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                          N. 12 - Maggio 2006 
                                  
                                  
                                  TALAMON/TELAMONE 
                                  
                                  Il tempio e la 
                                  battaglia – Parte III 
                          di 
                          Antonio Montesanti 
                            
                          
                          Evoluzione mitica 
                            
                          Se in Grecia, madre della storia e delle leggende, di Dei 
                          ed Eroi, il mito era immutabile, qualcosa di 
                          estremamente prefissato, in cui poteva variare una 
                          versione, ma non di certo la struttura stessa del 
                          racconto, in Etruria questi venne ad assumere una 
                          valenza differente che presso i Greci stessi. 
                           
                            
                          Ad oggi, in base alle testimonianze di tipo iconografico, 
                          possiamo affermare con assoluta certezza che gli 
                          Etruschi recepirono si il mito greco, ma che esso 
                          aveva un valore differente. Mentre per i Greci i miti, 
                          le narrazioni potevano essere qualcosa di prefissato, 
                          con caratteristiche peculiari e la cui narrazione 
                          veniva presa da spunto dagli artisti e probabilmente 
                          dalle persone che assistevano alle rappresentazioni 
                          teatrali in molteplici aspetti e forme di esso, tra 
                          gli etruschi il Mito sembra portare sempre unico ed 
                          inequivocabile messaggio.  
                            
                          La corrispondenza tra mito e apprendimento in Grecia 
                          corrisponde ad una serie di informazioni e messaggi di 
                          tipo ideale o empirico, mentre il mito greco in 
                          Etruria è fonte di un messaggio unidirezionale. 
                            
                          È per questo che gli artisti, manifatturieri o letterari, 
                          esplicarono in madrepatria il mito sotto una miriade 
                          di molteplici forme, spesso prendendo, nel caso 
                          dell’artista figurativo, un quantitativo notevole di 
                          episodi afferenti ad un unico mito e che spesso dei 
                          quali ne poteva rimanere nell’immaginario collettivo, 
                          famoso uno solamente. 
                            
                          Nelle rappresentazioni potevano variare i dettagli 
                          decorativi, lo svolgimento delle azioni, ma lo schema 
                          di base rimaneva per lo più inalterato. Estremamente 
                          difficile era, piuttosto, la possibilità che uno 
                          schema figurativo o epico del periodo arcaico venisse 
                          cambiato o rimosso. Al contrario, piuttosto comune era 
                          la possibilità che altri schemi ‘mitici’ venissero ad 
                          aggiungersi.  
                            
                          Ancora più variegato, invece, era il panorama che 
                          riguardava la schematizzazione del mito sotto il 
                          profilo letterario. 
                            
                          Al contrario del profilo artistico propriamente manuale lo 
                          schema è rappresentato dal mito medesimo e non da una 
                          sua immagine o da un momento, ma questa volta è lo 
                          schema il mito stesso sul quale costruire, prendendo 
                          dai meandri della mente umana, l’anima della 
                          narrazione. 
                            
                          Attorno alla guerra di Troia nacquero aggiunte, le stesse 
                          che nell’arte figurata diventavano struttura ma che in 
                          quella letteraria erano sovrastruttura, e questo lo 
                          sappiamo perché conosciamo e riconosciamo gli 
                          originali o quelle opere che ci sono state tramandate 
                          nella loro forma originaria. 
                            
                          Agli esordi del V secolo a.C., in uno slancio di coscienza 
                          comune, in seguito alla scongiurata invasione 
                          persiana, la Grecia ha un fremito culturale che già 
                          era iniziato proprio durante i tentativi d’invasione 
                          achemenidi.  
                            
                          Forse la necessità di rendere il popolo cosciente ed edotto 
                          dei fatti perché si rendesse partecipe attivo degli 
                          eventi modifica notevolmente la realtà del teatro 
                          greco.  
                            
                          Sappiamo che prima di questo periodo, ad Atene, già si 
                          svolgevano degli agoni teatrali, gare che 
                          rappresentassero atti scenici durante le feste 
                          Dionisie.  
                            
                          Dobbiamo pensare che ancora nel 534 a.C. anno in cui la 
                          vittoria venne assegnata a Tespi, considerato 
                          l’ideatore della tragedia moderna, le rappresentazioni 
                          che dovevano commuovere il pubblico, ossia 
                          coinvolgerlo, fossero ancora di tipo arcaico, 
                          embrionale, primitivo. Era ancora previsto un corteo 
                          composto di satiri e menadi che precedeva un coro che 
                          cantava intorno ad un'ara su cui veniva immolato un 
                          capro, animale sacro a Dioniso. 
                            
