[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


attualità

UNA NAVE PER BLOCCARLI TUTTI

LA QUESTIONE DI SUEZ E IL CASO DELLA EVER GIVEN

di Gian Marco Boellisi

 

Spesso quando usiamo nel gergo quotidiano il termine “collo di bottiglia” non facciamo caso a quanto bene esso rappresenti certe situazioni reali nel mondo di tutti i giorni.

 

Un esempio da manuale si è presentato nell’ultima settimana di marzo 2021, quando una nave portacontainer ha ostruito il Canale di Suez, mandando così in tilt l’intero commercio mondiale. Caso più unico che raro, il blocco del Canale ha sollevato numerose preoccupazioni sulla fragilità delle rotte commerciali e su quanto l’intera economia globale sia basata su un fragilissimo equilibrio. Risulta quindi interessante analizzare le dinamiche dell’accaduto e comprendere anche nel dettaglio perché la struttura del commercio marittimo mondiale sia stato colpita così violentemente da questo evento particolare.

 

Partiamo da dei brevi cenni storici. Considerato sin dai tempi dell’Antico Egitto una delle sfide ingegneristiche più grandi dell’umanità, il Canale di Suez ha costituito sempre oggetto di enorme interesse per tutte le maggiori potenze internazionali. Il Canale come lo conosciamo noi venne completato nel 1867, collegando così per la prima volta nella storia in maniera stabile il Mar Mediterraneo e il Mar Rosso.

 

La costruzione fu resa possibile grazie al contributo della Francia, la quale ottenne in cambio la comproprietà assieme all’Egitto. A seguito delle dinamiche interne al governo del Cairo, questi fu costretto a vendere la propria quota di proprietà del Canale all’Impero Britannico, rendendo così Suez una zona di transito a esclusivo utilizzo e controllo delle potenze occidentali.

 

Questa situazione fu completamente ribaltata nel 1956, quando il presidente egiziano Nasser nazionalizzò il Canale, espropriando così tutte le potenze straniere ivi insediatisi commercialmente e militarmente da quasi un secolo. Ciò causò la ben nota “crisi di Suez”, dove Israele, sotto forti pressioni inglesi e francesi, invase l’Egitto per tornare in possesso del passaggio artificiale.

 

Tuttavia, a seguito della minaccia dell’Unione Sovietica di unirsi al Cairo nel conflitto e dello schieramento degli Stati Uniti dalla parte di Nasser, Israele insieme a Gran Bretagna e Francia furono costrette a ritirarsi, giungendo quindi a un pieno possesso egiziano del Canale. Status quo che perdura ancora oggi.

 

Da allora il Canale di Suez risulta essere uno delle principali vie di passaggio del commercio marittimo globale. È importante ricordare infatti che la maggior parte del commercio dell’attuale società globalizzata avviene ancora per nave, passando nella maggior parte dei casi per certi percorsi obbligati difficilmente bypassabili.

 

Nel dettaglio Suez risulta essere lo snodo principale di comunicazione tra l’Europa, e più in generale il Mediterraneo, e l’Asia, con una media di circa 17.000 navi che lo attraversano ogni anno. Proprio a causa di questo enorme traffico il Canale ha subito un ampliamento nel 2015 e non è escluso che ve ne siano altri nel prossimo futuro.

 

Giusto per dare alcuni valori di riferimento, attraverso Suez transita circa il 30% del commercio marittimo globale, il 12% del commercio complessivo sul nostro pianeta nonché il 10% del greggio e gas naturale estratto nel mondo. Già da soli questi numeri possono far comprendere a pieno la gravità per le economie di tutto il globo di quanto accaduto negli ultimi giorni di marzo 2021.

 

L’incidente in sé ha avuto luogo tra il 23 e il 29 marzo 2021 e ha coinvolto la nave portacontainer Ever Given, un mastodonte lungo 400 m e dal peso di 224.000 tonnellate registrato a Panama dalla compagnia taiwanese Evergeen Marine. A seguito delle forti raffiche di vento presenti quel giorno la Ever Given si è così incagliata di traverso al kilometro 151 del Canale, bloccando così interamente il traffico marino e tutte le navi che vi dovevano transitare.

 

Per quanto possa sembrare strano che una nave di simili dimensioni venga resa ingovernabile, bisogna considerare che il vento stimato al momento del passaggio era di 40 nodi, il quale ha spostato la nave e ha sollevato tanta sabbia da rendere la visibilità pressoché nulla, e che l’enorme quantità di container presenti a bordo avrebbe costituito una superficie così estesa da creare un vero e proprio “effetto vela”.

