[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 208 / APRILE 2025 (CCXXXIX)


contemporanea

SULLa seconda rivoluzione industriale
tra paura e ottimismo in un mondo in cambiamento

di Federica Ambroso

 

Nel 1870, dopo la diffusione della rivoluzione industriale in Europa e negli Stati Uniti, si verificò un tale sviluppo economico e sociale da dar luogo a una nuova fase, generalmente conosciuta come seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da una lunga serie di scoperte e invenzioni destinate a modificare profondamente la società. La figura emblematica di fine Ottocento non era più il filosofo illuminista, tantomeno il poeta romantico, bensì lo scienziato, l’ingegnere, competente nelle discipline tecniche quanto in quelle scientifiche.

 

Le innumerevoli innovazioni introdotte tra XIX e XX secolo hanno inevitabilmente suscitato un vivace dibattito fra chi sosteneva il progresso con una cieca fiducia nella scienza e nelle capacità umane, e chi evidenziava le conseguenze negative che molte novità implicavano. Di fronte a un mondo che stava improvvisamente cambiando, si diffuse un’ondata di ottimismo senza precedenti nei confronti dell’avvenire del genere umano, una vera e propria fede nei confronti della scienza e della tecnica, definita dal filosofo Saint-Simon “positivismo”, in quanto le scienze sperimentali erano considerate positive, utili, concrete, in confronto alle astratte filosofie allora dominanti.

 

Nel contempo, Charles Darwin teorizzò l’evoluzionismo, secondo cui tutte le forme di vita, uomo compreso, sono il risultato di una graduale evoluzione; questa teoria contribuì ad accrescere ancor più la fiducia nel progresso e fu condannata dalla Chiesa, che la giudicò incompatibile con la Bibbia e contrappose a essa il creazionismo. La teoria darwiniana fu successivamente estesa in senso sociale, al fine di giustificare la colonizzazione dell’Africa e dell’Asia da parte dei Paesi occidentali, che apparivano come “nobilitati” da una missione civilizzatrice a beneficio dei popoli selvaggi. Tuttavia, questa idea nascondeva una malcelata ingenuità, facilmente riscontrabile nella famosa poesia di Rudyard Kipling Il fardello dell’uomo bianco, in cui nella descrizione dei popoli extraeuropei si fondono disprezzo (si dice che sono “popoli truci”) e compassione (“mezzo demoni e mezzo bambini”).

 

Nonostante il miglioramento della vita ottenuto grazie alla scienza in quel periodo, Hans Jonas ritiene che, all’ottimismo esagerato del positivismo, dovessero subentrare “la prudenza e la responsabilità”. Il progresso, se portato ai massimi livelli senza curarsi dell’imprevedibile, rischiava di divenire un potenziale pericolo. Jonas tuttavia evidenzia solamente gli aspetti negativi del “mostruoso” progresso della tecnica, diventata più distruttiva e pericolosa per l’uomo stesso, e lo fa con toni drastici, senza prendere in considerazione gli aspetti positivi del progresso “costruttivo”, per esempio quello che ha permesso di prolungare la vita media (come ricorda Ronchey, “l’idillio naturale non esiste e non è mai esistito”).

 

La seconda rivoluzione industriale vide la nascita della società di massa, in cui cominciarono a essere sempre più presenti e considerate le masse popolari, anche se esse furono molto spesso manipolate, e assai meno protagoniste. Il filosofo Ortega y Gasset individuò la caratteristica principale della società di massa nel “pieno” (“Le città sono piene di gente. Le case, piene di inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti...”). La società consumava gli stessi prodotti, partecipava agli stessi avvenimenti, nacquero partiti di massa e organizzazioni sindacali, si diffusero i mass media, persino l’istruzione e lo sport diventarono di massa. Contemporaneamente, gli Stati erano sempre più presenti nel sistema economico (Welfare State) e si evolvevano in senso democratico. Herbert Marcuse criticò aspramente la società di massa e definì i suoi meccanismi “una gabbia d’acciaio”. Le sue critiche, più che a questo tipo di società, volevano essere rivolte alla degenerazione della stessa, a ciò che noi chiameremmo omologazione, conformismo, adesione passiva a modelli imposti dalla società (“tutto è livellato, uniformato, standardizzato in un falso benessere consumistico”). Marcuse riteneva i proletari “istupiditi” dalla cultura di massa; tuttavia, bisogna ricordare che in questo periodo diventarono di massa anche l’alfabetizzazione e l’informazione, novità positive che contribuirono ad aprire gli occhi alle masse popolari, a disincantarle, e quindi a evitarne un possibile istupidimento.