                          Tespi fu dunque il riformatore e ‘rivoluzionatore’ del 
                          teatro o dell’idea che prima se ne aveva, tanto da 
                          divenire una figura ‘semimitica’ e, se Tespi sta alla 
                          rivoluzione teatrale antica allora Eschilo, di un 
                          trentennio posteriore, sta alla rivoluzione stilistica 
                          teatrale. 
                            
                          In una calda sera del mese di Elafebolione (marzo-aprile) 
                          del 467 a.C., ad Attene, Eschilo riceve la corona 
                          d’ulivo per la vittoria nell’agone teatrale con la 
                          trilogia dedicata al ciclo tebano: I 'Sette contro 
                          Tebe', la più antica tragedia conservata, costituiva 
                          l’apoteosi, il picco, il frammento mancante, in cui le 
                          altre due il 'Laio' e l"Edipo', costituivano gli 
                          altari all’ultima, considerato un capolavoro 
                          indiscusso, corredato dal dramma satiresco 'La Sfinge'.
                           
                            
                          Il dramma di Edipo e l’incalzante e pietoso destino che 
                          perseguita lui, la sua famiglia e la sua stirpe e ci è 
                          consegnato dal passato dall'unica tragedia conservata, 
                          i 'Sette contro Tebe', appunto. 
                            
                          Per anni, i drammaturghi cercheranno nella rappresentazione 
                          delle sventure, preformulate dall'epos, di 
                          Edipo e dei suoi discendenti, una formula nuova che 
                          avesse potuto mandare un messaggio potente in grado di 
                          smuovere gli animi per far comprendere tramite questo 
                          sommovimento l’eventualità delle azioni umane 
                          rispetto, non più agli dei, ma al fato. 
                            
                          Come detto una struttura, che in questo caso ebbe la 
                          funzione di ‘schema’, venne riutilizzata e modificata 
                          nei contenuti successivamente dallo stesso Eschilo, 
                          che rispolverò il materiale mitologico per dargli una 
                          nuova veste cercando di condurre la tragedia 
                          all’esasperazione teatrale, nelle 'Supplici', in cui 
                          viene mosso uno dei temi, un altro ‘schema’, che per i 
                          Greci era il dramma più grande: il seppellimento delle 
                          persone care da parte dei figli, che supplicano, al 
                          pari di Priamo con Achille, affinché possano 
                          seppellire i padri. 
                            
                          Lo stesso Sofocle prenderà spunto dallo stesso mito: la sua 
                          'Antigone' prevarrà sulle altre tragedie concorrenti 
                          nel 440 a.C.; nel 430 a.C. scriverà l’‘Edipo re’ e 
                          tale e anta sarà la fortuna di quest’ultima che ancora 
                          nel 401 a.C. verrà rappresentata postuma alla morte 
                          del tragediografo l’‘Edipo a Colono’. 
                            
                          Euripide, narrando in maniera esemplare l’ineluttabilità 
                          della sorte, scriverà le ‘Fenicie’, che prende il nome 
                          dalle fanciulle, destinate al santuario di Apollo a 
                          Delfi, che costituiscono il coro. Rappresentata fra il 
                          411 ed il 408 a.C., viene considerata la tragedia del 
                          ciclo tebano più vicina al rilievo del frontone di 
                          Talamone, quanto secondo O.W.v. Vacano, Edipo è 
                          protagonista, vivendola nel momento in cui si compie, 
                          della sua maledizione sotto le mura della città di 
                          Tebe. 
                            
                          
                          Il mito 
                            
                          La saga o ciclo tebano narra che le premesse alla tragedia 
                          umana che si consumò sotto le mura di Tebe, capitale 
                          della Beozia, iniziarono in un periodo mitico “tre 
                          generazioni prima della guerra di Troia”. Laio, re di 
                          Tebe, si dannava l’anima perché non poteva avere figli 
                          ai quali lasciare il suo regno. Per questo si rivolse 
                          all’oracolo di Delfi, e interrogatolo rispose che se 
                          avesse voluto un discendente, Apollo lo avrebbe 
                          accontentato, ma che suo figlio sarebbe stato anche 
                          causa della sua morte perché lo avrebbe ucciso. 
                            
