SULLa seconda rivoluzione
industriale
tra paura e ottimismo in un mondo in
cambiamento
di Federica
Ambroso
Nel 1870, dopo la diffusione della
rivoluzione industriale in Europa e
negli Stati Uniti, si verificò un
tale sviluppo economico e sociale da
dar luogo a una nuova fase,
generalmente conosciuta come seconda
rivoluzione industriale,
caratterizzata da una lunga serie di
scoperte e invenzioni destinate a
modificare profondamente la società.
La figura emblematica di fine
Ottocento non era più il filosofo
illuminista, tantomeno il poeta
romantico, bensì lo scienziato,
l’ingegnere, competente nelle
discipline tecniche quanto in quelle
scientifiche.
Le innumerevoli innovazioni
introdotte tra XIX e XX secolo hanno
inevitabilmente suscitato un vivace
dibattito fra chi sosteneva il
progresso con una cieca fiducia
nella scienza e nelle capacità
umane, e chi evidenziava le
conseguenze negative che molte
novità implicavano. Di fronte a un
mondo che stava improvvisamente
cambiando, si diffuse un’ondata di
ottimismo senza precedenti nei
confronti dell’avvenire del genere
umano, una vera e propria fede nei
confronti della scienza e della
tecnica, definita dal filosofo
Saint-Simon “positivismo”, in quanto
le scienze sperimentali erano
considerate positive, utili,
concrete, in confronto alle astratte
filosofie allora dominanti.
Nel contempo, Charles Darwin
teorizzò l’evoluzionismo, secondo
cui tutte le forme di vita, uomo
compreso, sono il risultato di una
graduale evoluzione; questa teoria
contribuì ad accrescere ancor più la
fiducia nel progresso e fu
condannata dalla Chiesa, che la
giudicò incompatibile con la Bibbia
e contrappose a essa il
creazionismo. La teoria darwiniana
fu successivamente estesa in senso
sociale, al fine di giustificare la
colonizzazione dell’Africa e
dell’Asia da parte dei Paesi
occidentali, che apparivano come
“nobilitati” da una missione
civilizzatrice a beneficio dei
popoli selvaggi. Tuttavia, questa
idea nascondeva una malcelata
ingenuità, facilmente riscontrabile
nella famosa poesia di Rudyard
Kipling Il fardello dell’uomo
bianco, in cui nella descrizione
dei popoli extraeuropei si fondono
disprezzo (si dice che sono “popoli
truci”) e compassione (“mezzo demoni
e mezzo bambini”).
Nonostante il miglioramento della
vita ottenuto grazie alla scienza in
quel periodo, Hans Jonas ritiene
che, all’ottimismo esagerato del
positivismo, dovessero subentrare
“la prudenza e la responsabilità”.
Il progresso, se portato ai massimi
livelli senza curarsi
dell’imprevedibile, rischiava di
divenire un potenziale pericolo.
Jonas tuttavia evidenzia solamente
gli aspetti negativi del “mostruoso”
progresso della tecnica, diventata
più distruttiva e pericolosa per
l’uomo stesso, e lo fa con toni
drastici, senza prendere in
considerazione gli aspetti positivi
del progresso “costruttivo”, per
esempio quello che ha permesso di
prolungare la vita media (come
ricorda Ronchey, “l’idillio naturale
non esiste e non è mai esistito”).
La seconda rivoluzione industriale
vide la nascita della società di
massa, in cui cominciarono a essere
sempre più presenti e considerate le
masse popolari, anche se esse furono
molto spesso manipolate, e assai
meno protagoniste. Il filosofo
Ortega y Gasset individuò la
caratteristica principale della
società di massa nel “pieno” (“Le
città sono piene di gente. Le case,
piene di inquilini. Gli alberghi,
pieni di ospiti...”). La società
consumava gli stessi prodotti,
partecipava agli stessi avvenimenti,
nacquero partiti di massa e
organizzazioni sindacali, si
diffusero i mass media, persino
l’istruzione e lo sport diventarono
di massa. Contemporaneamente, gli
Stati erano sempre più presenti nel
sistema economico (Welfare State)
e si evolvevano in senso
democratico. Herbert Marcuse criticò
aspramente la società di massa e
definì i suoi meccanismi “una gabbia
d’acciaio”. Le sue critiche, più che
a questo tipo di società, volevano
essere rivolte alla degenerazione
della stessa, a ciò che noi
chiameremmo omologazione,
conformismo, adesione passiva a
modelli imposti dalla società
(“tutto è livellato, uniformato,
standardizzato in un falso benessere
consumistico”). Marcuse riteneva i
proletari “istupiditi” dalla cultura
di massa; tuttavia, bisogna
ricordare che in questo periodo
diventarono di massa anche
l’alfabetizzazione e l’informazione,
novità positive che contribuirono ad
aprire gli occhi alle masse
popolari, a disincantarle, e quindi
a evitarne un possibile
istupidimento.
Durante la seconda rivoluzione
industriale mutò anche il modo di
produrre: il sistema produttivo fu
riorganizzato in modo da
massimizzare la produzione.
