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N. 105 - Settembre 2016 (CXXXVI)

STORIA DEL RESTAURO LAPIDEO

La percezione dell’antico nel corso dei secoli – Parte I
di Maria Laura Corradetti

 

Oggigiorno la pratica del restauro si ispira alla lezione di Cesare Brandi, secondo la quale il restauro, riconosciuto come atto distinto dalla creazione e dalla vita storica dell’oggetto, intende ridurre al minimo indispensabile il peso della sua presenza e interferenza, anche in previsione di una sua possibile epurazione. L’idea di un restauro che si possa modificare parte dal presupposto che questo non è altro che: «[…] lo specchio del gusto e dell’attitudine critica di ogni epoca, ed in particolare il restauro delle opere d’arte antiche, le quali, volta a volta, esaltate o respinte, sono quelle su cui si è più volte esercitato il diritto che ha ogni generazione di rivivere il passato secondo la propria esperienza» (M. Cagiano de Azevedo, Il gusto nel restauro delle opere d’arte antiche, Roma, 1948, p. 5).

 

Fu nel Rinascimento che le sculture antiche dettero l’impulso per un restauro motivato dalla sconfinata ammirazione per il loro intrinseco valore artistico, complice senz’altro una progressiva laicizzazione della cultura, segnando uno scarto dal Medioevo che le ammantava, invece, di altri significati. Finalmente si apprezzava l’oggetto per essere la concretizzazione di un’ispirazione artistica, prova eccelsa dell’ingegno umano. «Il restauro delle sculture antiche è dunque una delle prime grandi casistiche in cui si può cominciare a parlare di restauro in senso moderno, cioè che nasce dall’apprezzamento del valore artistico dell’opera, e non perché ad essa si attribuisce un valore strumentale d’uso. Per questi ed altri motivi il restauro delle sculture classiche costituisce un capitolo a sé […], con caratteristiche proprie, diverse talvolta da quelle del restauro che si incontra in altri generi artistici» (M. Ciatti, Appunti per un manuale di storia e di teoria del restauro: Dispense per gli studenti, Firenze, 2009).

 

Si parla di nascita del restauro moderno in quella fase storica, in quanto trovava la sua giustificazione nel riconosciuto valore artistico dell’opera artistica scevra, appunto, di qualsiasi altra motivazione, ma le finalità e metodologie erano frutto di un’intenzione completamente lontana dai criteri moderni. Infatti a fronte di sculture perlopiù mutile e frammentarie, scoperte casuali da scavi di fondazioni o da attività agricole, l’artista e l’erudito si sentivano investiti della missione di restituire loro la dignità perduta attraverso l’integrazione delle parti mancanti, per un ritorno a quell’armonia e perfezione che le contraddistinguevano. L’intenzione era di ripristinare l’efficacia evocativa e suggestiva di ogni scultura, in un confronto intellettuale tra l’artista del passato e quello del presente.

 

Al Museo Nazionale del Bargello a Firenze, ad esempio, è custodito un busto antico restaurato da Benvenuto Cellini come Ganimede, riportato spesso nei testi come esempio di quel rapporto di stima che nobilitava, a giudizio dello stesso Cellini, la altrimenti sterile attività del “rattoppo”: «E se bene e’ non si conviene amme il rattoppare le statue, perché ell’è arte da certi ciabattini, i quali la fanno assai malamente; in però l’eccellenza di questo gran maestro mi chiama asservirlo» (B. Cellini, La vita di Benvenuto Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze [1728], Roma, 1956, libro II, capo LXIX).

 

Il mercato antiquariale, poi, accentuava il bisogno che nel restauro non fossero di disturbo le parti aggiunte, che quindi dovevano essere perfettamente mimetizzate per conferire un plusvalore all’oggetto spacciato per opera integra. Per questo nelle botteghe non si lesinava, con misture segrete, a pulire la parte originale e a patinare le nuove per dare loro un aspetto, un colore, pari a quello del marmo antico.

 

Non era raro che il gusto per l’antico prendesse il sopravvento, tanto da non trovare sufficientemente antiche le “anticaglie” decidendo, perciò, di rilavorare le superfici: «Non parliamo poi di tutte le levigature, lucidature e rifiniture delle superfici inflitte a tanti marmi classici, primo fra gli altri quella della Artemide a Versailles che si vide applicare una energica cura dimagrante alle gambe, dalla quale uscì più esile e snellita» (M. Cagiano de Azevedo, Il gusto… op. cit., p. 22). Non sorprenda che i restauri arrivassero a modificare i connotati fisici delle parti originali: non è altro che l’inevitabile conseguenza ogni qualvolta una determinata temperie culturale adattava l’antico all’idea che dell’antico si era fatta.

 

Nel corso del Seicento sembra che una caratteristica propria della maniera italiana fosse di sottoporre le statue restaurate a una lucidatura a base di acqua forte e pietra pomice, che irreparabilmente consumava la superficie lapidea con nuovi danni sul modellato e con buona pace della patina originale. Per dare un’idea di quanto aggressive potessero essere simili procedure, l’acquaforte, nella ricetta riportata dal Vocabolario Toscano dell’Arte del Disegno di Filippo Baldinucci, era formata da aceto bianco fortissimo, sale armoniaco bianco, sale comune e verderame, mentre nell’Encyclopédie di Diderot, alla voce «eau forte», risultava essere formata da acido nitrico e vetriolo. Queste pratiche, riproposte nel tempo ogni qualvolta sembrava necessario, insieme alla convinzione che sotto il profilo conservativo le sculture potessero sopportare interventi di un certo peso, hanno necessariamente inciso sul modo in cui le opere sono giunte sino a noi. Al persistere delle azioni di completamento massiccio, si affiancava anche l’esigenza di amalgamarne le parti.