                          Non passò molto che Giocasta, moglie di Laio, partorì un 
                          maschio. Ricordandosi della predizione, Laio, per non 
                          commettere infanticidio, fece bucare i piedi del 
                          figlio, attraverso i quali venne legato nei boschi del 
                          monte Citerone ed esposto alle belve. Il piccolo venne 
                          trovato e tratto in salvo da un pastore, che gli dette 
                          nome Edipo (colui che ha i piedi gonfi) ed in seguito 
                          lo consegnò a Pòlibo, re di Corinto, il quale non 
                          aveva figli e per questo lo adottò e allevò come 
                          legittimo erede e successore al trono della città 
                          istmica. 
                            
                          Divenuto adulto Edipo venne a conoscenza del passato e per 
                          questo si recò a Delfi dove l’oracolo gli predisse le 
                          sue sventure: che avrebbe ucciso il padre, sposato la 
                          madre e generato dei figli che sarebbero stati suoi 
                          fratelli. Credendo che il dio si fosse riferito al suo 
                          presunto padre Pòlibo, Edipo si allontanò da Corinto 
                          per evitare il misfatto. 
                            
                          In quel periodo, Tebe era in balia della Sfinge, creatura 
                          mostruosa, figlia di Echidna e di Tifone o di Ortro e 
                          di Chimera, a seconda delle versioni, giunta in Beozia 
                          dall’Etiopia. Il suo corpo era un incrocio: la testa 
                          di donna corpo di leone, coda di serpente e ali di 
                          aquila. La Sfinge venne mandata nelle campagne tebane 
                          per punire gli abitanti della regione, perché Era, la 
                          moglie di Zeus era adirata con Laio, che aveva rapito 
                          il giovane Crisippo di Pisa. Risiedeva sul monte Ficio 
                          e a tutti i viaggiatori che incontrava poneva il suo 
                          quesito che aveva imparato dalle Muse: 
                            
                          
                          «Qual’è quell’essere, che ha una voce 
                          sola, che alla mattina ha quattro piedi, al pomeriggio 
                          con due e alla sera tre, e più sono ed è più debole 
                          quanti più ne ha?». 
                            
                          Chi non rispondeva veniva divorato sul posto. 
                            
                          Durante il suo esilio, lungo la strada tra Delfi e Tebe, 
                          Edipo incontrò il corteo di Laio, che si stava 
                          dirigendo in direzione opposta per chiedere consiglio 
                          ad Apollo perché lo liberasse dalla Sfinge. Laio che 
                          ovviamente non riconobbe il figlio, fece scansare lo 
                          straniero, al quale un cavallo del carro reale gli 
                          pestò un piede ed invece delle scuse ricevette anche 
                          una frustata. Preso dall’ira uccise tutti escluso un 
                          vecchio del corteo che tornò a Tebe raccontando il 
                          fatto ai concittadini. La prima parte della predizione 
                          si era avverata, Edipo aveva ucciso il padre. 
                            
                          Saputo l’accaduto, ossia che Laio era morto, i Tebani 
                          proposero che chi avesse sconfitto la Sfinge, 
                          risolvendo l'enigma, sarebbe divenuto re di Tebe e 
                          sposato la regina ormai vedova. 
                            
                          Edipo prima di giungere a Tebe s’imbatté nella Sfinge che 
                          anche a lui ripropose l'enigma. Edipo lo risolse 
                          immediatamente, rispondendo che era l’uomo l’essere a 
                          cui si riferiva il mostro, poiché: 
                            
                          
                          «Quando nasce cammina a carponi e 
                          quindi con quattro piedi; quando è nel fiore degli 
                          anni con due, e nella vecchiaia si aiuta con un 
                          bastone che è per lui il terzo piede». 
                            
                          Alla risposta la Sfinge si uccise gettandosi giù dal monte 
                          Ficio. 
                            
                          Una volta giunto in città, Edipo venne accolto come un eroe 
                          e Creonte, che faceva le veci del re, gli concesse il 
                          trono di Tebe ottenendo in premio la mano della vedova 
                          regina Giocasta. 
                            
                          La seconda parte dell'oracolo prendeva dunque forma: Edipo, 
                          inconsapevole, si era unito alla madre.
 