L’ingegnere americano Taylor riprese
le idee di Smith teorizzando il
taylorismo, o organizzazione
scientifica del lavoro. Secondo
Taylor, era necessario scomporre il
più possibile il processo di
produzione di un determinato
oggetto, affidando a ogni operaio
una mansione da ripetere in tempi
sempre uguali, organizzare la
fabbrica secondo criteri di
efficienza produttiva e legare i
salari degli operai agli effettivi
risultati ottenuti. In questo modo,
il costo della manodopera si
abbassava e contemporaneamente i
salari aumentavano, unitamente alla
produzione.
L’applicazione concreta di questa
teoria fu l’introduzione nelle
fabbriche, a partire dalle officine
automobilistiche Ford, della catena
di montaggio, che riduceva
enormemente i tempi di lavoro, ma lo
rendeva contemporaneamente
spersonalizzato e ripetitivo. Un
acceso dibattito sorse fra chi, come
Taylor e Ford, era entusiasta dei
vantaggi prodotti dalla catena di
montaggio e chi, come Céline e Marx,
sosteneva che essa provocasse la
perdita dell’identità dell’uomo, la
sua “alienazione”. In Viaggio al
termine della notte, Céline
paragonò la condizione degli operai
a quella di mosche intrappolate
nelle fabbriche e descrisse la sua
esperienza nelle officine Ford di
Detroit, dove era stato redarguito
dai superiori in quanto aveva
parlato dei suoi studi; in fabbrica
non c’era bisogno di “immaginativi”,
di gente venuta “per pensare”, bensì
di “scimpanzé” che lavorassero in
modo meccanico. Alle critiche di
coloro che la pensavano come Céline,
Ford rispondeva che l’operaio medio
desiderava un lavoro nel quale non
dovesse erogare molta energia
fisica, ma soprattutto nel quale non
dovesse pensare. Nonostante ciò,
ammetteva che per alcuni, lui
compreso, il lavoro ripetitivo fosse
“una prospettiva terrificante”.
La questione sociale, ovvero
l’insieme dei problemi legati alle
condizioni di miseria e ignoranza in
cui vivevano le masse dei
lavoratori, fu il centro del
dibattito politico e sociale di fine
secolo. I conservatori chiedevano
allo Stato di reprimere tutte le
agitazioni popolari, i socialisti
invece sostenevano che una società
più giusta non potesse nascere senza
le lotte dei più oppressi
(agricoltori e operai); i liberali
erano contrari all’intervento
statale in economia, al contrario
dei democratici. Nel 1899 tutti i
partiti socialisti europei (fra cui
l’SPD, la CGT, il Partito Laburista
inglese e il Partito Socialista
Italiano) si riunirono a Parigi
nella Seconda Internazionale
Socialista (dopo la fallimentare
esperienza della Prima
Internazionale del 1864), dove
vennero approvate la limitazione
della giornata lavorativa a otto ore
e la proclamazione di una giornata
mondiale di lotta per il primo
maggio di ogni anno. L’idea
dominante della Seconda
Internazionale fu il marxismo, in
due principali tendenze: quella
revisionista, che puntava a ottenere
riforme a favore dei lavoratori e
non contava troppo sulle
rivoluzioni, poco realistiche, e
quella massimalista, che non
rinunciava a puntare all’obiettivo
massimo, ovvero alla rivoluzione. In
Francia si diffuse il sindacalismo
rivoluzionario, teorizzato
principalmente da Georges Sorel, che
insisteva sulla necessità di
addestrare le masse operaie alla
lotta in vista del grande sciopero
generale rivoluzionario che avrebbe
segnato la fine della società
borghese.
Come nel 1864, anche nel 1891 la
Chiesa decise di intervenire nel
dibattito sociale. Pio IX nel Sillabo aveva
condannato il liberismo in quanto
privo di scrupoli morali, il
socialismo e il comunismo; Leone
XIII, con la Rerum Novarum,
alle condanne aggiunse la richiesta
di un efficace intervento dello
Stato per placare il conflitto
sociale. Sotto il pontificato di Pio
X fu molto attenuato il non
expedit (che fu poi totalmente
abolito nel 1919): i cattolici
potevano intervenire in politica, ma
solo singolarmente (emblematica la
frase del pontefice “Cattolici
deputati sì, deputati cattolici
no”). Lo stesso Pio X condannò
invece fermamente il modernismo, che
si proponeva di reinterpretare la
dottrina cattolica in chiave
moderna.
Le controversie sorte in questo
periodo sono comprensibili: di
fronte alla novità, all’ignoto, c’è
chi spalanca le porte per
abbracciarlo entusiasta, e chi
invece, sopraffatto dalla paura
(assolutamente spiegabile di fronte
a qualcosa che non si conosce),
decide di rifiutarlo categoricamente
a priori. La seconda rivoluzione
industriale, sia vista come età
dell’oro del progresso e dello
sviluppo o brusco subbuglio colmo di
errori, energico miglioramento o
potenziale minaccia per la vita,
diffusione del benessere e della
democrazia o appiattimento delle
personalità, costituì in ogni caso
un salto nel vuoto, uno
sconvolgimento della società a
partire dalla vita quotidiana,
testimonianza di un mondo che andava
lentamente cambiando.