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										contemporanea 
										
										L’ISTRUZIONE NEI PRIMI DECENNI DEL REGNO 
										D’ITALIA  
										
										PARTE II / LA LEGGE COPPINO  
										
										di Raffaele Pisani 
										
										  
										
										Già nel 1867 il ministro della Pubblica 
										Istruzione Michele Coppino operava dei 
										ritocchi ai programmi per la scuola 
										elementare, volti a 
										
										“semplificare 
										ragionevolmente la materia già data dei 
										vecchi programmi e di coordinarla al 
										meglio”, 
										come si legge nelle Considerazioni 
										generali delle Istruzioni del 
										sopraccitato ministro.  
										
										  
										
										Il fine della formazione elementare era 
										duplice: per le classi popolari essa 
										costituiva la sola e unica forma di 
										ammaestramento, come si diceva 
										allora; per altri, appartenenti a ceti 
										sociali più elevati, detta istruzione 
										era invece propedeutica agli studi 
										successivi.  
										
										  
										
										L’attenzione del legislatore era rivolta 
										in primo luogo agli strati più bassi 
										della popolazione, per liberarla 
										dall’analfabetismo. In questi ritocchi 
										non è menzionata la religione, si parla 
										invece di 
										
										“Nozioni 
										dei doveri dell’uomo e del cittadino”. 
										Questa omissione è stata variamente 
										interpretata: c’è chi diceva che si era 
										inteso mettere l’insegnamento religioso 
										in secondo piano, a favore di 
										un’educazione più prettamente civica, 
										altri invece ritenevano che le vecchie 
										disposizioni, ancora valide, non 
										avessero bisogno di altre 
										puntualizzazioni. Del resto, il discorso 
										è incentrato soprattutto sulla lingua 
										italiana, per il motivo che abbiamo 
										detto poco sopra, le disposizioni 
										riguardanti l’aritmetica sono molto 
										ridotte. 
										
										  
										
										La 
										notorietà di Coppino è legata 
										soprattutto alla legge del 1877, che 
										porta il suo nome e introduce in maniera 
										più decisa l’obbligo scolastico. 
										L’articolo 1 nella sua prima parte così 
										recita: 
										I 
										fanciulli e le fanciulle che abbiano 
										compiuto l’età di sei anni, e ai quali i 
										genitori o quelli che ne tengono luogo 
										non procaccino la necessaria istruzione, 
										o per mezzo di scuola private ai termini 
										degli articoli 355 e 356 della legge 13 
										novembre 1859, o coll’insegnamento in 
										famiglia, dovranno essere inviati alla 
										scuola del comune. 
										
										
										  
										
										Il 1876 aveva visto l’avvento della 
										Sinistra storica la potere, che, pur con 
										tutti i limiti del suo moderatismo e 
										della sua tendenza al compromesso, 
										manifestava comunque una diversa 
										sensibilità. La nuova classe politica 
										vedeva nell’istruzione delle masse un 
										elemento fondamentale per lo sviluppo 
										della nazione. Si trattava di educare il 
										popolo ai patri valori e anche di 
										istruirlo sui primi rudimenti del 
										sapere.  
										
										  
										
										La legge n. 3961, sull’obbligo 
										dell’istruzione elementare, vide quindi 
										la luce il 15 luglio 1877. Essa si 
										proponeva di rendere effettivo 
										l’obbligo, già peraltro previsto nella 
										precedente legislazione anche se 
										largamente disatteso. Ai comuni fu 
										affidato il compito di sorvegliare e di 
										operare affinché i bambini dai sei ai 
										nove anni frequentassero il corso 
										inferiore della scuola elementare (artt. 
										3, 4, 5, 6). Per far questo avrebbero 
										dovuto stanziare una parte dei fondi del 
										bilancio, con possibilità anche di 
										aumentare le entrate, nei termini 
										previsti dalla già citata legge Casati. 
										
										  
										
										Nel 1888, durante il secondo governo 
										Crispi con Paolo Boselli alla Pubblica 
										Istruzione, vennero emanati i programmi 
										per la scuole elementari, definiti dagli 
										storici come positivistici. La 
										commissione preposta alla loro 
										elaborazione era composta di studiosi 
										che gravitavano intorno a questa linea 
										filosofica.  
										
										  
										
										Il più citato è Aristide Gabelli, già 
										autore di un Metodo di insegnamento 
										nelle scuole elementari d’Italia, 
										nel quale si parla della necessità di 
										insegnare una modalità di approccio al 
										sapere che parta dalla percezione 
										sensoriale dei dati concreti. Detti 
										programmi si proponevano quindi in primo 
										luogo l’obiettivo dell’acquisizione di 
										un habitus piuttosto che l’apprendimento 
										di nozioni libresche. Davano inoltre 
										importanza all’educazione civica, alla 
										ginnastica, al canto e alla musica. 
										Mancava invece l’insegnamento della 
										religione, che costituiva materia 
										facoltativa, per la quale lo Stato non 
										intendeva intervenire. 
										