                          Ignari di essersi sposati a vicenda, figlio e madre, per 
                          quindici anni, sotto il loro regno fecero prosperare, 
                          amati, il popolo e il paese, generarono quattro figli 
                          gemelli a coppie, due maschi e due femmine: Eteocle, 
                          Polinice, Antigone, Ismene. 
                            
                          Tebe, fu afflitta allora da una tremenda pestilenza e per 
                          scacciare la quale venne consultato ancora una volta 
                          la Pizia a Delfi che rispose che l’uccisore di Laio 
                          doveva essere scacciato da Tebe, affinché il morbo 
                          cessasse. Ma non trovandolo, poiché Edipo non sapeva 
                          di ave ucciso il re di Tebe, venne interpellato 
                          l’indovino Tiresia che rivelò tutta la storia. 
                           
                            
                          Incredulo si rivolse ad un cortigiano di Corinto che oltre 
                          a metterlo al corrente della morte di Pòlibo, gli 
                          ricordò che lui era stato adottato. Giocasta, presente 
                          al dialogo si rese conto delle disgrazie che li 
                          attendevano. La coppia quindi si punì per il misfatto 
                          incognito: Giocasta si suicidò impiccandosi ed Edipo 
                          si tolse la vista con una fibbia dell’abito della 
                          moglie. 
                          La disperazione scese su Tebe; Edipo per un periodo 
                          visse da recluso, confortato dalle figlie ma dannato 
                          dai figli.
 
                            
                          Da questo punto inizia il collegamento diretto con il 
                          frontone di Talamone. 
                            
                          Quindi si svolse la diatriba su quale dei due figli dovesse 
                          succedere ad Edipo, e dopo diverse discussioni e 
                          soluzioni giunsero all’accordo di regnare un anno per 
                          uno; il primo che avrebbe regnato sarebbe stato 
                          Eteocle e l’anno successivo sarebbe toccato a Polinice 
                          che secondo gli accordi sarebbe dovuto rimanere 
                          lontano dalla città.
 
                          Nel frattempo Polinice si recò in esilio ad Argo con la 
                          speranza di sposare una delle due figlie del re della 
                          città Adrasto: Egia o Deipile. Anche Adrasto ricorse 
                          all’oracolo delfico per scegliere i mariti tra i 
                          pretendenti delle figlie e il responso divino fu il 
                          seguente: 
                            
                          «Aggioga a un carro a due ruote il cinghiale e il leone che 
                          combattono nel tuo palazzo». 
                            
                          Il cinghiale era rappresentato da Tideo di Calidone 
                          (simbolo della città) mentre il leone era quello 
                          tebano di Polinice che vennero “assegnati” 
                          rispettivamente a Deipile e ad Egia. 
                            
                          Passato l’anno, al momento di passare il trono di Tebe al 
                          fratello, Eteocle si rifiutò non rispettando gli 
                          accordi. 
                          Polinice, ormai genero di Adrasto, tornò nella città nella 
                          quale aveva passato il suo anno di esilio e si rivolse 
                          al re di Argo, il quale riunì tutti i capi argivi per 
                          una guerra contro lo spergiuro e l’ipocrita Eteocle. A 
                          Polinice si unirono immediatamente lo stesso Adrasto, 
                          Tideo, Capaneo, Ippomedonte, Partenope e per ultimo 
                          Anfiarao, cognato del re argivo, il quale aveva poteri 
                          da veggente e che si dimostrò riluttante poiché 
                          previde che la spedizione avrebbe avuto un esito 
                          infelice.
 
                          Lo scontro fratricida tra i figli/fratelli di Edipo (che 
                          torna di nuovo a Tebe per trovare un accordo) e 
                          l’indignazione, lo portarono Edipo a maledirli, 
                          dicendo che avrebbero dovuto dividersi il regno con le 
                          armi e, dopo aver benedetto Teseo e le proprie 
                          progenie, sprofondò nell’oltretomba. 
                            
                          Il frontone sembra riprendere un unico soggetto comune ai 
                          ‘Sette contro Tebe’ di Eschilo o alle ‘Fenicie’ di 
                          Euripide,il quale prendendo spunto dal suo 
                          predecessore, inizia descrivendo la situazione 
                          immediatamente precedente all’assalto alla rocca 
                          tebana. Ora, l’obbiettivo è il riconoscimento della 
                          tragedia dalla quale prese spunto il mito etrusco che 
                          si proietta nella coroplastica frontonale di Talamone, 
                          per un duplice motivo: cronologico e semantico. 
                            