 

Il vento che ha causato la deviazione della rotta non è stato un evento casuale, ma un fenomeno naturale che ogni anno si presenta periodicamente nel Sahara e anche in Egitto, il cosiddetto khamsin. Il termine khamsin deriva dall’arabo خمسين (khamsīn) e significa 50, ovvero il numero di giorni in cui il vento soffierebbe ininterrottamente tra la fine dell’inverno e l’inizio dell’estate. Raramente si arriva a tempeste di sabbia di così lunga durata, tuttavia è innegabile che proprio in questo periodo dell’anno il khamsin presenta la sua massima intensità.

 

Per quanto il vento abbia sicuramente contribuito in larga parte all’incidente, è molto difficile che esso ne sia stato l’unica causa. Gli analisti infatti ritengono che un’altra buona fetta di responsabilità sia stata dovuta a un comando sbagliato impartito alla nave. Prova ne sia che il livello di incagliamento raggiunto dalla Ever Given è difficilmente spiegabile unicamente dal contributo del vento, se non anche insieme al contributo di un aumento di potenza del motore dato alla nave per cercare di correggere la rotta poco prima dell’arresto. Altre ipotesi ben più coraggiose affermano che il tutto potrebbe essere stato frutto di un attacco hacker sui sistemi elettronici della nave, tuttavia al momento non vi sono prove che puntino in questa direzione.

 

Qualunque sia stata la causa, all’apice del blocco vi erano 320 navi in attesa su entrambi i lati del Canale. Le stime parlano di circa 400 milioni di dollari persi per ogni ora di fermo del transito, per un totale di circa 9 miliardi al giorno. Tutti gli armatori del mondo hanno tirato un sospiro di sollievo quando il 29 marzo la Smit Salvage, una compagnia olandese specializzata nel recupero di navi, ha disincagliato la Ever Given e ha permesso nuovamente il traffico attraverso Suez.

 

Al netto della crisi superata quella che è stata colpita maggiormente è stata l’immagine di Suez stessa, vista ora come un potenziale punto di blocco delle rotte commerciali da e verso il Mediterraneo. Molte compagnie addirittura stanno valutando concretamente un potenziale cambio di rotta per il futuro in maniera da evitare ritardi del genere. Qualora questo scenario si concretizzasse, ciò comporterebbe un’enorme perdita in termini politici e soprattutto economici per l’Egitto, il quale in questo periodo particolarmente delicato per il Medio Oriente non può fare a meno delle entrate derivanti dal Canale.

 

Proprio l’Egitto risulta essere uno dei tasselli chiave all’interno del contesto geopolitico mediorientale odierno, fatto di storici riassestamenti degli equilibri di potere e di importanti mutamenti verso un’acuta polarizzazione delle parti.

 

In questo scenario estremamente complesso, Suez non risulta essere solamente un’enorme fonte di introiti per il Cairo (si parla di circa 5,6 miliardi di dollari di diritti di passaggio nel solo 2020) ma anche un asset geopolitico di valore inestimabile. La travagliata economia egiziana al giorno d’oggi sopravvive grazie anche alle entrate del Canale, motivo per il quale per chiunque volesse colpire al cuore l’Egitto sa che l’obiettivo ideale sarebbe proprio Suez.

 

Per tutelare i propri interessi in quest’area tanto particolare, il governo egiziano ha istituito una zona economica speciale nell’area di Suez per attirare investimenti esteri e incrementarne ancora di più i profitti a lungo termine. Una delle prime potenze estere che non ha perso tempo nell’investire in Egitto è stata la Cina, la quale nel 2016 ha firmato nel contesto della Nuova Via della Seta svariati accordi con il Cairo per un totale di 15 miliardi di dollari di investimenti nel settore delle infrastrutture e dei servizi. Al netto di queste considerazioni, possiamo quindi capire quanto vi sia l’interesse da parte non solo dell’Egitto ma anche di player esteri molto importanti affinché le cose a Suez continuino a scorrere come hanno sempre fatto.

 

Tra tutte le merci e le commodities che hanno accusato il colpo della recente crisi, il petrolio è sicuramente quella che ha subito le fibrillazioni maggiori. Alla sola notizia del blocco del Canale, il greggio ha subito un aumento netto del 5%. Questo poiché attraverso Suez passano ogni giorno circa 2 milioni di barili di petrolio greggio e circa altrettanti di prodotti petroliferi raffinati. In questo senso le nazioni europee sono state sicuramente quelle più in apprensione, visto che per qualche giorno le loro forniture provenienti dal Golfo Persico sono state messe in forse.

