.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]

RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

> Storia Medievale

.

N. 18 - Novembre 2006

...STRAVA, PIR O TRIZNA'. STASERA SI BEVE!

Il bere in Terra Russa ai tempi del Medioevo

di Aldo Marturano

 

Abbiamo tirato fuori queste tre parole (slave) perché indicano tre diverse cerimonie solenni degli antichi Slavi ed hanno in comune in particolare il bere e l’ubriacatura finale come procedura sacrale.

 

Che cosa è allora il bere? Esiste una ritualità anche nell’ubriachezza? Il bere come attività “umana” non è la semplice riposta allo stimolo della sete, come ci verrebbe di rispondere immediatamente. Al contrario! E’ un rito “sacro” ben preciso! La sete in un regime dietetico contadino per grandissima parte fondato cu alimenti vegetali, costituiti per ca. il 90 % e più da acqua, raramente si presenta in modo da richiedere una bevuta tanto urgente di un qualche liquido.

 

Oggi non percepiamo più la sacralità del bere in questo modo come invece lo sente il prete nella messa o nel Medioevo il volhv che levava al cielo la bevanda sacra prima di spargerla sull’altare e di berla lui stesso. Eppure nei nostri usi e nei nostri comportamenti ereditati dai nostri antenati non tutto il rito è andato perduto. Ci siamo mai chiesti perché oggi nel supermercato o nel bar ci troviamo davanti ad una così vasta varietà di liquidi bevibili? A che servono? Perché sono stati messi a punto? Queste bevande sono realmente destinate a ricostituire le riserve di liquido del nostro corpo?

 

Se ci pensate bene esse sono veramente troppe, ammenocchè non le mettiamo in rapporto con le numerose celebrazioni della vita a ciascuna delle quali esse sono state destinate per il consumo. Ad esempio, in un incontro in cui stiamo per concludere un grosso affare, chi non offrirebbe da bere al partner commerciale? Nessuno, anzi, un brindisi con un qualche liquore a caro prezzo è d’uopo! E berreste un whisky la mattina a colazione?

 

Forse voi no, ma ci sono popoli nel mondo che lo fanno! E in un pranzo di gala fareste mancare il vino? E per una vittoria conseguita non stappereste una bottiglia di champagne?

 

Dunque, riflettiamo bene. Si beve, ma non per sete e neppure acqua semplice, ma liquidi che di solito è la donna ad elaborare e a preparare partendo da varie materie prime. Né questi liquidi, non vogliamo ancora chiamarli bevande, possono essere ingeriti così semplicemente. Occorre aspettare il momento particolare della giornata o dell’anno, da soli o in compagnia di certe persone oppure in certi luoghi. Le bevande fabbricate dall’uomo non devono estinguere la sete e basta, ma fanno parte integrante di riti fissati da antichi costumi oggi dimenticati e dipendono, per la loro natura, dal momento della giornata e dalla rispettiva religione!

 

Nel Medioevo il rito del bere (e del mangiare!) conservava ancora alcuni aspetti principali. Il primo era la sacra libagione davanti agli dèi nelle celebrazioni collettive, ma poi si brindava anche per sigillare dei contratti, degli accordi o per dare il benvenuto all’ospite e, in ogni caso, quasi sempre con un liquido prestabilito. E si bevevano pozioni per scacciare gli spiriti maligni dal proprio corpo malato o, se occorreva, si faceva bere per introdurveli, gli spiriti maligni, a fini specifici come avvelenare o inebriare per dolo e, perché no?, per indurre certi sentimenti nell’amata, nel rivale, nell’avversario. Tutto questo si rispecchia ancor oggi nel lessico delle varie lingue… Tantissimi e vari gli scopi del bere, quindi!

 

Nelle Cronache Russe è rimasta famosa la frase di san Vladimiro quando, rifiutando le prescrizioni dell’Islam contro l’eccesso nel bere bevande inebrianti, dice al sapiente musulmano: “Alla Rus’ il bere dà la carica! (Rusi est’ veselie piti! traduz. di ACM)”, che non si deve interpretare come un’esaltazione medievale dell’ubriachezza, diventata ormai l’etichetta per i russi di oggi! In realtà Vladimiro intendeva dimostrare di essere ben consapevole della sacralità delle diverse occasioni in cui, con i suoi ospiti, s’indulgeva nella bevuta (popòika/попойка) rituale. Se teniamo presente che Vladimiro era ancora mezzo svedese e che i suoi uomini erano Variaghi svedesi, possiamo con buona approssimazione rifarci ai costumi dei Vichinghi per interpretare meglio il ruolo della convivialità solenne e ufficiale nella nuova corte kieviana del X-XI sec. d.C. in cui bere era un atto non abitudinario. Purtroppo il compito che ci siamo prefisso è di cercare di capire meglio la vita dello smierd e non quella dei suoi dominatori, salvo che questi non incidano e influiscano sulle abitudini e i costumi dello smierd stesso.

 

Per questo motivo delle puntigliose testimonianze di Ibn Fadhlan o di Ibn Rusté, non possiamo tener conto come dovuto. Ibn Fadhlan ad esempio nomina una bevanda inebriante dei Rus’ che chiama nabid (forse dallo slavo napitok?) e dice: “Sono molto affezionati al nabid e lo bevono notte e giorno. Sovente uno di loro muore con un bicchiere di nabid in mano.” Se i Rus’ menzionati sono Variaghi svedesi, perché danno un nome slavo alla loro bevanda? Oppure sono già parzialmente slavizzati? Rimane incerto, ma secondo noi è una prova in più della dominanza culturale slava… Un altro autore musulmano Ibn Dasta (Ibn Rusté) nota ancora una volta, più o meno alla stessa epoca, che gli Slavi non coltivano la vite… Non conosciamo la competenza tecnico-agricola di questo autore, ma non aver visto la vite non ci meraviglia dato il clima e visto che il vino, primo importante derivato commestibile (bevibile) di questa pianta, compariva come prodotto d’importazione dalla Grecia nelle Cronache Russe e solo sulle tavole dei ricchi. Svjatoslav infatti, quando dice a sua madre Olga nel 969 che non gli piace rimanere a Kiev e che preferisce il Delta del Danubio, menziona il vino e altri frutti fra le merci che giungono dal sud (Costantinopoli). Tuttavia sono per noi più utili a questo riguardo gli scritti di Ibrahim ibn Jaqub, il mercante ebreo andaluso che visitò la Polonia e l’area baltica, sempre nel X sec., e che quindi ispirerà il nostro discorso, almeno all’inizio.

 

Cominciamo allora dalla birra.

Dal punto di vista filologico occorre subito dire che i nomi usati per i diversi tipi di birra bevuti nella Rus’ di Kiev sono di origine svedese-norrena ed è strano. Sicuramente ciò è dovuto non perché gli Slavi non la sapessero preparare, ma perché probabilmente i riti per berla si moltiplicarono proprio durante i contatti fra Slavi e Variaghi. D’altro canto nessun Variago, con il timore di essere avvelenato o di bere una bevanda impura (ossia non ben fatta), avrebbe accettato birra preparata dalle donne degli Slavi e quindi, secondo noi, per alcune birre “russe” si affermarono le ricette germaniche, proprio perché i Variaghi furono nei primi contatti dei dominatori rigidi in questo senso. In altre parole, se si volevano fare affari con loro, i soci Slavi nei conviti dovevano bere solo le birre che i Variaghi stessi preparavano! Infatti, quando si allestiva una spedizione vichinga nel Mare del Nord, una delle prime derrate che entravano nella cambusa della nave era proprio la pasta acida per far birra e pane, contenuta in un tino affidato ad un responsabile affinché stesse molto attento “a non farla morire” per il gelo e di rinnovarla di tanto in tanto! Non c’è quindi ragione di non pensare che lo stesso avvenisse nelle spedizioni variaghe nel Mar Baltico visto che la pasta acida (la madre della birra) era una delle “derrate” importanti di qualsiasi gruppo di arditi viaggiatori…

 

Comunque sia il russo ol (ол), braga (брага), kvas (квас) e forse anche mol’biscia (мольба) corrispondono più a meno al norreno öl, bjórr, hvas e mungàt, per i diversi tipi di birra scandinava mentre la parola russa oggi più comune per birra, pivo (пиво), indicava un’altra bevanda qualsiasi – mai l’acqua! – prima di passare (ma molto dopo) a significare appunto birra!

