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N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

LA STRUTTURA DELL’IMPERO NEO-ASSIRO
IL GRAN RE E LA GESTIONE DEL POTERE

di Serena Scicolone

 

Il termine Assiria fu coniato dai Greci sulla base del termine assiro Mat Ashur che aveva il significato di “città del dio Assur”. Tale termine, peraltro, è utilizzato in maniera non univoca nelle fonti: esso può a volte indicare l’intera Mesopotamia (“la terra tra due fiumi”), altre volte soltanto la Mesopotamia settentrionale, altre ancora la Siria. Risulta dunque necessario specificare che per “regione assira” si intende storicamente la regione estesa nella Mesopotamia settentrionale, mentre la Mesopotamia meridionale era occupata dall’impero babilonese.

 

L’impero assiro si estese nel tempo ma il suo nucleo originario e principale, quello cioè che possiamo definire il cuore dell’impero, fu sempre il territorio compreso tra il Grande Zab e il Piccolo Zab, all’interno del triangolo costituito dalle tre città di Assur, Ninive e Arbela.

 

Si è soliti suddividere la scrittura e la storia assira in tre fasi principali: paleo-assiro (prima metà del II millennio a.C.), medio-assiro (seconda metà del II millennio a.C.) e neo-assiro (dalla prima metà del I millennio a.C. al 610 a.C.).

 

Il territorio dell’impero neo-assiro era diviso in province che avevano l’obbligo di pagare un tributo annuale. Dal punto di vista amministrativo, la struttura dell’impero neo-assiro si basava su un’unità fondamentale: la famiglia del re. Nello specifico, l’amministrazione centrale era organizzata in maniera rigidamente gerarchica. Al vertice vi era, ovviamente, il re al quale seguivano altre cariche ricoperte da familiari, prima fra tutte quella del turtānu, un generale che faceva le veci del re quando questo era assente. Dopo il turtānu, in ordine, vi erano il nāgir ekālli, cioè l’araldo di palazzo, il rab šaquē, cioè il coppiere, l’abarakku, l’intendente e il sukkallu, il maggiordomo.

 

L’amministrazione centrale si occupava della gestione delle province più importanti, mentre dei centri minori si occupava l’amministrazione locale costituita da un “sindaco” e da un “collegio di anziani” con il compito di amministrare la giustizia e di occuparsi dei problemi fiscali.

 

Il sistema economico che caratterizzava l’impero neo-assiro era sostanzialmente identico a quello paleo-assiro; si trattava di un sistema economico irrazionale il cui motore era il bottino di guerra. A ciò bisogna aggiungere che tale bottino non era speso dal re per il benessere e la tutela dei propri cittadini ma per la costruzione e l’abbellimento delle città.

 

Il re, dunque, non amministrava direttamente il territorio ma si limitava a mostrare il proprio potere tramite le guerre, i massacri pubblici dei nemici, le steli collocate nei capoluoghi delle nuove province e soprattutto attraverso la costruzione di nuove città e capitali imponenti e sfarzose.

 

Il commercio non era libero; si trattava di un commercio rigidamente gestito, incrementato e regolato dal re assiro. Ci si è interrogati sull’esistenza o meno in Assiria di una piccola proprietà terriera. Oggi l’ipotesi maggiormente accettata è quella secondo la quale la piccola proprietà esistesse ma non fosse comunque nelle condizioni di poter sopravvivere. Chi aveva un piccolo terreno, infatti, era costretto a pagare al re un rigido tributo fisso che non teneva però conto della produzione dell’annata. Spesso, pertanto, il povero contadino era costretto a pagare le tasse tramite prestiti e, nel caso in cui non riuscisse a saldare in tempo il proprio debito (il che accadeva spesso) diveniva schiavo del suo creditore.

 

Tutto ciò comportava due inevitabili conseguenze: innanzitutto la presenza in Assiria di una “schiavitù indifferenziata” e, in secondo luogo, la concentrazione di territori e ricchezze nelle mani di pochi individui, ovvero i dignitari di corte. Quest’ultimo elemento risultava particolarmente rischioso per il re assiro: come nel II millennio a.C., anche nel I millennio a.C. e sino alla fine dell’impero assiro nel 610 a.C., il re dovette fare i conti con una costante frantumazione del potere politico e con vari tentativi di ribellione contro la sua autorità.