                          
                          La versione del mito nei ‘Sette contro Tebe’ di 
                          Eschilo 
                            
                          La tragedia si apre con Anfiarao nell’inutile tentativo di 
                          dissuasione nei confronti di Adrasto, a partire per la 
                          spedizione poiché l’indovino conosceva l’esito della 
                          campagna. 
                          I sette di Argo giungono a Tebe e ognuno si dispone 
                          presso una porta perché l’assalti. Eteocle grazie ad 
                          un “gioco semantico” impresso sugli scudi degli 
                          attaccanti, pone ad ogni porta il giusto difensore.
 
                          Capaneo si scaglia violentemente contro la porta 
                          Elettra, di fronte a lui si trova Polifonte. 
                          Nell’impeto si vanta del fatto che neanche Zeus 
                          medesimo gli avrebbe impedito la scalata, il Dio, 
                          indispettito allora lo incenerisce con un fulmine.
 
                          Tideo nel tentativo di prendere la porta Pretide, 
                          viene ferito da Melanippo, posto a difesa di essa. 
                          Atena stava per soccorrere Tideo, ma Anfiarao, che 
                          odiava l’argivo suo compagno di battaglia perché li 
                          aveva spinti alla guerra, prevedendo che Atena 
                          l’avrebbe salvato, taglia con colpo di spada la testa 
                          di Melanippo, invitando Tideo a divorarne il cervello 
                          come segno di vendetta. La dea Atena accorsa a 
                          salvarlo, presa dal disgusto, lo lascia morire. Solo 
                          allora Anfiarao potè riprendere il posto presso la 
                          porta Omolea, che era difesa da Lastene.
 
                            
                          Presso le altre porte si affrontavano Adrasto e Megareo 
                          alla porta Neistana, Iperbio ad Ippomedonte alla 
                          Oncaide, Partenopeo ad Attore alla Borrea , mentre la 
                          settima e ultima porta, la Ipsistiana, era difesa 
                          direttamente da Eteocle al quale si contrappone 
                          direttamente Polinice. 
                            
                          Polinice propone al fratello di scontrarsi in una disfida 
                          singola in modo da porre fine al massacro. Eteocle 
                          accetta, i due si scontrano e si uccidono 
                          vicendevolmente e in questo modo si compie la 
                          maledizione invocata dal padre. 
                          I sopravvissuti argivi tentano un ultimo, disperato 
                          assalto alle mura di Tebe che resiste grazie alla 
                          prontezza dell’ultimo discendente di Cadmo, Creonte, 
                          fratello di Giocasta, che prende in mano le redini 
                          dello scontro conducendo alla morte tutti gli sfidanti 
                          esclusi Adrasto, che riesce a sfuggire al suo destino 
                          grazie al suo magico cavallo Arione, e Anfiarao, 
                          pronto ad abbandonare l’assedio, il quale quasi 
                          raggiunto dalle frecce nemiche durante la fuga, viene 
                          tratto in salvo da Zeus, il quale, riconoscendogli il 
                          valore delle armi, squarcia la terra che lo inghiotte 
                          con tutto il suo carro andando a regnare fra le ombre.
 
                            
                          Nell’ultimo atto Creonte prende la decisione che il corpo 
                          di Polinice sarebbe dovuto rimanere insepolto, poiché 
                          aveva portato guerra alla sua patria. Antigone, ignora 
                          gli ordini del nuovo re di Tebe e innalza una pira 
                          funebre per il fratello, compiendo così i riti 
                          funebri. Sorpresa, viene condannata ad essere sepolta 
                          viva. 
                            
                          
                          La versione del mito nelle ‘Fenicie’ di Euripide
                           
                            
                          L'esercito argivo opposto a quello tebano è accampato 
                          dinanzi alle mura della città cadmea. Giocasta (che 
                          nella versione euripidea non si uccide), attende 
                          Polinice, perché s’incontri con Eteocle, affinché i 
                          due trovino un accordo prima dello scontro finale. 
                          Questo è il tentativo per un’ultima soluzione 
                          diplomatica che non andrà a buon fine. Antigone, sugli 
                          spalti del palazzo,si fa indicare dal suo pedagogo i 
                          capi dell'esercito nemico. Nel palazzo siede affranto 
                          e accorato Edipo accecato. 
                            