 

La divisione di classe, come l’abbiamo notato già per le razioni che il virnik portava con sé nel suo giro, esistette perciò ben marcata fra la birra riservata all’élite variago-slava e l’acqua (o al massimo miele allungato) concessa alla gente inferiore.

 

D’altronde il convito per la classe nobile era sempre un evento speciale con convitati ben selezionati, ma comunque molto diverso dal pranzo sacro fatto in comune dopo il sacrificio nel sacrario dei villaggi. Entrambi però, ovunque avessero luogo, erano frequentate da forze divine invisibili e dunque erano l’occasione buona per bere in grandi quantità bevande raffinate, ma “di classe”! Dal tempo della conquista di Kiev da parte di Vladimiro (ca. 980 d.c.), diventò tuttavia una tradizione allestire grandi conviti per le strade della città anche popolari affinchè la gente nera (cjorn’) godesse della magnificenza del principe (Knjaz) con una grande mescita di bevande non eccellenti, ma con mangiare a sazietà. Era una specie di politica populistica simile a quella della distribuzione gratuita del panem et circenses dell’antica Roma e continuata a Costantinopoli per farsi voler bene dal popolo quasi permanentemente in regime di fame (diremmo noi oggi). Una strategia certamente suggerita a Vladimiro dalla nuova fede cristiana appena acquisita…

 

Così nelle Cronache leggiamo che nel 1128 il Velikii Knjaz di Kiev, Vsevolod, mentre era ad un banchetto con i suoi uomini e con i bojari locali, comandò di apparecchiare delle tavole nella città bassa anche per la gente nera del Podol e raccomandò di offrire da bere vino, mjod, perevar insieme agli altri cibi. Conoscendo la fama di questo Knjaz, questo banchetto per il popolaccio ci offre la possibilità di fare qualche considerazione un po’ maligna e di parte dicendo che fu un avvenimento certamente eccezionale, ma necessario per le tante misure abbastanza invise al popolo kieviano che questo principe aveva messo in atto ormai da qualche tempo.

 

Torniamo però alle bevande. Il vino era sicuramente importato dalla Grecia o dalla Borgogna, viste le relazioni di Vsevolod fin col lontano Reno, ma sicuramente alla gente che non ne aveva mai bevuto fu servito molto annacquato. Il vino in quei tempi già di per sé si beveva mescolato con l’acqua e la gente finora lo aveva visto bere solo in chiesa. Il mjod invece era già  conosciuto, ma quello offerto quella volta sarà stato il più diluito, quello chiamato varjonyi di qualità molto inferiore. Rimane da individuare il perevar. La parola significa ricotto o ribollito per cui doveva essere quello che oggi si chiama sbiten’ non molto alcolico e che a Kiev era in vendita nel mercato nei giorni di lavoro a bassissimo prezzo quando si beveva caldo negli incontri con amici. Per I. G. Pryzhov il perevar era una miscela non molto fermentata di miele e composta di frutta (varenie)… comunque dozzinale!

 

Lo Sbiten’ di Suzdal

non alcolico

(Casa di Svarog, 2005)

 

In un litro d’acqua diluire 150 g di miele. Aggiungere le spezie importate (chiodi di garofano, cannella, cardamomo, rabarbaro) che sono state pestate ben bene nel mortaio (di qui il nome, sbiten’!). Bollire la miscela per una decina di minuti togliendo la schiuma man mano che si forma. Lasciare a sé per una mezz’ora e filtrare. Riscaldare ancora e bere molto caldo.

 

E ci siamo imbattutti di nuovo nel miele!  Dobbiamo dire che dal X al XIII sec. questo prodotto con varie ricette e mescolanze con altri liquidi fu la materia prima per tutte le bevande sacre e laiche della Rus’, a quanto ci consta. Un uso veramente smodato e generale…

 

Vi chiederete semmai perché non compaia la vodka nel nostro discorso. E qui la risposta è molto semplice. Secondo le ricerche più recenti (quell di V. V. Pohlebnik), la vodka come distillato di vino o di cereali fu importata nella Terra Russa attorno al XV sec. In verità la tecnica sarebbe stata insegnata ai russi nel 1386 o forse meglio nel 1429 dai mercanti genovesi di Caffa in Crimea che si presentarono a Mosca invitati in un’ambasciata commerciale.

 

Non ci sono documenti però in cui viene detto espressamente che i genovesi mostrassero ai moscoviti come fare a distillare qualcosa o che portassero con loro i particolari alambicchi di rame e perciò il problema rimane irrisolto. Invece il veneziano Ambrogio Contarini (XV sec.) ricorda, mentre era in visita a Mosca, un vino artificiale (vinò tvorjònoe) distillato. Potrebbe essere la vodka, ma come si fa a dirlo con sicurezza? Secondo I. Kurukin e E. Nikulina, la prima notizia sicura sulla vodka appare nel Trattato delle due Sarmazie (qui intese per Russia e Polonia) del Rettore dell’Università Jagellonide di Cracovia stampato nel 1517. Qui si legge: “Dunque dall’avena essi (i Russi) fanno un liquido ardente o spirito di vino e lo bevono per proteggersi dai brividi del freddo.” Tipico discorso, ma certamente riferito alla classe elitaria delle città (Mosca e le altre vicine)… Qui però chiudiamo con la vodka dicendo che in tale ultima datazione il nostro interesse trova immediatamente il suo limite cronologico e quindi per chi voglia saperne di più raccomandiamo il classico I.G. Pryzhov, Storia delle Osterie (kabàk) della Russia, edito due secoli fa.

 

Tornando al discorso iniziale invece, ci siamo accorti che è difficile per lo smierd definire che cosa distingua una bevanda, sempre salvo l’acqua, da un altro cibo cotto più o meno liquido. Ci siamo convinti così che, se non se ne fissa l’uso per un’occasione particolare, qualsiasi cibo liquido o semiliquido non può essere per definizione chiamato bevanda. E se guardiamo nelle tradizioni nazionali o regionali troviamo quasi sempre che le bevande, come prodotti preparati, son tenuti da parte per gli eventi speciali della vita: un matrimonio, una morte, un compleanno, un addio, un saluto di benvenuto, un grande incontro, un’offerta agli dèi… Dunque, e lo ripetiamo!, così doveva essere pure per lo smierd in quel lontano Medioevo!

 

E allora da dove estrarre o raccogliere i liquidi per farne bevande? Da quali materie prime partire… in cucina? Certamente ci vengono subito in mente le piante. Per eccellenza sono queste gli esseri viventi che raccolgono nel loro “corpo” più acqua possibile e che risentono della mancanza di quel prezioso liquido naturale più di ogni altro. E, siccome il nostro smierd vive dalle e in mezzo alle piante, è anche logico che traesse le sue bevande giusto da queste. Tuttavia, per ottenerne per esempio di fermentate e quindi per elevarle di valore economico e sacrale, occorrerebbe conoscere le proprietà di certi funghi saccaromiceti che riescono a scindere gli zuccheri in alcol e anidride carbonica e saperli pure selezionare per l’uso voluto.