 

Inoltre il problema si aggrava ulteriormente considerando che esistono ben poche alternative al Canale di Suez e nessuna di esse è altrettanto sicura o economica. La prima è la circumnavigazione dell’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza, il quale richiede 10 giorni di navigazione oltre a innumerevoli costi per ogni giorno speso in più mare, senza contare i rischi alla sicurezza derivanti dalla pirateria. La seconda invece è attraverso l’oleodotto Sumed, il quale parte da Ain Sokhna nel Golfo di Suez per arrivare nel Mediterraneo al terminal di Sidi Kerir. Tuttavia anche questa via porta a tempistiche e costi ulteriori, quindi non sempre è preferita dalle compagnie di distribuzione petrolifera.

 

Un altro prodotto profondamente colpito è stato il gas naturale liquefatto, il quale ormai anch’esso si muove prevalentemente via mare nelle cosiddette “gassiere”. A seguito quindi della consapevolezza che una larga fetta del mercato degli idrocarburi viaggia per nave, le nazioni produttrici di tali risorse hanno ritenuto possibile cambiare destinazione, e quindi cliente finale, al posto di lasciare le navi in attesa per  un tempo indefinito di fronte al Canale, come tra l’altro già fatto in alcuni casi in passato. Questo ovviamente solo nel mentre della crisi e qualora la stessa si fosse protratta più a lungo, tuttavia ci mostra quanto sia multiedrica la domanda mondiale di idrocarburi e allo stesso tempo di quanto flessibile sia la corrispondente offerta.

 

Lo shift delle rotte degli idrocarburi comporta tuttavia anch’esso dei rischi non indifferenti. Bisogna infatti tenere conto che Suez non è l’unico collo di bottiglia che le petroliere devono attraversare per raggiungere la propria destinazione. Un altro celebre punto estremamente delicato è lo stretto di Hormuz, attraverso il quale si stima che ogni giorno transitino tra i 16 e i 20 milioni di barili di petrolio, ovvero circa un quinto dell’intera produzione mondiale. Colpire questo stretto così come Suez, se non in maniera più grave, comporterebbe sicuramente uno stressor critico per l’economia energetica mondiale.

 

Da qui possiamo capire come i cosiddetti “chokepoints petroliferi” siano dei punti geografici estremamente delicati, da cui dipendono le sorti degli equilibri economici e politici della maggior parte del mondo.

 

Scendendo a un ulteriore livello di dettaglio, si può quindi comprendere come il recente blocco di Suez abbia riacceso veementemente il dibattito sulla sicurezza e sulla criticità in generale dei chokepoints marini, ovvero quei punti geografici attraverso i quali la maggior parte del commercio mondiale via nave è obbligato a passare senza possibilità di deviazioni. Spesso si dimentica infatti che il mercato globale altro non è che un flusso continuo di merci che si sposta via nave 24 ore su 24 senza mai fermarsi. Per farla in soldoni, il flusso di cargo rappresenta il sangue nelle vene del mondo capitalizzato che noi tutti oggi conosciamo.

 

Il 90% del commercio odierno è fatto via nave e le imbarcazioni usate per questo scambio di merci sono sempre più grosse, come tutti abbiamo scoperto con l’incidente della Ever Given. Questo ovviamente comporta minori costi di trasporto poiché si impiegano meno viaggi per portare sempre un maggior numero di merci ma dall’altro lato sempre maggiori costi di investimento per gli armatori di tali mostri galleggianti.

 

A seguito del blocco di Suez una delle prime argomentazioni di dibattito è la ricerca di rotte alternative che possano in qualche modo accorciare le rotte commerciali senza dover passare da uno dei chokepoints attualmente esistenti. Una delle tante proposte ha ripreso in considerazione la celeberrima rotta Artica, la quale accorcerebbe il percorso tra Asia ed Europa del 40% rispetto a quella dell’Oceano Indiano. Questa soluzione tuttavia dipende fortemente dagli sviluppi che avrà nei prossimi anni il cambiamento climatico e da quali potenze vorranno controllare per prime le rotte di questi mari a oggi inutilizzati.

 

Come accennato il Canale di Suez non è il primo stretto per volume di merci. Infatti al primo posto troviamo lo Stretto di Malacca con 59,4 TEU, ovvero unità equivalente a venti piedi (sarebbe la misura standard di volume nel trasporto dei container ISO ed equivarrebbe a circa 38 metri cubi). Al secondo posto vi è il sopracitato stretto di Hormuz 30,2 milioni di TEU, poi vi è il ponte di Öresund in Danimarca con 22,2 milioni, lo Stretto di Gibilterra con 17,1 milioni, lo stretto di Suez con 15,6 milioni e infine il Canale di Panama, con 11,7 milioni di TEU.