										  
										
										I commentatori hanno fatto notare come 
										fra le Istruzioni, che costituiscono la 
										parte preponderante del testo, e i 
										Programmi veri e propri vi sia una 
										notevole distanza, come pure distanti 
										erano le possibilità di realizzazione di 
										quanto si affermava nella concreta 
										prassi didattica.  
										
										  
										
										Non passarono che sei anni e il ministro 
										della Pubblica Istruzione, Guido 
										Baccelli, presentava al re i Nuovi 
										Programmi per la scuola elementare, 
										definiti dagli storici della scuola come
										Programmi del conservatorismo. 
										
										  
										
										L’Italia visse l’ultimo scorcio 
										dell’Ottocento in una crisi profonda, 
										alla quale le istituzioni risposero con 
										una chiusura reazionaria che porterà ai 
										noti tragici eventi, tanto per citare 
										quelli più eclatanti, possiamo ricordare 
										i moti di Milano nel 1898, la spietata 
										repressione attuata dal generale Bava 
										Beccaris e il tentativo, peraltro non 
										riuscito, del Primo Ministro Pelloux 
										(1898-1900) di esautorare il parlamento 
										delle sue prerogative. Il regicidio del 
										1900, avvenuto durante il governo del 
										moderato Saracco, sembrò far precipitare 
										l’Italia in una spirale di insurrezione 
										e repressione, che per fortuna non si 
										verificò.  
										
										  
										
										Questo clima di chiusura era già 
										iniziato qualche decennio prima, con i 
										Governi Crispi e Rudinì e, a parte la 
										breve parentesi del Governo Giolitti 
										(1892-93), proseguì con un altro governo 
										Crispi e poi ancora con Rudinì. 
										
										  
										
										La scuola del Regno d’Italia svolgeva la 
										sua funzione tentando di inculcare, con 
										i mezzi che le erano propri, i valori 
										della classe dominante; i Programmi del 
										1894 si proponevano questo obiettivo, 
										considerando i precedenti troppo 
										progressisti. Si temeva da parte dei 
										conservatori che la scuola potesse 
										diventare sobillatrice di pericolose 
										idee; a questo proposito sono 
										emblematiche le parole del già citato 
										ministro Baccelli: 
										
										“Istruire 
										il popolo quanto basta,educalo più che 
										si può”. 
										Si trattava chiaramente di educare ai 
										valori che chi era al potere non 
										intendeva mettere in discussione. 
										
										  
										
										Il conservatorismo che dominava la scena 
										politica, accompagnato talvolta da punte 
										di pensiero reazionario, vedeva con 
										preoccupazione l’emancipazione della 
										masse a cui la scuola contribuiva; nel 
										corpo insegnante non pochi maestri 
										avevano idee socialiste.  
										
										  
										
										Giovanni Giolitti in un libro 
										autobiografico intitolato: Memorie 
										della mia vita, così racconta:
										
										«Si 
										raccolse a Caltagirone un congresso di 
										grossi proprietari, il quale ebbe il 
										coraggio di proporre, per tutta riforma, 
										abolizione dell’istruzione elementare, 
										perché i contadini e i minatori non 
										potessero, leggendo, assorbire delle 
										idee nuove». 
										
										  
										
										In questo clima vennero emanati i nuovi 
										programmi per la scuola elementare 
										(1894), presentati come semplificazione 
										di ciò che era troppo prolisso. Sono 
										stati comunemente considerati dai vari 
										storici della scuola come ispiratori di 
										una spirito conformistico e forse anche 
										controriformistico.  
										
										  
										
										Nel 1889 vennero aggiunte ai programmi 
										le Istruzioni per l’insegnamento 
										delle prime nozioni di agricoltura, del 
										lavoro manuale educativo, dei lavori 
										donneschi, dell’igiene e dell’economia 
										domestica. Vi erano scuole rurali 
										con annesso campicello e scuole urbane 
										che in certi momenti diventavano 
										laboratori. Lo scopo era in primo luogo 
										didattico: osservazione della natura e 
										dell’intervento umano nelle coltivazioni 
										agrarie, acquisizione di nozioni 
										teoriche attraverso la pratica ragionata 
										del lavoro manuale; come finalità di più 
										lungo termine questi insegnamenti si 
										proponevano di avvicinare il popolo alla 
										terra e al lavoro in genere.  
										
										  
										
										Ciascuno era chiamato a operare 
										nell’ambiente in cui era nato, senza 
										illusioni di cambiamenti sociali, quanto 
										poi agli alunni destinati agli studi 
										superiori, la pratica del lavoro avrebbe 
										dovuto renderli più coscienti del valore 
										e delle fatiche che questo comporta. 
										
										  
										
										Arrivando al nuovo secolo, si ricorda la 
										legge Nasi del 19 febbraio 1903, n. 45, 
										questa introduceva la figura del 
										direttore didattico, per i comuni con 
										popolazione superiore a diecimila 
										abitanti, con almeno 20 classi 
										elementari. La legge Orlando dell’otto 
										luglio 1904, n. 407, estendeva l’obbligo 
										scolastico fino al dodicesimo anno di 
										età, prima e seconda costituivano il 
										corso inferiore, terza e quarta quello 
										superiore, quinta e sesta il corso 
										popolare. Le norme applicative per la 
										verità ridimensionavano sensibilmente il 
										dettato legislativo, ai comuni non era 
										fatto obbligo di attuare il corso 
										superiore e quello popolare, se non lo 
										ritenevano opportuno.  
										