 

Noi oggi sappiamo che questi esseri microscopici vagano nell’aria in continuazione sotto forma di spore e che queste, non appena cadono in liquidi zuccherini tiepidi, iniziano a svilupparsi e cioè a fermentare. Ora, qualsiasi pianta è sorgente di zuccheri dato che questi sono composti basilari dei tessuti vegetali e dunque la fermentazione è un processo chimico comunissimo nella marcescenza di frutti e di semi, principalmente. E qui si nota un tipico approccio della gente del nord verso i frutti e le bacche i quali tengono per migliori da consumare, non le bacche appena colte, ma quelle che sono lasciate a marcire per un po’ prima di consumarle! In questo modo, è vero!, diventano più dolci (ma anche più liquide e forse più ripugnanti!)…

 

Il processo fermentativo è molto sensibile alla temperatura e perciò lo si può addirittura provocare o governare facendo cuocere dolcemente la frutta nell’acqua per poi lasciare il tutto all’aria per un po’… L’unico problema poi rimane la conservazione di questa specie di marmellata liquida (varenie) affinché, fermentata, continui ad essere accettata dal palato con quelle punte piccanti del nuovo sapore. Infatti alcuni frutti vanno a finire in aceto (mele, uva etc.) che non può essere accettato come bevanda, D’altronde l’aceto giunse in Terra Russa con il Cristianesimo e come condimento! Su questo punto però è inutile discutere troppo poiché i gusti sono culturali e cambiano col tempo e, se oggi a noi sembrerebbe vomitevole una poltiglia fatta di bacche quasi marce o acetitificate, nel tempo passato veniva mangiata tranquillamente.

 

Comunque liquidi vegetali possono essere direttamente “spillati” dalla pianta per farne bevande oppure estratti con vari processi (spremitura, decozione, infusione etc.). Ad esempio, il succo di certi grossi frutti, la linfa di certi alberi, gli olii dei semi, gli olii eterei di foglie e di fiori, i tannini in soluzione di cortecce e di foglie, etc…

 

E che dire dei liquidi animali? Le secrezioni animali che l’uomo di solito appetisce sono il latte dei mammiferi o il sangue, oltre al miele. Tuttavia se il latte (di capra!) si beve non si potrà produrre formaggio o prodotti simili e, come tutti sanno, il formaggio si può conservare a lungo, al contrario del latte. Tuttavia quando si fanno dei prodotti caseari normalmente si separa il cosiddetto siero (syvorotka) e questo è assolutamente buono da bere e non si getta via. Sappiamo che i Vichinghi, e quindi anche i Variaghi, lo bevevano volentieri (syr in norreno), sebbene per la cultura slavo-russa invece non abbiamo conferme sicure di tale uso. D’altronde gli unici prodotti più tipici che lo smierd otteneva dalla lavorazione del latte non erano bevande, ma il tvorog, la smetana e il burro prima di altri (il yogurt e il kefir furono conosciuti molto tardi dall’uso dei nomadi della steppa). Anzi! I primi due addirittura trattenevano ancora gran parte del siero del latte di partenza!

 

Per quanto riguarda il sangue dobbiamo assolutamente escluderlo dal bere rituale poiché quale linfa della vita poteva essere soltanto offerto agli dèi degli inferi e non sono conosciuti infatti ricette di piatti o cibi in cui un ingrediente sia il sangue. Dalle Cronache sappiamo che soltanto i nomadi della steppa ucraina si dissetavano, a volte!, col sangue spillato dalle vene delle cavalle e per questo erano disprezzati e biasimati.

 

Anche le secrezioni del rospo o della rana potrebbero essere bevute (e lo furono!), ma in questo caso l’uso era specialmente magico (far perdere il senno!). Addirittura sappiamo di un uso russo antico del veleno delle api contro i reumatismi o i dolori della gotta (malattia dell’élite che mangiava troppa carne!).

 

Per quanto riguarda invece le deiezioni liquide animali, il discorso è del tutto diverso perché il loro uso era esclusivamente per certe “applicazioni industriali” o “farmaceutiche” a cui accenneremo in altro luogo.

 

Alla fine ci rimane il miele, il più importante prodotto “liquido” che lo smierd ricava dalla foresta e sul quale si è costruita tutta una parte importante della cultura e dell’economia del nord Europa. E qui il discorso diventa molto più articolato. Il mjod è una bevanda di miele troppo tradizionale per tutto il folclore indoeuropeo, dall’Oceano Indiano all’Atlantico, e la somiglianza fra le parole che lo indicano nelle diverse lingue sorelle non implica assolutamente un imprestito tecnologico o culturale, ma una tradizione comune antichissima.

 

L’uso del mjod d’altronde è confermato dall’archeologia locale dove alcuni reperti di coppe trovate nelle tombe corrispondono bene a quelle descritte nei documenti contemporanei per ingurgitare questa bevanda particolare. Che cosa hanno di distintivo? In primo luogo sono fatte in modo da non rimanere in equilibrio se poggiate perché mancano sempre di piedino o di base. Prevalentemente sono corni di uro (Bos primigenius) con l’orlo e la punta argentati oppure intere coppe d’argento tutte tonde. Infatti l’uso era (ed è!) di riempire le coppe e svuotarle d’un fiato e per questa ragione non dovevano posare stabilmente su una qualche superficie piatta. Inoltre che il mjod fosse bevuto con tali coppe in tutte le occasioni è indirettamente provato da una statuetta ritrovata nella Volynia in cui è rappresentato un uomo con una tale recipiente nelle mani a cavalcioni di una botte!

 

Presumiamo naturalmente che lo smierd non si potesse permettere tali “bicchieri” di corno o d’argento, ma per lo meno doveva averne in casa, con le stesse caratteristiche, benché fatti d’altro materiale!

 

Abbiamo detto che se ne preparavano vari tipi anche se, dobbiamo ridirlo, il miele (purtroppo in russo sia miele sia idromele è la stessa parola, mjod), prima di farne una bevanda, diventò troppo prezioso come articolo di scambio (vendita e tributo) per lasciarlo fermentare in grandi quantità e berselo, invece che esportarlo tal quale.

 

E torniamo alla bevanda fermentata per eccellenza, l’idromele o mjod. Il mjod più a lungo fermenta (ossia invecchia) e più alcolico diventa e perciò un mjod di alta gradazione alcolica è molto vecchio e vale tantissimo. Ad esempio in una bylina si parla di un mjod che era stato a sé per lungo tempo (stavliennyi), quasi 15 anni, quando fu tirato fuori per destinarlo ad una celebrazione molto importante! Naturalmente se si doveva aspettare così a lungo perché invecchiasse, ciò causava degli “immobilizzi” economici importanti, e quindi un tale mjod se lo potevano permettere solo i nobili o il Velikii Knjaz di Kiev come ci conferma quella stessa bylina.

