[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 215 / NOVEMBRE 2025 (CCXLVI)


ambiente

IL TACCHINO E LA SUA simbologia
CREDENZE, TRADIZIONI E USI

di Giulia Cesarini Argiroffo

 

“Tacchino” è il nome comune d’un Uccello Galliforme. Di solito si classificano la specie del tacchino selvatico e quella del tacchino ocellato; i tacchini domestici derivano da quello selvatico.

Attualmente oltre a quelli d’allevamento, alcuni esemplari vivono in libertà in America del Nord e Centrale, soprattutto nei boschi e in mini-gruppi.

 

In generale, in natura, il tacchino ha una corporatura robusta ma struttura snella; ha ali corte con cui può volare e ha abitudini diurne. Presenta due forti zampe dalle unghie appuntite e un becco breve, robusto, arcuato e adatto a frugare il terreno. Si nutre d’insetti, invertebrati e vegetali. La testa e la parte superiore del collo è priva di penne e bitorzoluta. Nei maschi dalla mascella al becco pende un’escrescenza carnosa conica, collegata alla fronte, che quand’è contratta è erettile mentre negli altri casi è flaccida e pendula. Le caruncole del collo, meno vistoso nella femmina, cambiano colore con lo stato d’eccitazione.

Nel corteggiamento i maschi camminano affiancati, impettititi e compiono una parata esibizionistica in cui trascinano a terra le rigide penne delle ali mentre la coda pennuta è dritta e aperta a ventaglio. Tra loro sono molto aggressivi per conquistare un piccolo harem di femmine. Quest’ultime depongono le uova in buche scavate nel terreno, le covano e poi allevano la prole.

Di solito è la femmina a scegliere il compagno e non si creano legami durevoli. Quand’è pronta per l’accoppiamento prende lei l’iniziativa prostrandosi alle zampe del maschio.

 

Il tacchino selvatico ha di solito il capo color rosso pallido con sfumature azzurre e verruche rosso intenso; il collo, rosso pallido, verso la gola ha un barbaglio. I maschi hanno zampe munite di un robusto sperone e alcune penne nere nella parte anteriore del petto sono simili a setole, talvolta lunghe e sporgenti, inoltre questi hanno dimensioni maggiori delle femmine e un piumaggio più vivace – in gran parte bronzeo e con riflessi verdi, purpurei o dorati.

 

Il raro tacchino ocellato ha un piumaggio molto decorativo. Attualmente questa specie è gravemente compromessa dalla caccia, vive solo nelle foreste dell’America Centrale e non è adatto alla cattività. Il piumaggio è verde-bronzo, il capo e il collo sono blu brillante, punteggiati d’escrescenze rosso-arancione e un cerchio carnoso rosso circonda gli occhi. La sua maggior caratteristica – che ne conferisce il nome – è quella d’avere grandi ocelli verdi-azzurri sulla coda. Inoltre i maschi sulla testa presentano una corona blu con piccole verruche gialle.

 

Il tacchino è originario dell’America Precolombiana Centro-Nord dove si cacciava fin dall’Antichità. Le popolazione indigene, soprattutto gli Aztechi, molto presto l’allevarono e l’addomesticarono ma continuavano a esserci anche esemplari allo stato brado. Le popolazioni precolombiane lo mangiavano e lo sacrificavano agli dei.

In particolare per gli Aztechi il tacchino rappresentava uno degli attributi del dio Tezcatlipoca, ch’incarnava l’oscuro potere dell’istinto che prorompe dall’inconscio e considerato il “guerriero primordiale”. Era il dio che dominava il ciclo di tredici giorni del calendario azteco e controllava gli eventi legati alla guerra e ai sacrifici umani. Gli Aztechi facevano molti sacrifici per ingraziarsi Tezcatlipoca e quindi assicurarsi la vittoria in battaglia, il mantenimento del loro popolo e della loro cultura.

Inoltre l’europeo Bernardino de Sahagún riportava nel 1582 che il tacchino, detto in Messico guajolote, dal nahuatl “huexólotl”, serviva agli Aztechi anche in un’operazione di magia nera. Nello specifico, scriveva: “Quelli che odiano altri danno loro da mangiare o da bere la prominenza carnosa flaccida che i guajolote hanno sul becco affinché non possa usare il membro gentile”.

 

In breve nelle tradizioni degli indigeni dell’America Centro-Nord ispirava un duplice simbolismo. Infatti da un lato il suo collo che si gonfia evocava l’erezione fallica e di conseguenza la potenza virile. Dall’altro, essendo uno degli uccelli più prolifici riportava alla fecondità materna.

