IL
TACCHINO E LA SUA
simbologia
CREDENZE, TRADIZIONI E USI
di Giulia
Cesarini Argiroffo
“Tacchino” è il nome comune d’un
Uccello Galliforme. Di solito si
classificano la specie del tacchino
selvatico e quella del tacchino
ocellato; i tacchini domestici
derivano da quello selvatico.
Attualmente oltre a quelli
d’allevamento, alcuni esemplari
vivono in libertà in America del
Nord e Centrale, soprattutto nei
boschi e in mini-gruppi.
In generale, in natura, il tacchino
ha una corporatura robusta ma
struttura snella; ha ali corte con
cui può volare e ha abitudini
diurne. Presenta due forti zampe
dalle unghie appuntite e un becco
breve, robusto, arcuato e adatto a
frugare il terreno. Si nutre
d’insetti, invertebrati e vegetali.
La testa e la parte superiore del
collo è priva di penne e
bitorzoluta. Nei maschi dalla
mascella al becco pende
un’escrescenza carnosa conica,
collegata alla fronte, che quand’è
contratta è erettile mentre negli
altri casi è flaccida e pendula. Le
caruncole del collo, meno vistoso
nella femmina, cambiano colore con
lo stato d’eccitazione.
Nel corteggiamento i maschi
camminano affiancati, impettititi e
compiono una parata esibizionistica
in cui trascinano a terra le rigide
penne delle ali mentre la coda
pennuta è dritta e aperta a
ventaglio. Tra loro sono molto
aggressivi per conquistare un
piccolo harem di femmine.
Quest’ultime depongono le uova in
buche scavate nel terreno, le covano
e poi allevano la prole.
Di solito è la femmina a scegliere
il compagno e non si creano legami
durevoli. Quand’è pronta per
l’accoppiamento prende lei
l’iniziativa prostrandosi alle zampe
del maschio.
Il tacchino selvatico ha di solito
il capo color rosso pallido con
sfumature azzurre e verruche rosso
intenso; il collo, rosso pallido,
verso la gola ha un barbaglio. I
maschi hanno zampe munite di un
robusto sperone e alcune penne nere
nella parte anteriore del petto sono
simili a setole, talvolta lunghe e
sporgenti, inoltre questi hanno
dimensioni maggiori delle femmine e
un piumaggio più vivace – in gran
parte bronzeo e con riflessi verdi,
purpurei o dorati.
Il raro tacchino ocellato ha un
piumaggio molto decorativo.
Attualmente questa specie è
gravemente compromessa dalla caccia,
vive solo nelle foreste dell’America
Centrale e non è adatto alla
cattività. Il piumaggio è
verde-bronzo, il capo e il collo
sono blu brillante, punteggiati
d’escrescenze rosso-arancione e un
cerchio carnoso rosso circonda gli
occhi. La sua maggior caratteristica
– che ne conferisce il nome – è
quella d’avere grandi ocelli
verdi-azzurri sulla coda. Inoltre i
maschi sulla testa presentano una
corona blu con piccole verruche
gialle.
Il tacchino è originario
dell’America Precolombiana
Centro-Nord dove si cacciava fin
dall’Antichità. Le popolazione
indigene, soprattutto gli Aztechi,
molto presto l’allevarono e
l’addomesticarono ma continuavano a
esserci anche esemplari allo stato
brado. Le popolazioni precolombiane
lo mangiavano e lo sacrificavano
agli dei.
In particolare per gli Aztechi il
tacchino rappresentava uno degli
attributi del dio Tezcatlipoca,
ch’incarnava l’oscuro potere
dell’istinto che prorompe
dall’inconscio e considerato il
“guerriero primordiale”. Era il dio
che dominava il ciclo di tredici
giorni del calendario azteco e
controllava gli eventi legati alla
guerra e ai sacrifici umani. Gli
Aztechi facevano molti sacrifici per
ingraziarsi Tezcatlipoca e quindi
assicurarsi la vittoria in
battaglia, il mantenimento del loro
popolo e della loro cultura.
Inoltre l’europeo Bernardino de
Sahagún riportava nel 1582 che il
tacchino, detto in Messico
guajolote, dal nahuatl “huexólotl”,
serviva agli Aztechi anche in
un’operazione di magia nera. Nello
specifico, scriveva: “Quelli che
odiano altri danno loro da mangiare
o da bere la prominenza carnosa
flaccida che i guajolote hanno sul
becco affinché non possa usare il
membro gentile”.
In breve nelle tradizioni degli
indigeni dell’America Centro-Nord
ispirava un duplice simbolismo.
Infatti da un lato il suo collo che
si gonfia evocava l’erezione fallica
e di conseguenza la potenza virile.