 

Ma perché il mjod alcolico è più importante nei riti? Il rilassamento delle inibizioni fisiche e mentali per ingestione di alcol etilico è rimasto un mistero fino a qualche decennio fa, per quanto riguarda la spiegazione “scientifica”, ma nel mondo ebraico e musulmano, dove il vino era comunemente usato, il fatto di perdere il controllo della propria “anima” causava grande preoccupazione, oltre che un sospetto di diavolerie, e perciò colui che diventava ebbro era considerato un debole e facile preda di Satana o di altri spiriti maligni. Nella mitologia slava invece l’ebbrezza era considerata in tutt’altro modo. La bevanda inebriante era il tramite per parlare con gli dèi e addirittura per parlare per conto di questi agli altri uomini. Il volhv non parlava forse con dio quando era ebbro (sia per aver bevuto il mjod, sia per aver masticato l’Amanita o assorbito la Canapa) e non annunciava le decisioni divine predicendo il futuro? Dunque una bevanda (o un cibo o un’essenza) inebriante dava dei poteri soprannaturali…

 

Forse però val la pena dare qualche informazione su che cosa significasse il miele come merce per lo smierd e la sua attività di raccolta per il semplice motivo che per secoli questo prodotto diventò uno degli articoli cardine del traffico commerciale delle Terre Russe.

 

Il miele come dolcificante del nord Europa oggi è naturalmente passato di moda da quando lo zucchero di barbabietola sin dal tempo di Napoleone ha preso il suo posto, ma nel Medioevo e fino a tutto il XV sec. era ancora richiestissimo in tutta l’Europa. E questa domanda risaliva a tempi remoti, se ricordiamo che lo stesso Erodoto decantava questo prodotto “scitico” o ammiriamo una famosa pittura nelle grotte preistoriche della raccolta di miele. Nelle Cronache Russe si dice chiaramente che il traffico del miele poteva mantenere florida l’economia di interi villaggi. Per questi motivi i principi delle diverse città-stato (udel), consolidatisi con la caduta di Kiev del 1240, si preoccupavano di riuscire a controllare tutta la raccolta di miele della rispettiva regione sotto dominio per non deludere le richieste dei compratori e per non venir tagliati fuori dal flusso di ricchezze che giungeva nelle Terre Russe in seguito a questi traffici. Addirittura conosciamo un’ordinanza di un Knjaz russo di trasferire un intero villaggio nella foresta affinché la raccolta del miele non sfuggisse al controllo! Lo storico polacco del XV sec. Jan Długosz che si interessò anche della storia dei rapporti fra il suo paese e le Terre Russe del nord, ormai sotto la dinastia lituana dei Jagellonidi, quando racconta che Casimiro il Grande nel 1352 riprese ai Tatari invasori la Podolia (parte del territorio una volta kieviano) se ne compiace aggiungendo che essa è “…ricca di miele e di bestiame…”, sebbene la Polonia non fosse assolutamente da meno per fornire gli stessi articoli. Evidentemente era la qualità che era migliore…

 

Abbiamo visto come la raccolta del miele “selvaggio” avveniva dopo la scoperta e l’appropriazione delle arnie nel cavo dei tronchi e dunque aveva un buon mercato! Né la raccolta era un lavoro semplice o facile! L’allevatore di api da miele (in russo bortnik) era uno specialista acrobata, se così possiamo dire. Infatti è vero che il miele si poteva prendere alle api che si trovavano nella foresta, ma bisognava appunto trovarle! Quindi era meglio addomesticarle.

 

E gli alveari? Rimasero appunto i cavi negli alberi. Questi venivano scavati in piante abbastanza grosse e longeve e non dovevano danneggiare l’albero stesso, non dovevano farlo morire. L’altezza a cui questi cavi erano praticati era importante per metterli fuori dalla portata eventuali “assaggiatori” clandestini come l’Orso. Specialmente quando i favi erano posti molto in alto sui tronchi di annosi abeti, occorreva arrampicarsi coi ramponi ai piedi (articoli costosissimi) e con una correggia a tracolla che si allacciava al tronco e che si mollava e si tendeva man mano che si saliva. Bisognava poi calcolare l’inclinazione dello scolo dell’acqua piovana eventuale in modo che non ristagnasse all’interno dell’arnia, ma che facilitasse, quando era il tempo, di far colare il miele nei tini dei raccoglitori. Erano persino previsti trappole e impedimenti all’assalto di scoiattoli, sorci e formiche. Anzi! A questo proposito era proprio con queste trappole che si catturavano un bel po’ di scoiattoli, la cui pelle era usata come “denaro” (vekscià o kun). Alla fine dell’autunno poi si affumicavano le api per svuotare la cera e il miele!

 

Tutto questo non poté non coinvolgere quel poco di legislazione che san Vladimiro e suo figlio Jaroslav produssero sotto il nome di Pravda Russkaja su un prodotto di tal valore! In essa sono previste severe pene pecuniarie per chi danneggia o svuota le arnie del Velikii Knjaz!! Minuziosamente il codice entra in tutte le problematiche concernenti gli alberi che portano miele, su chi sottrae le api per allevarle “di contrabbando” etc.

 

Giovanni il Borsello (Ivan Kalità), uno dei primi principi della nascente Mosca del XIV sec., accumulò moltissime ricchezze con il miele e quando fece testamento si preoccupò di dividere le diverse aree “mellifere” molto oculatamente fra i suoi figli per assicurare un cespite differenziato, ma importante di entrate per il futuro!

Dalle Cronache sappiamo così che se ne distinguevano vari tipi indicati col nome della loro provenienza più che per il sapore dei fiori: il miele di Novgorod o di Pskov di gusto quasi simile (!), quello di Tver’, quello di Murom e di Rjazan’ e ancora quello di una cittadina chiamata Kadom nella regione dei Mordvini che aveva un sapore del tutto speciale.

 

Tuttavia avere e mantenere un monopolio di questo genere senza averne i mezzi adeguati di controllo della produzione o una politica commerciale attrattiva per il cliente estero ha molti punti deboli e probabilmente il mercato arabo la cui cultura molto raffinata nel X-XI sec. era grande consumatrice di dolci si adoperò affinché non dovesse esclusivamente dipendere dai prezzi alti che i principi russi imponevano e cercò altre fonti, proprio ricorrendo alla canna da zucchero conosciuta in Oriente da secoli come un prodotto indiano altrettanto buono quanto il miele. I principi russi cominciarono così a prendere in considerazione maggiore i mercati europei dell’Occidente, attraverso genovesi e veneziani. Anche qui però si verificò lo stesso fenomeno di insofferenza al monopolio di principi cristiani “scismatici” come erano considerati i russi dai clienti reali del resto d’Europa. Già durante le Crociate, quando l’Occidente venne a contatto con lo zucchero di canna, i Cavalieri di San Giovanni sperimentarono la coltivazione di questa pianta proprio a San Giovanni d’Acri in Palestina! Non ci fu gran seguito però dopo la caduta di questa base palestinese occidentale e si continuò a comprare miele russo…

 

La domanda crescente dei sec. XI-XIII d.C. tuttavia spinse la produzione del miele nella Terra Russa ad una maggiore intensificazione dell’allevamento delle api e ciò fece in parte perdere l’aspetto quasi sacro della raccolta, finora conservatosi nel mir.

 

Per curiosità del lettore (e questo lo dobbiamo a S. A. Rozov) informiamo qui che i Basc’kiri (oggi abitanti del Basc’kortostan, non lontano ad est di Mosca) ancora oggi praticano questa “arte” al modo antico, fornendo un miele di alta qualità.

 

Il miele nella Pianura Russa non era tanto un dolcificante quanto invece un medicamento e la principale materia prima per fare bevande alcoliche! Tutto al contrario che nel resto d’Europa! Il gusto del dolce è tutto culturale e non è sempre apprezzato nelle culture umane allo stesso modo e allo stesso periodo storico. Si pensi soltanto all’apprezzamento del tè, del caffè, del cacao che sono tutti prodotti naturalmente amari. Se poi si aggiunge che il dolce del miele ha anche un sapore tutto particolare (a causa della varietà dei fiori utilizzata dall’ape!) rifiutato da molte persone, si può benissimo immaginare che nella casa dello smierd il miele come semplice dolcificante appariva molto raramente.

