sette di Argo giungono a Tebe e ognuno si dispone presso una porta perché l’assalti. Eteocle grazie ad un “gioco semantico” impresso sugli scudi degli attaccanti, pone ad ogni porta il giusto difensore.


Capaneo si scaglia violentemente contro la porta Elettra, di fronte a lui si trova Polifonte. Nell’impeto si vanta del fatto che neanche Zeus medesimo gli avrebbe impedito la scalata, il Dio, indispettito allora lo incenerisce con un fulmine.


Tideo nel tentativo di prendere la porta Pretide, viene ferito da Melanippo, posto a difesa di essa. Atena stava per soccorrere Tideo, ma Anfiarao, che odiava l’argivo suo compagno di battaglia perché li aveva spinti alla guerra, prevedendo che Atena l’avrebbe salvato, taglia con colpo di spada la testa di Melanippo, invitando Tideo a divorarne il cervello come segno di vendetta. La dea Atena accorsa a salvarlo, presa dal disgusto, lo lascia morire. Solo allora Anfiarao potè riprendere il posto presso la porta Omolea, che era difesa da Lastene.

 

Presso le altre porte si affrontavano Adrasto e Megareo alla porta Neistana, Iperbio ad Ippomedonte alla Oncaide, Partenopeo ad Attore alla Borrea , mentre la settima e ultima porta, la Ipsistiana, era difesa direttamente da Eteocle al quale si contrappone direttamente Polinice.

 

Polinice propone al fratello di scontrarsi in una disfida singola in modo da porre fine al massacro. Eteocle accetta, i due si scontrano e si uccidono vicendevolmente e in questo modo si compie la maledizione invocata dal padre.


I sopravvissuti argivi tentano un ultimo, disperato assalto alle mura di Tebe che resiste grazie alla prontezza dell’ultimo discendente di Cadmo, Creonte, fratello di Giocasta, che prende in mano le redini dello scontro conducendo alla morte tutti gli sfidanti esclusi Adrasto, che riesce a sfuggire al suo destino grazie al suo magico cavallo Arione, e Anfiarao, pronto ad abbandonare l’assedio, il quale quasi raggiunto dalle frecce nemiche durante la fuga, viene tratto in salvo da Zeus, il quale, riconoscendogli il valore delle armi, squarcia la terra che lo inghiotte con tutto il suo carro andando a regnare fra le ombre.

 

Nell’ultimo atto Creonte prende la decisione che il corpo di Polinice sarebbe dovuto rimanere insepolto, poiché aveva portato guerra alla sua patria. Antigone, ignora gli ordini del nuovo re di Tebe e innalza una pira funebre per il fratello, compiendo così i riti funebri. Sorpresa, viene condannata ad essere sepolta viva.

 

La versione del mito nelle ‘Fenicie’ di Euripide

 

L'esercito argivo opposto a quello tebano è accampato dinanzi alle mura della città cadmea. Giocasta (che nella versione euripidea non si uccide), attende Polinice, perché s’incontri con Eteocle, affinché i due trovino un accordo prima dello scontro finale. Questo è il tentativo per un’ultima soluzione diplomatica che non andrà a buon fine. Antigone, sugli spalti del palazzo,si fa indicare dal suo pedagogo i capi dell'esercito nemico. Nel palazzo siede affranto e accorato Edipo accecato.

 

Presso ognuna delle sette torri della città, presso la quale vi è una porta, gli assediati e gli assedianti si dispongono alla battaglia: ogni capo argivo si dispone davanti ad una porta della città pronto ad affrontare il suo antagonista argivo.

 

L'indovino Tiresia, scombussola la situazione predicendo a Creonte, fratello di Giocasta, che la città si salverà solo quando morirà l'ultimo discendente della stirpe di Cadmo: Meneceo, figlio di Creonte. Il fratello di Giocasta, fa propendere l'esito della battaglia ancor prima del suo inizio, gettandosi dalla torre più alta.

 

La battaglia infuria e questa viene narrata da un araldo a Giocasta dei suoi sviluppi.

 

Partenopeo viene ucciso con una pietra scagliata dalle mura dal difensore Periclimeno, Capaneo pronuncia un proclama di immortalità (“Neppure la potenza della folgore Zeus può trattenermi!”) prima d’inerpicarsi con l’ausilio di una scala d'assalto da lui inventata e venire abbattuto dal fulmine divino; Eteocle, per evitare altro spargimento di sangue, propone al fratello una sfida ad due decisiva per l'intera battaglia. Giocasta tenta di gettarsi tra i due contendenti nel vano tentativo di poterli fermare.

 

Terminato lo scontro con la lancia, i due passano alle spade. Eteocle retrocede la gamba sinistra per spronare il fratello a scoprirsi nel tentativo di ferirlo, per poi inferirgli un rapido colpo mortale nel bacino. Eteocle vincitore, spoglia il fratello delle armi e ancor prima di esultare, Polinice, con le ultime forze, lo trafigge con un fendente alla gola.

 

Giocasta, con Antigone, raggiunge il luogo dello scontro solo per chiudere gli occhi ai figli e per suicidarsi essa stessa presso i loro corpi. I Tebani successivamente respingono gli assedianti nel loro ultimo assalto. Edipo, viene  a conoscenza del tutto dalle urla strazianti della figlia Antigone.