										  
										
										I primi decenni del Regno d’Italia 
										furono assai ricchi di disposizioni 
										legislative riguardanti la scuola 
										elementare; i nuovi programmi che si 
										susseguirono a breve distanza di tempo 
										non costituivano tuttavia un capriccio 
										del legislatore ma derivavano dalla 
										presa di coscienza di una situazione 
										nazionale che di volta in volta 
										richiedeva degli aggiustamenti. 
										 
										
										  
										
										I Programmi del 1905 si collocavano in 
										un’epoca di rilevanti aperture sociali, 
										comunemente denominata Età 
										giolittiana. Il decollo economico 
										portava con sé molti problemi connessi 
										con la concentrazione di popolazione 
										nelle città industriali, d’altra parte 
										l’emigrazione d’oltralpe e 
										d’oltreoceano, già iniziata nei decenni 
										precedenti, ebbe la sua punta massima 
										negli anni del Novecento precedenti il 
										primo conflitto mondiale. 
										
										  
										
										La classe politica, anche quella più 
										recalcitrante, prendeva sempre più 
										coscienza dell’importanza 
										dell’istruzione elementare, quantomeno 
										per l’apprendimento della lingua 
										italiana e delle prime nozioni di 
										calcolo Era chiaro inoltre che 
										l’istruzione costituiva il veicolo 
										fondamentale per la trasmissione dei 
										valori nazionali, per completare 
										quell’unione sociale e culturale 
										faticosamente iniziata dopo 
										l’unificazione politica del territorio 
										della penisola. 
										
										  
										
										I nuovi programmi miravano quindi al 
										potenziamento della lingua italiana, 
										eliminando il più possibile ogni traccia 
										di dialetti regionali, l’insegnamento 
										storico rivestiva un carattere 
										prettamente patriottico, illuminato, per 
										così dire, dall’educazione morale e 
										civile. 
										
										Abbiamo parlato soprattutto 
										dell’istruzione elementare perché è 
										quella che in questo periodo ha 
										caratterizzato maggiormente l’interesse 
										del legislatore.  
										
										  
										
										L’educazione dell’infanzia era pressoché 
										totalmente affidata alla Chiesa. A parte 
										qualche rara iniziativa di eccellente 
										valore pedagogico come gli asili 
										aportiani o il Kindergarten, 
										rivisto dalle sorelle Agazzi, i bambini 
										di età prescolare venivano semplicemente 
										accuditi, facendoli giocare e insegnando 
										loro preghiere e qualche filastrocca. 
										
										  
										
										Per la secondaria non sono mancati 
										interventi, peraltro limitati, legati a 
										problemi che si venivano a evidenziare 
										nel coso del tempo. La scuola normale 
										triennale, da frequentarsi dopo un 
										triennio di scuola complementare, entrò 
										a pieno titolo nell’ordine secondario, 
										prima la preparazione dei maestri era 
										alquanto irregolare. 
										
										  
										
										Il ginnasio-liceo continuava la sua 
										linea senza particolari variazioni; 
										permaneva un solo tipo di liceo: quello 
										classico. Il liceo moderno, già 
										contemplato nella Legge Casati, troverà 
										limitata attuazione nei primi decenni 
										del Novecento. In questo ambito, la 
										Chiesa, pur sotto il controllo dello 
										Stato, manteneva ancora un ruolo 
										rilevante. 
										
										  
										
										Qualche novità avveniva nell’istruzione 
										tecnica, scuole comunali e istituti 
										provinciali cercavano di adeguarsi agli 
										sviluppi del mondo produttivo. Veniva 
										potenziato l’istituto nautico, vista 
										l’importanza di questo settore nella 
										nostra penisola. Nel 1871 la sezione 
										fisico-matematica dell’istituto tecnico 
										passava da triennale a quadriennale, nel 
										1885 anche gli altri indirizzi tecnici 
										diverranno quadriennali. 
										
										  
										
										L’accesso all’università era consentito 
										solo a chi aveva conseguito la maturità 
										classica e, in misura limitata, a chi 
										proveniva dalla sezione 
										fisico-matematica di cui abbiamo appena 
										detto. Il dualismo tra cultura 
										umanistica e cultura tecnica rimaneva 
										più che mai saldo. 
										
										  
										
										  
										
										Riferimenti bibliografici: 
										
										  
										
										E. Catarsi, Storia dei programmi 
										della scuola elementare (1860-1985), 
										La Nuova Italia Editrice, Firenze 1990. 
										
										F. De Vivo, Linee di storia della 
										scuola italiana, , Editrice La 
										Scuola, Brescia 1983. 
										
										G. Genovesi, Storia della scuola in 
										Italia dal Settecento a oggi, 
										Editori Laterza, Roma-Bari 1998. 
										
										S. Santamaita, Storia della scuola. 
										Dalla scuola al sistema formativo, 
										Edizioni Bruno Mondadori, Milano 1999. |