 

Il primo miele comunque serviva a cuocere un’enorme focaccia fatta con la prima farina di segala e speziata ben bene (prjanik) che veniva poi offerta e divisa con tutti i bambini del villaggio. Infatti siccome i bimbi erano considerati la personificazione delle api, erano proprio essi ad avere il diritto alla “loro parte” di miele (dolja). Tutto il villaggio assisteva a questa processione di ragazzi che con la loro scodella andavano in fila al tino (koryto) dove era stato posto il primo miele per prenderne una cucchiata e porla nel proprio kuvscik per gustarselo con soddisfazione accovacciati in un angolo! Era la metà di agosto quando si raccoglieva il primo miele e già bisognava pensare al “nutrimento delle api” e ai furti eventuali.

 

Per addolcire comunque la donna usava generalmente le bacche “più a buon mercato” nel modo che abbiamo detto prima e cioè usandole quando erano vicino alla marcescenza. Dalle bacche cotte lentamente con acqua (e non solo dalle bacche), se queste erano ricche di pectina, addirittura si otteneva una gelatina molto densa chiamata kisèl. Questo è uno dei più antichi cibi semiliquidi mai menzionati nei documenti scritti della Rus’ di Kiev.

 

Come il kisèl salvò la città di Belgorod

(da Cristo e la Mafia dei Rus di Aldo C. Marturano, 2004)

 

…i Peceneghi colsero l’occasione per procedere verso la città ponendo per primi l’assedio a Belgorod, dopo aver superato le postazioni rus poco guarnite della corrente inferiore del Dnepr. Né da Kiev né da Novgorod poteva giungere alcun aiuto tempestivo e così la vece di Belgorod, quando l’assedio ormai durava da parecchio e il cibo cominciò a scarseggiare, vedendo i morti per fame lungo le proprie strade, si riunì per decidere che cosa fare. Chiaramente, senza difesa armata, stabilirono di arrendersi. Un vecchio però che non aveva partecipato alla vece, quando gli riferirono della decisione, chiamò di nuovo tutti a consiglio ed espose un’idea che gli era venuta in mente per far rinculare i Peceneghi. Tutti sapevano come quelle incolte genti della steppa erano fortemente attratte dal modo di vivere dei russi in città e quanto creduloni essi diventassero quando li si attirava nella vita cittadina. L’idea che il vecchio aveva elaborato era per l’appunto imperniata su questa loro debolezza. Disse dunque che bisognava preparare tini di gelatina dolce (kisèl), tini di idromele (mjod) e tini di altri sciroppi dolcissimi (boltusc’ka). Occorreva poi porre questi tini nei pozzi e invitare i Peceneghi in città ad assaporare l’acqua tirata su dai pozzi così preparati. Nel frattempo si spargesse la voce, facendola giungere anche alle orecchie dei non graditi assedianti, che l’acqua che sgorgava dal terreno e nutriva i loro pozzi non era la solita acqua semplice, ma dolce come i liquori più dolci. Questo avrebbe solleticato la curiosità dei Peceneghi e se avessero creduto a quanto si diceva, avrebbero sicuramente ragionato così: “A che pro continuare l’assedio per così lungo tempo per espugnare questa città? Perché distruggere questo ben di Dio e queste fonti d’acqua dolcissima? E se hanno da bere cose così buone, figuriamoci che cosa hanno da mangiare!” Il vecchio era sicuro di questo e perciò era altrettanto sicuro che i nemici sarebbero venuti a più miti consigli, se si fossero invitati i loro capi a venire in città e a constatare personalmente che la meraviglia dell’acqua di Belgorod era un fatto vero. Tutti i cittadini però dovevano concorrere affinché la scena risultasse la più realistica possibile. Fu mandata una delegazione con degli ostaggi, da trattenere presso i nomadi per garanzia finchè la delegazione pecenega non avesse completato la visita in città. Naturalmente i Peceneghi videro con i propri occhi come dai pozzi di Belgorod si attingeva liquore e non acqua semplice, rimanendone grandemente impressionati. Notando l’effetto ottenuto i belgorodesi cercarono allora di dissuaderli dal mantenere l’assedio dicendo: Abbiamo da mangiare in abbondanza dalla terra, anzi mangiamo roba buona e dolce! Quando il rapporto della visita fu riportato al capo pecenego, questi decise che era meglio soprassedere e ritirò l’assedio, accettando in cambio dei doni dalla città e promettendo buone relazioni per il futuro.

 

Simile al kisèl e altrettanto popolare era la melassa di frutta (speziata con zenzero, ad esempio) o pàtoka che preparata dalla donna di casa era venduta sul mercato di città a cucchiaiate e poi bevuta allungata con l’acqua o tale e quale.

Tornando al miele, diciamo che era usato come unguento per curare la pelle, ferite etc., per farne pozioni medicamentose e, persino per conservare la carne “sotto miele”! Soltanto quando l’interesse della nobiltà della città si concentrò con più attenzione su questa materia prima come prodotto di alto valore economico, quasi si impedì allo smierd di continuare ad usarlo, affibbiando multe e tasse non soltanto sul consumo, ma anche sulla produzione, ora dichiarata “clandestina”!

 

  Le bevande al miele e cioè i vari tipi di mjod però conservarono la loro popolarità e l’élite al potere fu costretta spessissimo a metterne a disposizione degli abitanti più poveri delle città che non avevano la possibilità di rifornirsi direttamente come gli smierdy, come abbiamo già visto sopra. E’ chiaro però che questa era una soluzione occasionale alla richiesta dei poveri… E allora dove poter trovare mjod in città quando c’erano celebrazioni più private, ma si era lontani dalla campagna?

 

Nelle città della Polonia c’erano già nel X sec. d.C. dei locali dove si mesceva mjod a pagamento. Ma soltanto nel 1150 a Smolensk appaiono le cosiddette korc’my (parola turca per osteria, taverna) ossia delle mescite pubbliche dove, pagando, si poteva appunto bere del mjod o altre bevande. Qualche anno dopo le troviamo anche a Novgorod e a Pskov e sono ora di proprietà della città mentre a Kiev, dove sono presenti più o meno alla stessa epoca, appartengono al Velikii Knjaz! Ecco che l’abitudine di frequentare il bar (la korc’mà) è già in auge nei gorod russi del Medioevo e persino le donne ci vanno e devono ubriacandosi…

 

Abbiamo parlato di cerimonie in cui la bevuta era obbligatoria e cerchiamo di trovare qualche notizia scritta sull’argomento. La strava ad esempio è un antichissimo tipo di banchetto funebre slavo (nel panorama dei riti funebri indoeuropei) per la morte di un capo e di essa ne abbiamo una descrizione classica per la morte di Attila in Jordanes alla quale rimandiamo il lettore curioso per leggeresi il testo intero.

 

Lo stesso doveva essere per la triznà come la descrivono le Cronache Russe quando Olga, alla ricerca del cadavere di suo marito nella Terra dei Drevljani, la indice per onorare la morte di Igor in cui i Drevljani di Iskorosten’ (questa era la loro capitale a pochi chilometri da Kiev), suoi uccisori, sono obbligati a fornire tutto il mjod necessario alla celebrazione. Questa triznà finisce in un’ubriacatura generale, tanto che Olga riesce a far trucidare i Drevljani ancora ebbri e compie la sua vendetta contro ogni regola di lealtà. Probabilmente, se accettiamo l’etimologia suggerita da D. Ilovaiskii (1876), triznà significa “divisione in tre parti” poiché, secondo il racconto di Ibn Fadhlan, quando moriva un capo dei Rus’, le sue sostanze erano divise in tre: una parte andava alla sua famiglia, con un’altra si compravano i vestiti e gli arredi della cerimonia funebre e infine, la terza, veniva tutta spesa per il convito corrispondente alla triznà!