                          Presso ognuna delle sette torri della città, presso la 
                          quale vi è una porta, gli assediati e gli assedianti 
                          si dispongono alla battaglia: ogni capo argivo si 
                          dispone davanti ad una porta della città pronto ad 
                          affrontare il suo antagonista argivo. 
                            
                          L'indovino Tiresia, scombussola la situazione predicendo a 
                          Creonte, fratello di Giocasta, che la città si salverà 
                          solo quando morirà l'ultimo discendente della stirpe 
                          di Cadmo: Meneceo, figlio di Creonte. Il fratello di 
                          Giocasta, fa propendere l'esito della battaglia ancor 
                          prima del suo inizio, gettandosi dalla torre più alta. 
                            
                          La battaglia infuria e questa viene narrata da un araldo a 
                          Giocasta dei suoi sviluppi.  
                            
                          Partenopeo viene ucciso con una pietra scagliata dalle mura 
                          dal difensore Periclimeno, Capaneo pronuncia un 
                          proclama di immortalità (“Neppure la potenza della 
                          folgore Zeus può trattenermi!”) prima d’inerpicarsi 
                          con l’ausilio di una scala d'assalto da lui inventata 
                          e venire abbattuto dal fulmine divino; Eteocle, per 
                          evitare altro spargimento di sangue, propone al 
                          fratello una sfida ad due decisiva per l'intera 
                          battaglia. Giocasta tenta di gettarsi tra i due 
                          contendenti nel vano tentativo di poterli fermare. 
                            
                          Terminato lo scontro con la lancia, i due passano alle 
                          spade. Eteocle retrocede la gamba sinistra per 
                          spronare il fratello a scoprirsi nel tentativo di 
                          ferirlo, per poi inferirgli un rapido colpo mortale 
                          nel bacino. Eteocle vincitore, spoglia il fratello 
                          delle armi e ancor prima di esultare, Polinice, con le 
                          ultime forze, lo trafigge con un fendente alla gola.
                           
                            
                          Giocasta, con Antigone, raggiunge il luogo dello scontro 
                          solo per chiudere gli occhi ai figli e per suicidarsi 
                          essa stessa presso i loro corpi. I Tebani 
                          successivamente respingono gli assedianti nel loro 
                          ultimo assalto. Edipo, viene  a conoscenza del tutto 
                          dalle urla strazianti della figlia Antigone. 
                           
                            
                          Creonte, per evitare ulteriori sciagure, vieta di 
                          seppellire Polinice, che aveva chiesto di essere 
                          sepolto in patria e spedisce Edipo in esilio 
                          accompagnato da Antigone che voleva seppellire il 
                          corpo del fratello. 
                          In 
                          realtà né Eschilo né Euripide narrano i destini di 
                          Tideo, di Adrasto ed Anfiarao, che vengono presupposti 
                          come conosciuti dal mito. Adrasto, l'unico 
                          sopravvissuto degli Argivi, riesce a sfuggire alla 
                          morte grazie al suo cavallo divino Arione.   
                          
                          Anfiarao, sul suo carro guidato dall'auriga Baione, al 
                          momento di essere trafitto dal dardo di Periclimeno, 
                          sprofonda nelle viscere della terra, all’interno di 
                          una crepa, di una fessura aperta appositamente da 
                          Zeus, per impedire che il mago-guerriero perisca per 
                          mano di un mortale. Ancora vivo, il vate, si troverà 
                          nel regno degli inferi e il luogo dove questo evento 
                          avvenne, diverrà la sede oracolare ufficiale 
                          dell’indovino: Oropo.   
                          
                          Dati tecnici del rilievo frontonale 
                            
                          L’intero rilievo frontonale è composto dallo stesso tipo di 
                          argilla. Questa ha una consistenza sabbiosa micacea, 
                          con inclusi bianchi e a gradazione di grigi. L’argilla 
                          è anche di una composizione molto grassa, ossia è 
                          troppo pura per un lavoro di queste dimensioni, per 
                          questo gli artigiani che la mescolarono utilizzarono 
                          anche, come sostanza smagrante, terracotta 
                          polverizzata. 
                            
                          Il frontone fu un’opera impensabile: non solo venne 
                          concepito come disegno unitario, ma venne realizzato 
                          come unitario. In realtà venne utilizzato un’enorme 
                          base di argilla triangolare di poco inferiore ai 6.60 
                          mq su cui vennero impostate le figure a rilievo con 
                          blocchi di argilla modellata sulla base piana. 
                           