Dall’altro, essendo uno degli
uccelli più prolifici riportava alla
fecondità materna.
Ad esempio un mito dei nativi
nordamericani Pawnee narrava che un
tempo i bastoni piumati del rito
Hako si adornavano con penne di
tacchino il quale si considerava un
uccello solare, il sovrano del
giorno. Si raccontava che
inizialmente il tacchino era uno dei
protettori dei figli di tutti gli
abitanti della terra, questo perché
era uno degli uccelli che
producevano più uova. Il picchio
però reclamò tale ruolo adducendo al
fatto che lui deponeva meno uova ma
i suoi piccoli avevano maggiori
possibilità di raggiungere l’età
adulta e perfino la vecchiaia.
Infatti crescevano più al sicuro nel
suo nido che si trovava nel cuore di
un’alta quercia mentre quello del
tacchino era a terra dove erano
maggiori le possibilità che i
predatori mangiassero i suoi piccoli
e che quindi morissero senza mai
diventare adulti.
Tale argomentazione fu così
convincente che il picchio, che in
seguito fu a sua volta deposto
dall’aquila bruna, prevalse sul
tacchino. A quest’ultimo però, per
compensarlo della sua
detronizzazione, fu comunque
riservato un posto importante,
quello sui bastoni utilizzati nel
rito cerimoniale. Questi avevano lo
scopo di vigilare sul sentiero
percorso dall’aiuto soprannaturale
che si concedeva agli esseri umani
grazie al rito Hako, ponte fra
l’uomo e ciò che lo trascende.
Dopo la scoperta delle Americhe i
coloni europei introdussero il
tacchino in tutto il continente e in
Europa.
I conquistadores ne trovarono una
specie addomesticata, una selvatica
e quella più rara dell’ocellato,
pregiatissima per lo splendore delle
penne e che viveva allo stato brado
nelle foreste del Chiapas. Gli
occidentali associarono il tacchino
al pavone infatti entrambi facevano
la ruota e avevano altre
somiglianze. Ciò indusse gli
spagnoli a chiamare popolarmente
questi animali con lo stesso nome
“pavo” ma per distinguerli,
aggiunsero l’aggettivo “real” al
pavone.
La prima descrizione del tacchino si
ha con Colombo, che l’incontrò nel
suo quarto viaggio in Honduras. In
una relazione ai sovrani di Spagna
del 7 Luglio 1503 ne parlava come di
“un grandissimo uccello con piume di
lana”. A sua volta nel 1522 Hernán
Cortés, nelle “Cartes y relaciones”
inviate all’imperatore Carlo V e
pubblicate nel 1522 a Saragozza
scriveva: “Essi allevano molte
galline che sono come quelle della
terra ferma e che sono grosse come
pavoni”.
Il primo punto d’approdo in Europa
del tacchino fu naturalmente la
Spagna, da cui poi si diffuse in
tutto il continente.
La prima testimonianza della sua
presenza in Europa si data il 24
Ottobre 1511 e s’accompagna con la
firma e il sigillo del Vescovo di
Valencia, ch’ordinò alle navi
provenienti dalle Antille
Occidentali di trasportare da
Siviglia dieci tacchini da
riproduzione, maschi e femmine. A
questa seguì una nota del 30
Settembre 1512 in cui se ne
registrava l’arrivo di due esemplari
in Spagna. La sua diffusione in
Europa fu molto rapida.
Furono però soprattutto i gesuiti
che l’allevarono nel centro di
Bruges, chiamandolo coq d’Indie,
cioè “gallo d’India” – termine
ch’apparve anche in italiano – ma
popolarmente si soprannominò
“gesuita”, in seguito in francese
diventò dindon o dinde.
Nel 1525 il tacchino apparì in
Inghilterra forse tramite dei
commercianti turchi e per questa
ragione in inglese lo chiamarono
“turkey bird” o “turckey”, nome che
ha tutt’oggi. Invece i turchi, che
ne conoscevano vagamente l’origine,
lo chiamarono “peru”, situandolo
quindi nell’America del Sud. In
italiano il termine “tacchino” non
si sa da quale radice etimologica
derivi. Scappi Latini e Cervio nei
loro ricettari del XV e XVI secolo
lo chiamavano ancora “gallo d’India”
ma quest’ignoranza sull’origine del
termine non ne sminuiva il sapore,
gli elogi e il successo gastronomico
nei banchetti signorili.
Le prime ricette culinarie con il
tacchino provengono da Remoli nel
suo “Poemetto”, pubblicato nel 1560.
Il primo ritratto di questo animale
lo fece il pittore olandese Joachim
Beuckelaer verso la metà del XVI
secolo, dipinto che oggi si conserva
al Rijksmuseum di Amsterdam. In
seguito le rappresentazioni sui
tacchini abbondano, poiché i suoi
colori piacevoli e le sue forme
eccentriche catturano l’interesse
dei pittori e dei letterati.