 

Pir invece è una parola molto più generale per banchetto, convito... con bevuta!

 

Sicuramente il pir ricalcava modelli molto anteriori e il codice che lo regolava doveva essere più o meno lo stesso a parte le celebrazioni per le quali veniva allestito. In altre parole ogni qual volta si richiedeva un pir c’erano dei menu obbligatori fissati dalla tradizione e le bevande adatte già prescritte da mescere per ciascuna occasione. Ed ecco qualche aspetto curioso del pir.

 

Il primo di cui abbiamo notizia è certamente quello tenuto da Svjatoslav nel 965 quando dopo aver conquistato la fortezza cazara di Sarkel (Belaja Vezha in russo) sul Don celebra la vittoria insieme ai suoi saccheggiando le provviste della fortezza stessa. Non sappiamo quanto lo stesso Svjatoslav indulgesse nella bisboccia poichè è rimasta famosa la frugalità di questo variago, signore di Kiev, che preferiva mangiare ad imitazione dei nomadi della steppa sottili strisce di carne di cavallo tagliate dagli animali ancora vivi e, dopo averle infilate in uno spiedone, arrostiti sul carbone come ancora oggi si fa il turco döner kebab. Fu dunque questo il piatto caratteristico in quella occasione?

 

Nel 996 abbiamo notizia dalle Cronache che Vladimiro consegue una grande vittoria contro i Peceneghi, altro popolo turco della steppa ucraina. In questa occasione fu indetto un banchetto popolare di ben sette giorni a Kiev dove ci fu idromele a profusione e kvas ed altre bevande, oltre a cibo in abbondanza per tutti, così come era avvenuto quando aveva portato in città la sua nuova sposa, Anna di Bisanzio, anni prima (988).

 

Naturalmente molti piry seguirono a questi a Kiev. Quando poi la Rus’ si frammentò in vari stati, presso la nuova corte moscovita molte descrizioni di banchetti più “laici” con attenti particolari ci vengono riferite ora da ospiti stranieri fra il XV e il XVII sec. e, presumendo che i cambiamenti siano stati minimi col passare dei secoli, ci rifaremo in parte a questi come se fossero ancora dei piry medievali, tanto per mettere in evidenza qualche loro stranezza in più per noi che viviamo nel XXI sec. che non per elencare pietanze e ricette!

 

Ci scusiamo con il lettore per questa digressione in ambiente nobile che in realtà ha meno a che vedere con la nostra ricerca, ma lo scopo è di raffrontare la vita nel gorod distante mille anni luce da quella del villaggio al fine di dimostrare che il gorod appariva agli occhi dello smierd come un altro mondo, grande pauroso e potentissimo, ma a lui… assolutamente estraneo!

 

Allora che differenza c’è fra la tavola del principe russo e quella del contadino? In pratica fino al XIV sec. non doveva esserci alcuna differenza nella composizione e nel ricettario, a quanto abbiamo potuto appurare nella nostra ricerca, salvo la frutta e le bevande esotiche orientali (tatare). Entrambe le tavole avevano gli stessi cibi di base sanciti dalla tradizione e quindi tanto sacri e inviolabili da non poter essere cambiati… senza grande scandalo! Di certo la differenza stava più nella quantità e nella frequenza di certi piatti rispetto ad altri. Alla mensa del principe ad esempio era quasi sempre presente la carne e i frutti esotici, anche fuori stagione, mentre alla mensa del contadino dominavano i piatti a base di cereali.

 

Logicamente però i riti dedicati alla sacralizzazione continua e costante dell’élite al potere erano importantissimi e quelli che implicavano il cibo, l’uso delle risorse per ottenerlo e il ruolo religioso del capo nel distribuirlo (a se stesso e agli altri) erano i più elaborati e rispettati nella loro ripetitività.

 

Abbiamo visto come san Vladimiro in occasione della conquista di Kiev avesse fatto costruire il suo terem nella città alta. Ciò non toglie che qualsiasi evento che qui si svolgeva non avesse risonanza nella città bassa. Il teatro dello spettacolo della sacralizzazione del banchetto come cerimonia propria del Velikii Knjaz restava sempre il terem! Prima di tutto, quando un pir si teneva nelle piazze, tutti vi partecipavano, se invece si teneva nel terem ossia nel palazzo più alto del gorod, allora era richiesta tantissima pubblicità, se così possiamo dire! Il chiasso, il rumore assordante, le scene (anche violente o ridicole) di ubriachezza erano importanti e necessarie affinché il popolo sapesse che il principe stava banchettando…

 

Per saperci muovere con la fantasia dove viveva il principe mentre si svolgeva un incontro ufficiale con ospiti di riguardo daremo allora una breve descrizione dei vari ambienti.

 

Il terem del Knjaz si distinse sempre da tutte le altre costruzioni civili di Kiev (e delle altre città russe, a parte Novgorod-la-Grande) per la sua magnificenza. Il terem visibile da lontano per chiunque si avvicinasse alla città era costruito sul cosiddetto Monte di Vladimiro (Vladimirskaja Gorà). In questa area non era permesso a nessun’altro avere case di abitazione senza speciale autorizzazione. Solo intorno al XI sec. fu concesso ad alcuni bojari di avere le proprie case non lontane dal terem, ma per la semplice ragione che il Knjaz in questione, Jaroslav (erede e figlio di san Vladimiro) in questo modo poteva avere costantemente sott’occhio questi personaggi della nobiltà “campagnola” dei quali si fidava poco!

 

Il terem aveva un primo piano (podklet) a livello del suolo molto alto e fatto di solito con pareti di ciottoli di fiume cementati insieme (o di mattoni, che vennero in uso più comune con i bizantini nel XII sec.). Sul podklet poggiava la travatura che faceva da pavimento al secondo piano. A partire da questo la costruzione continuava ora tutta in legno, secondo il vecchio pregiudizio che vivere in ambiente di legno (la foresta è fonte di vita!) era più sano che non circondati dalla terra (l’argilla cotta ossia lo stesso materiale del luogo sotterraneo dove giacciono i morti!). Sul secondo piano poi si trovava la cosiddetta gridniza e la povaluscia, due sale di pari dimensioni nelle quali si viveva di giorno (nella prima) e si dormiva (nella seconda). Nella gridniza di solito si tenevano le riunioni fra gli uomini del Knjaz e talvolta anche qualche banchetto più intimo, ma i grandi banchetti si allestivano nel piano di sotto. Qui lo spazio era più ampio e soprattutto, dato che questi eventi erano serali e notturni, a causa dell’illuminazione con fiamme nude si limitava al massimo il pericolo di incidenti che avrebbero potuto causare un incendio devastante. Nel podklet infatti erano sistemate le cucine (strjapusci)…

 

A parte, nel piano superiore, c’erano le cosiddette svetlizy o camere delle donne in cui l’illuminazione era data dalle finestre e non c’erano pec’ki per riscaldamento poiché questi ambienti erano usati durante l’estate!