 

Come si può vedere, il globo risulta essere costellato di questi chokepoints, i quali rendono il commercio globale un immenso flusso di navi giganti e lente che deve attraversare aree geografiche instabili con percorsi molto lunghi passando per colli di bottiglia intrinsecamente vulnerabili. Non la più rosea delle situazioni si potrebbe dire.

 

Questa particolare fragilità porta a un rischio estremamente alto le navi in circolazione, tanto che potrebbero diventare un domani uno dei principali obiettivi delle cosiddette guerre asimettriche. Un conflitto asimmetrico è uno scontro tra due o più belligeranti in cui le forze tra i contendenti differiscono in maniera significativa, motivo per cui si ricorre il più delle volte a scontri indiretti quali azioni di guerriglia, sabotaggio e azioni di disturbo multilaterali.

 

La sensibilità del sistema commerciale di cui sopra, unita a una progressiva digitalizzazione dei sistemi di controllo delle navi, potrebbe portare un domani a creare dei danni immani a livello locale e internazionale, colpendo ad esempio una petroliera carica piuttosto che un cargo contenente minerali semiconduttori destinati al settore industriale dell’alta tecnologia. Chiunque possa essere l’autore di questo tipo di azione, sia esso un’entità non statuale come un’organizzazione terroristica o uno stato vero e proprio, l’effetto finale non cambierebbe: vista la profonda natura dell’interdipendenza complessa presente nel mondo  globalizzato odierno tra le nazioni e le varie multinazionali, un’azione contro i commerci sensibili rischierebbe di mettere in ginocchio l’intero sistema nell’arco di pochissime ore. L’incidente di Suez ne è la prova da manuale che finirà nei libri di storia proprio per essere stato il potenziale antesignano di una siffatta crisi a livello sistemico.

 

Questo dibattito, se preso in un’ottica globale, sta portando alcuni analisti a ritenere che una simile fragilità dell’apparato commerciale possa mettere in discussione potenzialmente anche il concetto di globalizzazione stessa. Ovviamente questa sarebbe una via piuttosto radicale, motivo per il quale attualmente è più pratico il cosiddetto reshoring, ovvero il tentativo di rimpatrio di tutti i capitali e le filiere di produzione relative sia ai beni di prima necessità sia ai beni avvertiti come strategici da parte dello stato (difesa, hi-tech). Questo banalmente al fine di divenire meno dipendenti da produzioni estere e quindi meno dipendenti dalle tratte di commercio marittime odierne.

 

Per quanto gli scambi commerciali in uno scenario simile avverrebbero comunque all’interno di ogni regione e non più a livello mondo, ciò porterebbe al rischio di creare tanti microcosmi indipendenti (o quasi) che orbitano ognuno attorno a se stessi senza mai toccarsi. Inoltre si avrebbe sicuramente un aumento del costo del lavoro rispetto al passato e una minore diversificazione dei prodotti, non avendo alcuna influenza esterna nel design dei prodotti. Tutto ciò ovviamente non eliminerebbe comunque in alcun caso la dipendenza della maggior parte dei paesi mondiali dalle materie prime essenziali su cui si basa la nostra società: minerali, carburanti, risorse alimentari e idriche. Un esempio fra tutti può essere l’Italia, la quale di certo non avrebbe un’indipendenza energetica vista la quasi totale assenza di idrocarburi all’interno del nostro territorio nazionale.

 

In conclusione, l’incidente di Suez ha evidenziato come un singolo episodio in una specifica area possa interrompere ciò che la maggior parte della popolazione dà per scontato, ovvero il regolare flusso delle merci all’interno del nostro globo. Sebbene è altamente improbabile che questo evento modifichi la struttura globalizzata del commercio, esso ha sicuramente messo in evidenza la debolezza di un sistema che spesso viene pensato come indistruttibile.

 

Il blocco del Canale dovrebbe quindi costituire uno spunto importante di riflessione da parte di tutta la comunità internazionale per cercare di concepire un’alternativa sostenibile nel lungo termine. Si sta iniziando a parlare in questi anni di sistemi economici autosufficienti basati su macroregioni, con le diverse macroregioni permeabili agli scambi, ma non dipendenti esistenzialmente da essi.

 

Per arrivare a un risultato tanto ambizioso saranno necessari decenni e uno sforzo comune collettivo, il quale però oggi sembra essere solo un sogno, essendo la nostra quella che è stata definita da alcuni studiosi “la società internazionale meno internazionale e più divisa mai vista”. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]