 

Ad esempio un mito dei nativi nordamericani Pawnee narrava che un tempo i bastoni piumati del rito Hako si adornavano con penne di tacchino il quale si considerava un uccello solare, il sovrano del giorno. Si raccontava che inizialmente il tacchino era uno dei protettori dei figli di tutti gli abitanti della terra, questo perché era uno degli uccelli che producevano più uova. Il picchio però reclamò tale ruolo adducendo al fatto che lui deponeva meno uova ma i suoi piccoli avevano maggiori possibilità di raggiungere l’età adulta e perfino la vecchiaia. Infatti crescevano più al sicuro nel suo nido che si trovava nel cuore di un’alta quercia mentre quello del tacchino era a terra dove erano maggiori le possibilità che i predatori mangiassero i suoi piccoli e che quindi morissero senza mai diventare adulti.

Tale argomentazione fu così convincente che il picchio, che in seguito fu a sua volta deposto dall’aquila bruna, prevalse sul tacchino. A quest’ultimo però, per compensarlo della sua detronizzazione, fu comunque riservato un posto importante, quello sui bastoni utilizzati nel rito cerimoniale. Questi avevano lo scopo di vigilare sul sentiero percorso dall’aiuto soprannaturale che si concedeva agli esseri umani grazie al rito Hako, ponte fra l’uomo e ciò che lo trascende.

 

Dopo la scoperta delle Americhe i coloni europei introdussero il tacchino in tutto il continente e in Europa.

I conquistadores ne trovarono una specie addomesticata, una selvatica e quella più rara dell’ocellato, pregiatissima per lo splendore delle penne e che viveva allo stato brado nelle foreste del Chiapas. Gli occidentali associarono il tacchino al pavone infatti entrambi facevano la ruota e avevano altre somiglianze. Ciò indusse gli spagnoli a chiamare popolarmente questi animali con lo stesso nome “pavo” ma per distinguerli, aggiunsero l’aggettivo “real” al pavone.

 

La prima descrizione del tacchino si ha con Colombo, che l’incontrò nel suo quarto viaggio in Honduras. In una relazione ai sovrani di Spagna del 7 Luglio 1503 ne parlava come di “un grandissimo uccello con piume di lana”. A sua volta nel 1522 Hernán Cortés, nelle “Cartes y relaciones” inviate all’imperatore Carlo V e pubblicate nel 1522 a Saragozza scriveva: “Essi allevano molte galline che sono come quelle della terra ferma e che sono grosse come pavoni”.

 

Il primo punto d’approdo in Europa del tacchino fu naturalmente la Spagna, da cui poi si diffuse in tutto il continente.

La prima testimonianza della sua presenza in Europa si data il 24 Ottobre 1511 e s’accompagna con la firma e il sigillo del Vescovo di Valencia, ch’ordinò alle navi provenienti dalle Antille Occidentali di trasportare da Siviglia dieci tacchini da riproduzione, maschi e femmine. A questa seguì una nota del 30 Settembre 1512 in cui se ne registrava l’arrivo di due esemplari in Spagna. La sua diffusione in Europa fu molto rapida.

 

Furono però soprattutto i gesuiti che l’allevarono nel centro di Bruges, chiamandolo coq d’Indie, cioè “gallo d’India” – termine ch’apparve anche in italiano – ma popolarmente si soprannominò “gesuita”, in seguito in francese diventò dindon o dinde. Nel 1525 il tacchino apparì in Inghilterra forse tramite dei commercianti turchi e per questa ragione in inglese lo chiamarono “turkey bird” o “turckey”, nome che ha tutt’oggi. Invece i turchi, che ne conoscevano vagamente l’origine, lo chiamarono “peru”, situandolo quindi nell’America del Sud. In italiano il termine “tacchino” non si sa da quale radice etimologica derivi. Scappi Latini e Cervio nei loro ricettari del XV e XVI secolo lo chiamavano ancora “gallo d’India” ma quest’ignoranza sull’origine del termine non ne sminuiva il sapore, gli elogi e il successo gastronomico nei banchetti signorili.

Le prime ricette culinarie con il tacchino provengono da Remoli nel suo “Poemetto”, pubblicato nel 1560.