 

Nella povaluscia si dormiva per terra su stuoie di feltro coperte da pellicce e ci si copriva con altre pellicce e il Knjaz, temendo per la propria vita, dormiva insieme ai suoi uomini più fidati e sempre all’erta. Soltanto quando desiderava incontrare sua moglie, andava a visitarla nella di lei svetliza.

 

Il timore costante dell’attentato poneva il Knjaz in modo molto critico di fronte al cibo e a chi lo preparava per cui il cuoco o la cuoca dovevano essere fidatissimi e attentissimi poiché in qualsiasi caso dubbio in cui il Knjaz si fosse sentito male, i primi a temere per la propria vita erano proprio loro! E’ probabile che proprio a causa di ciò, la carne arrostita fosse preferita senza salse e intingoli in principio sospetti!

 

Dalla sommaria descrizione data sopra non dobbiamo immaginarci il terem come una costruzione semplice e solitaria e isolata, ma come parte di un’usad’ba (che abbiamo preferito interpretare come cascina) dove c’erano campi e orti in cui si coltivava di tutto, salvo naturalmente le derrate che venivano dalla campagna o addirittura dall’estero! Nel terem di Kiev probabilmente si piantarono anche i primi alberi da frutto dopo che questi erano stati “provati” nel vicino Convento delle Grotte dove infatti è registrata la piantumazione del primo melo intorno al XIII sec. d.C.! Dalle Cronache Russe sappiamo che il podklet era sempre ricolmo di derrate alimentari in quantità veramente enormi ed eccessive, stando alle descrizioni fatte in occasione di rivolte e conseguente saccheggio da parte del cosiddetto popolaccio (cjorn’). Queste rivolte successe abbastanza di frequente a Kiev (e in altre città) e talvolta taciute dalle Cronache Russe ci dicono come il rapporto fra il potere e il popolo fosse molto instabile… ma questa è un’altra faccenda!

 

Una cerimonia magica del Knjaz che prevedeva un banchetto finale è la caccia (ohota).

Tutti erano obbligati ad aiutare nella preparazione di questa impresa “guerresca” e nella propiziazione degli dèi che permettevano l’uccisione di alcuni abitanti della foresta. Quando la caccia si sarà finalmente conclusa alla fine della giornata, gli animali uccisi (di grossa taglia, perché già sappiamo che il Knjaz non caccia quelli piccoli), saranno squartati e una parte sarà data anche agli abitanti del posto in un altro grande pir (banchetto, in russo)!. Il Knjaz escluderà dall’offerta nel pir solo alcune parti degli animali, considerate riservate. Il Knjaz infatti non solo ha cacciato per tenersi in forma con le armi, ma anche per rinnovare la propria virilità e il proprio potere fisico che si possono rigenerare proprio con queste parti del corpo delle prede (i testicoli!).

 

Il pir tuttavia fondamentalmente rimane un modo per legare la gente intorno a sé e per far riconoscere la propria autorità, nel caso del Knjaz che lo offre e lo presiede… Una cerimonia sacra dunque, e non un semplice rimpinzarsi! E, siccome quest’uso magico del pranzo è uno dei pilastri fondamentali della socialità umana, rammentiamo che rifiutare un invito a pranzo significa (ancora oggi) rifiutare l’amicizia, l’accordo, la riconciliazione…

 

I Variaghi in Terra Russa, esalteranno questa cerimonia del mangiare e del bere anche perché così si rinnova il patto che i Variaghi della compagnia armata del Knjaz facevano con il loro leader (detto in norreno: il Patto dei suthnautar, ossia di coloro che cuociono il pasto insieme)!

 

Se però questo è il comportamento del circolo intorno al Knjaz, quale sarà quello del contadino “affamato” in un pir? E in quali occasioni “sacre” sarà allestito un incontro conviviale nella casa del contadino slavo? Lo vedremo in un altro capitolo…

 

Per ora diciamo che, una volta fissata la data, veniva nominato un capo del pir che doveva presiedere all’ordinamento dei posti a seconda dell’importanza degli ospiti e dei commensali soliti e, al momento del banchetto, aveva pieni poteri su chiunque (in teoria persino sul Velikii Knjaz) per qualsiasi questione, in special modo nel caso che sorgessero litigi a causa della bevuta oppure per i caratteri permalosi dei convitati. Costui fissava in accordo col cuoco il menu e l’ordine di portata, controllava la salubrità dei cibi e si preoccupava di essere sempre presso il Velikii Knjaz in modo da accontentarlo in qualsiasi sua richiesta, per quanto possibile. A quanto sembra la maggior parte delle stoviglie erano di legno (naturalmente coperte di foglia d’oro!), ma c’era anche argento ben lavorato a profusione come grandi bacili per pulirsi le mani o grandi coppe dove pescare da bere etc.

 

Lista delle bevande servite in occasione di un’ambasciata polacca a Mosca il 12.nov.1667

(da P.V. Romanov, 2000)

 

Idromele di alta qualità (vysc’nevoi), 5 secchi

Idromele al sapore di lampone (malinovoi), 4 secchi

Idromele di altri tipi, 8 secchi

Idromele chiaro e con chiodi di garofano, 15 secchi

Idromele alla noce moscata, 5 secchi

Idromele al cardamomo, 3 secchi

Idromele al sapore di pane (cerstvyi), 2 secchi

Idromele all’orzo, 5 secchi

Birra forte di luppolo, 5 secchi

Birra leggera, 5 secchi

Altre birre, 7 secchi

Braga, 6 secchi

 

1 secchio è pari a ca. 12 litri

 

Invece non erano ammessi coltelli in vista né esistevano forchette in uso. I cibi non erano serviti in piatti personali e i convitati si servivano direttamente con le mani dalle portate messe davanti a loro. In un pranzo presso Basilio II a Mosca (siamo nel XVI sec.) il Barone di Herberstein vide servire un cigno arrosto dal quale Basilio staccò con le mani alcune parti per sé prima di offrirlo anche all’ospite. Qui è da notare che il cigno era considerato un animale diabolico e praticamente immangiabile e trovarlo nel menu del Velikii Knjaz di Mosca è davvero sorprendente per un cattolico latino…

 

Il Knjaz inoltre sedeva più in alto degli altri invitati e nelle sue vicinanze nessuno era ammesso, salvo l’andirivieni del capo convito e degli assaggiatori. Di solito i piatti preparati erano messi in fila dinanzi al Knjaz tutti quanti insieme e questi ne mangiava per primo e soltanto quanto restava veniva passato al resto dei commensali seguendo un certo ordine di importanza. A volte per onorare uno di loro il Knjaz poteva anche raccomandare al capo convito di servire questo ospite prima di altri indicando quale piatto…

 

La cerimonia più interessante erano però osservare gli innumerevoli brindisi. Si diceva che un banchetto non era riuscito, se non si fossero consumate numerose (decine) botti di mjod… Naturalmente presso la tavola dei ricchi scorreva anche vino greco delle specie più dolci come quello che veniva dalle viti di Monemvasia (Malvasia). Ogni commensale aveva l’obbligo di brindare salutando e augurando fortuna e salute al Knjaz e poi con qualche parola di circostanza anche inneggiare all’avvenimento per il quale il pir era stato allestito. Si beveva in corni di uro con orlo e punta argentati, come abbiamo detto. Non vuotare un corno pieno significava non partecipare pienamente al pir e quindi offendere il proprio amfitrione e se restava del liquore nel fondo significava che chi aveva appena bevuto era un bugiardo e l’augurio da lui partecipato non era del tutto sincero. A queste violazioni badava l’attenzione del capo convito e del ganimede (ciasc’nik) che poteva poi riportarlo in un orecchio al Knjaz, causando un putiferio!