Tra il 1553 e il 1570 s’approvarono
leggi suntuarie che proibivano il
consumo di questo animale a Bologna,
Forlì, Roma, Venezia, Parma, Modena
e Firenze.
Quando oggigiorno si comincia a
leggere le ricette si capisce la
ragione che portò all’epoca
all’emanazione di tali leggi.
Infatti si diceva che il tacchino
andava disossato e farcito con
ripieno di vitello, fette di
prosciutto, tartufi e funghi o con
gnocchi cotti in brodo e conditi con
parmigiano, salsicce di maiale,
prosciutto, burro, cipolle, ragù e
spezie. Inoltre si poteva preparare
infilato sulla griglia, avendo cura
di avvolgerlo in un piccolo strato
di lardo e prosciutto, infarcendolo
anche con altri uccelli, rene di
vitello, foglie di salvia e capperi
e una pioggia di spezie. Si
considerava una prelibatezza da
principi ma non per stomaci deboli
né per le modeste economie
familiari.
Nella cucina europea gradualmente il
tacchino soppiantò il pavone perché
le sue carni erano più tenere e
abbondanti anche grazie alla sua
maggiore mole. In particolare nel
Nord Europa, soprattutto in
Inghilterra, diventò il cibo rituale
per il giorno di Natale. Così in
quell’occasione assunse la funzione
simbolica della luce che si rinnova
con il Solstizio d’Inverno, grazie
alla ruota che a sua volta evoca un
simbolismo solare, come per il
pavone.
I primi colonizzatori puritani
inglesi detti “Padri pellegrini” che
giunsero in America a Plymouth Rock,
nel Massachusetts, sul Mayflower nel
1620 quando approdarono, trovarono
gli indigeni ospitali che li
accolsero cucinando loro proprio un
tacchino ripieno di mais.
L’anno successivo i Padri pellegrini
per celebrare il primo raccolto e
ricordare l’anniversario del primo
sbarco, memori dell’ospitalità degli
indigeni, organizzarono un banchetto
a base di quattro tacchini
selvatici. Tale ricorrenza si
cominciò a celebrare tutti gli anni.
Così questo animale divenne il cibo
tradizionale della festa celebrata
negli USA in occasione del
cosiddetto “Giorno del
Ringraziamento”, o popolarmente
detta “La Festa del tacchino”, che
cade l’ultimo giovedì di novembre.
Tuttavia quest’animale giunse troppo
tardi per ispirare nella fantasia
degli europei miti e simboli. Ci si
limitò piuttosto a creare alcune
similitudini, come per esempio
“Diventare rosso come un tacchino”,
cioè arrossire violentemente, come
il rosso vivo che assumono spesso i
bargigli di questo animale. “Pare un
tacchino quando fa la ruota” per
irridere una persona vanitosa.
Quest’ultima espressione è analoga
al “pavoneggiarsi” del suo cugino
euroasiatico. Con la gallina,
invece, condivide un’altra
espressione di chiara impronta
maschilista, “cervello di tacchina”
e riferito a persone, specie una
ragazza o una donna, di corto
cervello e poco giudizio.
Attualmente nella simbologia il
tacchino che gonfia il collo è un
simbolo fallico, virile.
In senso generale la tacchina è
simbolo di fecondità e di maternità.
Vedere in sogno una tacchina o
mangiarne una è segno di agiatezza e
di felicità.
Per una donna sognare una tacchina
può annunciare una situazione
confusa.
In sogno sentirsi “dare della
tacchina” mantiene lo stesso
significato che ha nella realtà.
Riferimenti bibliografici:
Aleotti, Attilio Angelo, Le
Caravelle dell’abbondanza, Robin
Edizioni, Torino 2022
Cattabiani, Alfredo, Volario,
Mondadori Editore, Milano 2022.
Centini, Massimo, Simboli.
Indiani d’America, Red Edizioni,
Como 2000.
Coupal, Marie, I simboli dei
sogni. Analisi psicologica,
psicoanalitica, esoterica e
mitologica, Il Punto d’Incontro
Editore, Vicenza 2000.
Heike, Owusu, Simboli Maya, Inca
e Aztechi, Il Punto d’Incontro
Editore, Vicenza 2003.
Montanari, Massimo, Il cibo come
cultura, Laterza Editore,
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Peterson Tory Roger e Redattori di
Life, Gli Uccelli, Mondadori
Editore, Milano 1965.
Ridolfi, Pierluigi, Rinascimento
a tavola. La cucina e il banchetto
nelle corti italiane, Donzelli
Editore, Roma 2015.