 

Se nel XVI secolo «[…] il sistema generalmente diffuso per qualsiasi restauro era di livellare completamente le fratture in modo da assicurare un perfetto combaciamento ai tasselli o alle parti aggiunte, che venivano applicate con grappe e mastici» (G. Mansuelli, Restauri di sculture antiche nelle collezioni medicee: note critiche e documentarie sul restauro di antichità nel secolo XVI, in Il mondo antico nel Rinascimento, Atti del V Congresso Internazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, 1958, p. 181), ancora nel Seicento, per quanto concerne l’operatività, niente era cambiato. Orfeo Boselli, scultore-restauratore romano, autore del trattato Osservazioni della scoltura antica, sottolineava la poliedrica destrezza richiesta in tutte le sfaccettature del suo mestiere, anticipando, in questo senso, quel riscatto professionale rivendicato dai suoi colleghi del Settecento che si erano dedicati al reintegro scultoreo. Nel testo, relativamente al restauro delle statue antiche, riporta la sua ricetta della «mistura» per gli incollaggi (a base di pece greca e polvere di marmo), o quella dello «stucho bianco» per le stuccature (fatto con cera bianca e polvere di marmo). Infine, l’immancabile patinatura come tocco finale per intonare la parte nuova a quella antica.

 

Nel Settecento l’abate Luigi Crespi, pittore bolognese molto critico sui restauri contemporanei, affermava, in polemica con l’intervento di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffaello alla Farnesina: «E chi non vede che trattandosi di aggiungere gambe, braccia, teste, mani e simili, ecc, le quali manchino ad una statua, trattasi di un’aggiunta che per niente tocca l’antico, cui si aggiunge; per niente il difforma e può ad ogni ora levarsi a piacimento senza lesione del vecchio. Chi non vede quanto sia più facile l’imitarsi da uno scultore la maniera del contorno, di una statua, non dovendosi da esso imitare che una sol cosa, di quello che sia ad un pittore, il dover imitare una maniera d’un altro, trattandosi di molte cose insieme, che richiede una tale imitazione? Chi non vede che l’aggiunta del pittore, o sia ritocco, non può farsi senza metter le mani nel vecchio dipinto, se voglia unirsi al vecchio il dipinto nuovo? Senza parlare del cambiamento suddetto, cui è soggetto il dipinto, e non la statua; e dato anche che il marmo prenda la sua patina, punto non disdice o scomparisce all’occhio, essendo un marmo istesso non di un solo colore, ma variato e diversamente patinato; oltre la facilità che vi è di patinare egualmente tutta una statua, o pure di rendere l’aggiunta patinata qual è il rimanente» (G. Bottari, S. Ticozzi (a cura di), Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura [1822], riproduzione anastatica, vol. III, Bologna, 1979, pp. 406-407).

 

Insomma, il pericolo insito nell’operazione del restauro era percepito solo se si risolveva in punta di pennello, la solidità della scultura e l’erronea certezza che il suo linguaggio espressivo da sempre non prevedesse una grammatica coloristica, ammettevano modi più spicci e tecniche di pulitura tanto aggressive da ledere quella stessa corporeità che si desiderava far risaltare. In realtà, quei restauri nei quali non ci si peritava a sacrificare porzioni di materia per poter assemblare le integrazioni, andrebbero parificati alla stregua di quei ritocchi pittorici che, come temuto da Crespi, nel tentativo di congiungersi con l’originale arrivavano a impiastricciare il dipinto.

 

Nel Settecento, in piena età dei lumi, epoca in cui si sostenevano i criteri scientifici e razionali della conoscenza, in campo artistico una eco formidabile ebbero gli scavi di Ercolano (1738) e Pompei (1748), che stimolarono gli studi sui pigmenti e tecniche di pittura antica, sancendo, insieme alla scultura antica, un importante mutamento di rotta nel rapporto con l’antico. Grazie alla figura di Johann Joachim Winckelmann, riconosciuto come creatore di un nuovo sistema metodologico con cui conferire veste scientifica alla storia dell’arte, lo studio non scorporava più le opere artistiche antiche come entità a sé, ma si cimentava nella ricostruzione della loro cronologia. La scultura, cioè, non era più solo un manufatto artistico, ma documento storico.

 

Questo ebbe inevitabilmente delle ripercussioni anche nel campo del restauro. Infatti l’intendimento di ricostruire l’evolversi delle forme artistiche, presupponeva un completamento della scultura che garantisse una veritiera identificazione iconografica e un adeguamento in stile, con sostituzione dei restauri cinquecenteschi o barocchi quando tali risultati figurativi, alquanto disinvolti, adeguavano invece le antichità ai canoni estetici contemporanei. La figura del restauratore acquistava finalmente una sua autonomia per la specializzazione e capacità richieste.

 

Non si negava ancora il rifacimento delle parti mancanti, ma, se non altro, si desiderava che fosse preceduto da uno studio che ne assicurasse una corretta interpretazione. Sostenitore del pensiero winckelmanniano fu lo scultore romano Bartolomeo Cavaceppi, che in caso di mancato riconoscimento preferiva non caratterizzare il soggetto. Almeno teoricamente, infatti: «Peccato che a tanta teoria non abbia corrisposto una pratica altrettanto ferma: bastava trovare un semplice tronco ed ecco là che l’aggiunta di gambe, braccia moderne e di una testa non pertinente lo trasformava in una bella statua da vendere a qualche inglese» (M.G. Barberini, La vita di Bartolomeo Cavaceppi, in Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717-1799), catalogo della mostra, Roma, 1994, p. 30).



 

 

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