 

I giri di brindisi erano numerosi perché era un obbligo finire il pir… in grandissima allegria, ma soprattutto ubriachi! E, attenzione!, l’ebbrezza, come abbiamo detto, non era un comportamento moralmente negativo. Al pir tutti avevano il diritto di dire male o bene, prendere in giro o elogiare presenti e assenti, deboli e potenti senza tema di rappresaglie! E dopo le prime bevute naturalmente ciò era più facile benché ci fosse sempre chi non accettava le parole dette al suo indirizzo e si inalberava causando un parapiglia che era subito represso dal capo convito. Questo interveniva persino con suoi uomini armati e cercava di sviare l’eventuale lite verso un nuovo brindisi oppure invitando ad un combattimento personale fra i contendenti, ma fuori dello spazio del pir possibilmente.

 

Ogni ospite lasciando la tavola doveva ringraziare ad alta voce, non il Knjaz, per carità!, ma gli dèi (o il Dio cristiano dopo l’introduzione del Cristianesimo) che aveva concesso questa possibilità e tanta ricchezza da poter nutrire i convitati con soddisfazione! Un costume sopravvissuto fino ad oggi, ma che faceva parte anche della gost’bà del Knjaz, era poi quello di riempire le “tasche” degli ospiti del cibo rimasto quando costoro lasciavano il banchetto e nessuno poteva rifiutare o fingersi malato per respingere una tale offerta!

 

In moltissimi banchetti c’erano canti e danze al centro della sala con i cantautori mantenuti dal Knjaz stesso. I testi cantati pervenutici erano logicamente l’esaltazione della figura del Knjaz presente e delle sue imprese oppure, in mancanza di queste, di quelle dei suoi antenati, infilando nel repertorio anche testi scurrili e faceti.

 

Quanti erano gli ospiti? Sono citati numeri enormi che a volte vanno oltre le migliaia, ma ciò non deve suscitare meraviglia. Pure in questo, niente è cambiato fino ad oggi! D’altronde il Knjaz avendo presso di sé la sua compagnia d’armi fidatissima chiamata in russo druzhina (resti dell’antico equipaggio variago!) in ogni pir già costoro, come ospiti fissi, erano centinaia! Infatti a seconda della commemorazione è naturale che il Knjaz (o il signore locale) invitasse quanta più gente possibile, anche soltanto per propaganda politica pura e persino dando a molti degli ospiti cibo insufficiente e cattivo.

 

Se questo era il pir presso il terem, più o meno dello stesso tenore erano quelli tenuti dai bojari e quelli sacri collettivi nei villaggi per le feste comandate, naturalmente con un’ostentazione di abbondanza di gradi diversi.

 

La Chiesa Russa naturalmente intervenne per evitare le orge e l’ubriachezza inopportuna che marchiò come aspetti pagani da aborrire tutti i piry del passato. L’ubriachezza bisognava invece tollerarla sebbene fosse poi temuta per le ragioni sopra dette quando scioglieva la lingua a chi era in preda ai fumi del mjod. Inoltre si dava una brutta immagine specialmente se l’ubriaco era un prelato o un pop visto che, addirittura, quasi sempre nei conviti era presente un uomo di chiesa…

 

Per primo è lo stesso san Teodosio delle Grotte (XI sec.) che si esprime così sull’ebbrezza, quasi classificandola: “Una cosa è l’ubriachezza maligna e un’altra è il bere misurato e secondo le leggi (?!) e in tempi giusti e alla gloria di Dio!”, mentre la Pravda Russkaja contemporanea prescrive delle multe blande e le addebita tutte al vescovo… se l’ubriaco è un suo prelato o sottoposto!

 

Nel XII sec. ancora Vladimiro Monomaco, Velikii Knjaz di Kiev, nel suo Insegnamento (Poucenie) condanna in modo chiaro l’ebbrezza ed esorta i suoi discendenti a non cadere mai in tale stato.

 

In verità tutte queste prescrizioni, condanne e pene che appaiono negli scritti ufficiali sono soltanto delle buone intenzioni dei legislatori o di coloro che se ne preoccupano mentre poi nel gorod e nel villaggio si indulgeva tranquillamente a bere senza limiti effettivi. L’ubriachezza aiutava in tanti casi a dimenticare e a mettere da parte i problemi.

 

Certo! Al pop del villaggio fu data la direttiva di non provocare il bere smodato diventando ebbro lui stesso, come abbiamo visto, ma questo personaggio nei suoi sforzi di integrarsi alla popolazione delle cui anime doveva occuparsi si trovò davanti a tantissime difficoltà che l’occasione di una festa che scivolava verso la confusione e la promiscuità orgiastica antica lo aiutava persino a trovar moglie fra le ragazze del posto! Possiamo dunque immaginare come il pop avendo a disposizione il pregiatissimo vino da messa lo ponesse anche a disposizione dei suoi pochi amici del villaggio (al di là dell’additare ufficialmente i piry del mir come riti pagani) al posto del plebeo e pagano mjod…come ci raccontano le byline! Nel villaggio si continuò a frequentare il pir come l’occasione dove stare insieme in serenità e allegria edonistica, con tutte le abitudini e i costumi tradizionali di cui si restò gelosamente custodi perdonando gli eccessi.

 

Anche la donna beveva, in città e così nel mir. Questo è comprensibile quando si pensa che era proprio lei a preparare le bevande, fermentate e non, ma, a quanto pare, meno dei congiunti maschi. Si conservò anzi un sano costume da parte delle donne. Alla fine di un pir all’aperto toccava proprio alle donne fare un’ispezione per vedere se tutti gli uomini fossero in piedi e non corressero il rischio di morire rimanendo stravaccati per terra all’addiaccio.

 

Era credenza che una morte di questo genere destinava il defunto ad una vita nell’aldilà senza pace  giacché da morto impuro nessuno lo avrebbe mai sepolto. Perciò occorreva rimettere in piedi l’ubriaco per portarselo vivo a casa! Oltre a ciò c’erano degli scongiuri da pronunciare ad alta voce lasciandolo dormire ben infagottato sotto l’occhio vigile della donna. Questa rimaneva allora attenta, ma non doveva assolutamente dormire! Come fare a restare sveglia? Per riuscire a vegliare era prescritto tenere nelle mani della cera bianchissima e pronunciare altri scongiuri ad alta voce.

 

  1. Scongiuro per smaltire la sbornia                         (A.V. Kapylova, 2003)

Alcol e vino abbandonate questo corpo e andatevene nella foresta dove gli uomini giusti non vanno, dove i cavalli non pascolano e gli uccelli non volano … Fatelo ritornare in sé quest’uomo, vostro schiavo (cioè degli dèi)…

 

  1. Scongiuro per tenersi sveglia

Alba-albuccia bella bimba, tu stessa madre e regina e tu o Luna e voi o Stelle portatemi l’insonnia e tu… stenditi vicino a me e manda via dal mio corpo questo cattivo spirito (prendendo su di sé la personalità dell’ubriaco che dorme)…

 

N.B. Tutti questi scongiuri sono stati naturalmente registrati dopo l’introduzione del Cristianesimo e quindi sono accompagnati da ripetuti segni di croce e da ripetute invocazioni al Dio cristiano, alla Trinità, agli Angeli etc. (ACM)

 

Dietro questi rituali però ci si proteggeva anche da un’altra minaccia, quella più grave. Di notte gli stregoni vanno in giro per mutilare i cadaveri freschi o i dormienti ubriachi e, con questi pezzi, preparare i loro pasti magici…



 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 215/2005 DEL 31 MAGGIO]

.

.