                            
                          Tuttavia il frontone è concepito in maniera del tutto 
                          rivoluzionaria per l’età classica e porta con se i 
                          primi venti ellenistici degli incontri macedoni con 
                          l’oriente. La sua composizione è basata su un gioco di 
                          sovrapposizioni prospettiche che tendono a dare 
                          profondità alla scena e al contempo a rendere 
                          differenti scene in differenti situazioni 
                          spazio-temporali. 
                            
                          Per questo la parte inferiore del frontone è rigonfiata, 
                          mentre quella inferiore tende ad essere leggermente 
                          concava in modo da formare un effetto ondulato 
                          impercettibile all’occhio umano, ma che diviene 
                          fondamentale nella disposizione "biplanimetrica", 
                          ossia su due piani. 
                            
                          Nulla è più evidente di un uso sapiente della 
                          sovrapposizione visiva, in cui le figure assumono la 
                          forma desiderata in base alle esigenze. E non solo. Al 
                          contrario della concezione propriamente greca le 
                          figure quando è necessario vengono addirittura 
                          ‘segate’ per far posto al piano successivo o 
                          precedente, tecnica ben conosciuta in ambito etrusco 
                          si dai tempi arcaici e che è ragionevolmente 
                          concepibile su bassorilievi in materiali duri (marmo, 
                          alabastro, travertino, nenfro, peperino) ma 
                          difficilmente immaginabile su materiali più duttili. 
                            
                          Dal frontone intero, al termine della sua realizzazione che 
                          dovette avvenire in un tempo relativamente breve, per 
                          via dell’essiccamento dell’argilla, vennero tagliate a 
                          fresco con una lama molto affilata, le 26 lastre che 
                          sembrano comporlo. Su ciascuna lastra si trova in 
                          genere una o un gruppo di due figure, la cui larghezza 
                          oscilla fra 39 e 63 cm, rispettivamente Edipo e carro 
                          di Adrasto, mentre l'altezza, tra i 52 e 73,5 cm 
                          (testa del cavallo di Adrasto).  
                            
                          I corpi e le teste delle figure sono vuoti e privi di 
                          sfiatatoi per la cottura con una o due pareti 
                          verticali di sostegno all'interno e realizzati a mano 
                          libera e tra loro contigui. Al contrario per le parti  
                          a tuttotondo, come per le braccia o le zampe dei 
                          cavalli, sono state asportate prima della cottura e 
                          successivamente riunite con una grappa di piombo. 
                            
                          Prima della cottura, l’intera superficie venne spennellata 
                          con un composto costituito da argilla purissima 
                          finemente diluita con acqua. Poiché le singole lastre 
                          vennero cotte individualmente, differiscono nel colore 
                          che assume delle variazioni cromatiche che vanno dal 
                          grigio chiaro, al cinereo fino al rosso mattone. 
                            
                          Le figure erano completamente dipinte e ornate, quindi il 
                          colore della terracotta non influiva nel contesto. I 
                          colori utilizzati erano molto accesi ed estremamente 
                          vivi, paragonabili a quelli delle urne chiusine, anche 
                          se permangono davvero pochissime tracce di rosso, 
                          arancione, giallo e azzurro su base bianca. 
                            
                          Alcuni dei personaggi avevano degli ornamenti forse in 
                          differenti materiali (osso, pasta vitrea), ma le 
                          risultanze ci dicono che mancano sicuramente le 
                          briglie metalliche del palafreniere di Anfiarao e le 
                          spade metalliche nelle mani delle furie e dei 
                          guerrieri. Altri ornamenti o dettagli, forse dorati o 
                          argentati, erano eseguiti con piccoli grumi di 
                          terracotta più fina, come nel caso della barba di 
                          Anfiarao e sullo scudo isolato.  
                            
                          Una volta terminata la cottura le lastre vennero dipinte e 
                          adornate; disgiunte le une dalle altre erano fissate 
                          al gigantesco pannello ligneo, che componeva il 
                          background del frontone composto da una serie di assi 
                          probabilmente verticali, con 4 o 6 chiodi di ferro di 
                          cui ne è rimasto uno, come traccia solitaria, nel 
                          corpo dell'aiutante del fratello di destra. |