 

Durante la seconda rivoluzione industriale mutò anche il modo di produrre: il sistema produttivo fu riorganizzato in modo da massimizzare la produzione. L’ingegnere americano Taylor riprese le idee di Smith teorizzando il taylorismo, o organizzazione scientifica del lavoro. Secondo Taylor, era necessario scomporre il più possibile il processo di produzione di un determinato oggetto, affidando a ogni operaio una mansione da ripetere in tempi sempre uguali, organizzare la fabbrica secondo criteri di efficienza produttiva e legare i salari degli operai agli effettivi risultati ottenuti. In questo modo, il costo della manodopera si abbassava e contemporaneamente i salari aumentavano, unitamente alla produzione.

 

L’applicazione concreta di questa teoria fu l’introduzione nelle fabbriche, a partire dalle officine automobilistiche Ford, della catena di montaggio, che riduceva enormemente i tempi di lavoro, ma lo rendeva contemporaneamente spersonalizzato e ripetitivo. Un acceso dibattito sorse fra chi, come Taylor e Ford, era entusiasta dei vantaggi prodotti dalla catena di montaggio e chi, come Céline e Marx, sosteneva che essa provocasse la perdita dell’identità dell’uomo, la sua “alienazione”. In Viaggio al termine della notte, Céline paragonò la condizione degli operai a quella di mosche intrappolate nelle fabbriche e descrisse la sua esperienza nelle officine Ford di Detroit, dove era stato redarguito dai superiori in quanto aveva parlato dei suoi studi; in fabbrica non c’era bisogno di “immaginativi”, di gente venuta “per pensare”, bensì di “scimpanzé” che lavorassero in modo meccanico. Alle critiche di coloro che la pensavano come Céline, Ford rispondeva che l’operaio medio desiderava un lavoro nel quale non dovesse erogare molta energia fisica, ma soprattutto nel quale non dovesse pensare. Nonostante ciò, ammetteva che per alcuni, lui compreso, il lavoro ripetitivo fosse “una prospettiva terrificante”.

 

La questione sociale, ovvero l’insieme dei problemi legati alle condizioni di miseria e ignoranza in cui vivevano le masse dei lavoratori, fu il centro del dibattito politico e sociale di fine secolo. I conservatori chiedevano allo Stato di reprimere tutte le agitazioni popolari, i socialisti invece sostenevano che una società più giusta non potesse nascere senza le lotte dei più oppressi (agricoltori e operai); i liberali erano contrari all’intervento statale in economia, al contrario dei democratici. Nel 1899 tutti i partiti socialisti europei (fra cui l’SPD, la CGT, il Partito Laburista inglese e il Partito Socialista Italiano) si riunirono a Parigi nella Seconda Internazionale Socialista (dopo la fallimentare esperienza della Prima Internazionale del 1864), dove vennero approvate la limitazione della giornata lavorativa a otto ore e la proclamazione di una giornata mondiale di lotta per il primo maggio di ogni anno. L’idea dominante della Seconda Internazionale fu il marxismo, in due principali tendenze: quella revisionista, che puntava a ottenere riforme a favore dei lavoratori e non contava troppo sulle rivoluzioni, poco realistiche, e quella massimalista, che non rinunciava a puntare all’obiettivo massimo, ovvero alla rivoluzione. In Francia si diffuse il sindacalismo rivoluzionario, teorizzato principalmente da Georges Sorel, che insisteva sulla necessità di addestrare le masse operaie alla lotta in vista del grande sciopero generale rivoluzionario che avrebbe segnato la fine della società borghese.

 

Come nel 1864, anche nel 1891 la Chiesa decise di intervenire nel dibattito sociale. Pio IX nel Sillabo aveva condannato il liberismo in quanto privo di scrupoli morali, il socialismo e il comunismo; Leone XIII, con la Rerum Novarum, alle condanne aggiunse la richiesta di un efficace intervento dello Stato per placare il conflitto sociale. Sotto il pontificato di Pio X fu molto attenuato il non expedit (che fu poi totalmente abolito nel 1919): i cattolici potevano intervenire in politica, ma solo singolarmente (emblematica la frase del pontefice “Cattolici deputati sì, deputati cattolici no”). Lo stesso Pio X condannò invece fermamente il modernismo, che si proponeva di reinterpretare la dottrina cattolica in chiave moderna.

 

Le controversie sorte in questo periodo sono comprensibili: di fronte alla novità, all’ignoto, c’è chi spalanca le porte per abbracciarlo entusiasta, e chi invece, sopraffatto dalla paura (assolutamente spiegabile di fronte a qualcosa che non si conosce), decide di rifiutarlo categoricamente a priori. La seconda rivoluzione industriale, sia vista come età dell’oro del progresso e dello sviluppo o brusco subbuglio colmo di errori, energico miglioramento o potenziale minaccia per la vita, diffusione del benessere e della democrazia o appiattimento delle personalità, costituì in ogni caso un salto nel vuoto, uno sconvolgimento della società a partire dalla vita quotidiana, testimonianza di un mondo che andava lentamente cambiando.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]