 

Creonte, per evitare ulteriori sciagure, vieta di seppellire Polinice, che aveva chiesto di essere sepolto in patria e spedisce Edipo in esilio accompagnato da Antigone che voleva seppellire il corpo del fratello.

In realtà né Eschilo né Euripide narrano i destini di Tideo, di Adrasto ed Anfiarao, che vengono presupposti come conosciuti dal mito. Adrasto, l'unico sopravvissuto degli Argivi, riesce a sfuggire alla morte grazie al suo cavallo divino Arione.

 

Anfiarao, sul suo carro guidato dall'auriga Baione, al momento di essere trafitto dal dardo di Periclimeno, sprofonda nelle viscere della terra, all’interno di una crepa, di una fessura aperta appositamente da Zeus, per impedire che il mago-guerriero perisca per mano di un mortale. Ancora vivo, il vate, si troverà nel regno degli inferi e il luogo dove questo evento avvenne, diverrà la sede oracolare ufficiale dell’indovino: Oropo.

 

Dati tecnici del rilievo frontonale

 

L’intero rilievo frontonale è composto dallo stesso tipo di argilla. Questa ha una consistenza sabbiosa micacea, con inclusi bianchi e a gradazione di grigi. L’argilla è anche di una composizione molto grassa, ossia è troppo pura per un lavoro di queste dimensioni, per questo gli artigiani che la mescolarono utilizzarono anche, come sostanza smagrante, terracotta polverizzata.

 

Il frontone fu un’opera impensabile: non solo venne concepito come disegno unitario, ma venne realizzato come unitario. In realtà venne utilizzato un’enorme base di argilla triangolare di poco inferiore ai 6.60 mq su cui vennero impostate le figure a rilievo con blocchi di argilla modellata sulla base piana.

 

Tuttavia il frontone è concepito in maniera del tutto rivoluzionaria per l’età classica e porta con se i primi venti ellenistici degli incontri macedoni con l’oriente. La sua composizione è basata su un gioco di sovrapposizioni prospettiche che tendono a dare profondità alla scena e al contempo a rendere differenti scene in differenti situazioni spazio-temporali.

 

Per questo la parte inferiore del frontone è rigonfiata, mentre quella inferiore tende ad essere leggermente concava in modo da formare un effetto ondulato impercettibile all’occhio umano, ma che diviene fondamentale nella disposizione "biplanimetrica", ossia su due piani.

 

Nulla è più evidente di un uso sapiente della sovrapposizione visiva, in cui le figure assumono la forma desiderata in base alle esigenze. E non solo. Al contrario della concezione propriamente greca le figure quando è necessario vengono addirittura ‘segate’ per far posto al piano successivo o precedente, tecnica ben conosciuta in ambito etrusco si dai tempi arcaici e che è ragionevolmente concepibile su bassorilievi in materiali duri (marmo, alabastro, travertino, nenfro, peperino) ma difficilmente immaginabile su materiali più duttili.

 

Dal frontone intero, al termine della sua realizzazione che dovette avvenire in un tempo relativamente breve, per via dell’essiccamento dell’argilla, vennero tagliate a fresco con una lama molto affilata, le 26 lastre che sembrano comporlo. Su ciascuna lastra si trova in genere una o un gruppo di due figure, la cui larghezza oscilla fra 39 e 63 cm, rispettivamente Edipo e carro di Adrasto, mentre l'altezza, tra i 52 e 73,5 cm (testa del cavallo di Adrasto).

 

I corpi e le teste delle figure sono vuoti e privi di sfiatatoi per la cottura con una o due pareti verticali di sostegno all'interno e realizzati a mano libera e tra loro contigui. Al contrario per le parti  a tuttotondo, come per le braccia o le zampe dei cavalli, sono state asportate prima della cottura e successivamente riunite con una grappa di piombo.

 

Prima della cottura, l’intera superficie venne spennellata con un composto costituito da argilla purissima finemente diluita con acqua. Poiché le singole lastre vennero cotte individualmente, differiscono nel colore che assume delle variazioni cromatiche che vanno dal grigio chiaro, al cinereo fino al rosso mattone.

 

Le figure erano completamente dipinte e ornate, quindi il colore della terracotta non influiva nel contesto. I colori utilizzati erano molto accesi ed estremamente vivi, paragonabili a quelli delle urne chiusine, anche se permangono davvero pochissime tracce di rosso, arancione, giallo e azzurro su base bianca.

 

Alcuni dei personaggi avevano degli ornamenti forse in differenti materiali (osso, pasta vitrea), ma le risultanze ci dicono che mancano sicuramente le briglie metalliche del palafreniere di Anfiarao e le spade metalliche nelle mani delle furie e dei guerrieri. Altri ornamenti o dettagli, forse dorati o argentati, erano eseguiti con piccoli grumi di terracotta più fina, come nel caso della barba di Anfiarao e sullo scudo isolato.

 

Una volta terminata la cottura le lastre vennero dipinte e adornate; disgiunte le une dalle altre erano fissate al gigantesco pannello ligneo, che componeva il background del frontone composto da una serie di assi probabilmente verticali, con 4 o 6 chiodi di ferro di cui ne è rimasto uno, come traccia solitaria, nel corpo dell'aiutante del fratello di destra.

 

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