 

Il re neo-assiro, infatti, dovette far fronte a numerosi problemi: interni, dinastici ed esterni. Ciò fu dovuto anche al fatto che il re non si preoccupava della tutela del ceto medio (come fece invece Hamurrabi a Babilonia già nel XVIII secolo a.C.) ma anzi favorì spesso, tramite esenzioni fiscali e lavorative, il ceto dei ricchi.

 

L’esercito, guidato dallo stesso re o da un suo generale, era costituito da tre gruppi principali: i fanti, i carristi e i cavalieri. Le città nemiche venivano assediate dall’esercito assiro che utilizzava per tale scopo apposite macchine, quali l’ariete e la torre. Tale esercito divenne leggendario per il terrore che riuscì a incutere nel nemico, eppure presentava un punto debole al suo interno: si trattava di un esercito di corvèe. Esso era infatti costituito solo in minima parte da corpi specializzati, mentre l’elemento di gran lunga più numeroso era quello dei semplici cittadini assiri, i quali erano obbligati a prestare tale servizio in quanto servi del re.

 

Quando la popolazione assira andava a combattere, il terreno agricolo non poteva essere abbandonato: in questi casi, pertanto, se ne prendevano cura i deportati. La pratica della deportazione dei vinti fu, infatti, usuale e sistematica. Tale pratica aveva una duplice finalità: rompere il legame tra terra e popolo per evitare eventuali ribellioni e rimpiazzare i contadini assiri durante la loro assenza.

 

L’impero assiro non si mostrò affatto tollerante con i vinti ed è proprio dall’atteggiamento nei confronti di essi che deriva l’immagine violenta che di tale impero ci hanno fornito sia la Bibbia, sia lo storico Diodoro Siculo. D’altronde le stesse fonti assire non mascherarono tale aspetto ma piuttosto lo esaltarono con orgoglio al fine di diffondere il terrore tra le popolazioni vicine. Le steli poste nelle città conquistate non solo contenevano iscrizioni con resoconti dettagliati sulla violenza delle spedizioni assire ma erano corredate anche da espliciti bassorilievi al fine di permettere anche a chi non sapesse leggere di comprenderne il contenuto e di essere intimorito da esso.

 

All’interno del tempio di Ninurta a Kalhu (l’attuale Nimrud) era possibile leggere in un’iscrizione l’atteggiamento che il re Assurnarsipal II aveva avuto nei confronti degli abitanti sconfitti della città di Tela: “[...] deportai i prigionieri assieme ai loro beni e al loro bestiame bovino ed ovino, bruciai vivi molti dei prigionieri e catturai vivi molti soldati; ad alcuni tagliai braccia e mani, ad altri tagliai il naso, le orecchie e le estremità; a molti soldati strappai gli occhi. Costruii una torre con i vivi e una con le teste, appesi le loro teste ad alberi attorno alla città, bruciai vivi i ragazzi e le ragazze, distrussi, rasi al suolo, detti alle fiamme e divorai la città”.

 

Il re neo-assiro non accettò mai la diversità: il suo impero si fondò sull’unificazione attraverso l’eliminazione della diversità. Fu questo un aspetto certamente negativo degli Assiri: il loro impero si estendeva in una zona che sin dai tempi più antichi era stata caratterizzata da culture e tradizioni diverse ma gli Assiri vollero annientare tutto ciò che fosse diverso da sé preferendo l’omogeneità alla varietà.

 

I Persiani riprenderanno dal re assiro il carattere autoritario e la nomenclatura di “gran re”, “re della totalità”, “re delle quattro parti del mondo”, “re dell’universo” ma cambieranno strategia imperiale accogliendo, premiando ed esaltando la diversità dei popoli sottomessi.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

E. Cancik-Kirsschbaum, Gli Assiri, Il Mulino, Bologna 2007.

M. Liverani, Antico Oriente. Storia, società, economia, Editori Laterza, Bari 2015.

C.W. Ceram, Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia, Einaudi, Torino 1949.



 

 

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