 

Il primo ritratto di questo animale lo fece il pittore olandese Joachim Beuckelaer verso la metà del XVI secolo, dipinto che oggi si conserva al Rijksmuseum di Amsterdam. In seguito le rappresentazioni sui tacchini abbondano, poiché i suoi colori piacevoli e le sue forme eccentriche catturano l’interesse dei pittori e dei letterati.

 

Tra il 1553 e il 1570 s’approvarono leggi suntuarie che proibivano il consumo di questo animale a Bologna, Forlì, Roma, Venezia, Parma, Modena e Firenze.

Quando oggigiorno si comincia a leggere le ricette si capisce la ragione che portò all’epoca all’emanazione di tali leggi. Infatti si diceva che il tacchino andava disossato e farcito con ripieno di vitello, fette di prosciutto, tartufi e funghi o con gnocchi cotti in brodo e conditi con parmigiano, salsicce di maiale, prosciutto, burro, cipolle, ragù e spezie. Inoltre si poteva preparare infilato sulla griglia, avendo cura di avvolgerlo in un piccolo strato di lardo e prosciutto, infarcendolo anche con altri uccelli, rene di vitello, foglie di salvia e capperi e una pioggia di spezie. Si considerava una prelibatezza da principi ma non per stomaci deboli né per le modeste economie familiari.

 

Nella cucina europea gradualmente il tacchino soppiantò il pavone perché le sue carni erano più tenere e abbondanti anche grazie alla sua maggiore mole. In particolare nel Nord Europa, soprattutto in Inghilterra, diventò il cibo rituale per il giorno di Natale. Così in quell’occasione assunse la funzione simbolica della luce che si rinnova con il Solstizio d’Inverno, grazie alla ruota che a sua volta evoca un simbolismo solare, come per il pavone.

 

I primi colonizzatori puritani inglesi detti “Padri pellegrini” che giunsero in America a Plymouth Rock, nel Massachusetts, sul Mayflower nel 1620 quando approdarono, trovarono gli indigeni ospitali che li accolsero cucinando loro proprio un tacchino ripieno di mais.

L’anno successivo i Padri pellegrini per celebrare il primo raccolto e ricordare l’anniversario del primo sbarco, memori dell’ospitalità degli indigeni, organizzarono un banchetto a base di quattro tacchini selvatici. Tale ricorrenza si cominciò a celebrare tutti gli anni. Così questo animale divenne il cibo tradizionale della festa celebrata negli USA in occasione del cosiddetto “Giorno del Ringraziamento”, o popolarmente detta “La Festa del tacchino”, che cade l’ultimo giovedì di novembre.

 

Tuttavia quest’animale giunse troppo tardi per ispirare nella fantasia degli europei miti e simboli. Ci si limitò piuttosto a creare alcune similitudini, come per esempio “Diventare rosso come un tacchino”, cioè arrossire violentemente, come il rosso vivo che assumono spesso i bargigli di questo animale. “Pare un tacchino quando fa la ruota” per irridere una persona vanitosa. Quest’ultima espressione è analoga al “pavoneggiarsi” del suo cugino euroasiatico. Con la gallina, invece, condivide un’altra espressione di chiara impronta maschilista, “cervello di tacchina” e riferito a persone, specie una ragazza o una donna, di corto cervello e poco giudizio.

 

Attualmente nella simbologia il tacchino che gonfia il collo è un simbolo fallico, virile.

In senso generale la tacchina è simbolo di fecondità e di maternità.

Vedere in sogno una tacchina o mangiarne una è segno di agiatezza e di felicità.

Per una donna sognare una tacchina può annunciare una situazione confusa.

In sogno sentirsi “dare della tacchina” mantiene lo stesso significato che ha nella realtà.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Aleotti, Attilio Angelo, Le Caravelle dell’abbondanza, Robin Edizioni, Torino 2022

Cattabiani, Alfredo, Volario, Mondadori Editore, Milano 2022.

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Coupal, Marie, I simboli dei sogni. Analisi psicologica, psicoanalitica, esoterica e mitologica, Il Punto d’Incontro Editore, Vicenza 2000.

Heike, Owusu, Simboli Maya, Inca e Aztechi, Il Punto d’Incontro Editore, Vicenza 2003.

Montanari, Massimo, Il cibo come cultura, Laterza Editore, Bari-Roma 2004.

Peterson Tory Roger e Redattori di Life, Gli Uccelli, Mondadori Editore, Milano 1965.

Ridolfi, Pierluigi, Rinascimento a tavola. La cucina e il banchetto nelle corti italiane, Donzelli Editore, Roma 2015.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]