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N. 127 - Luglio 2018 (CLVIII)

Tutti gli uomini dell’Autonomia Siciliana

Il difficile cammino dello Statuto

di Gaetano Cellura

  

Da buon politico qual era, intellettualmente onesto, l’onorevole Giuseppe Alessi teneva a non ingigantire i propri meriti e a riconoscere quelli degli altri: in specie quelli di Salvatore Aldisio, ma anche di Enrico La Loggia, Guarino Amella, Franco Restivo e Girolamo Li Causi.

 

Alla determinazione di questi uomini, che si riunivano a Palermo, nel vicolo Cerda, dove c’era la sede dell’Ora che presto avrebbe ripreso le pubblicazioni, dobbiamo lo Statuto dell’autonomia siciliana.

 

Votato il 23 dicembre del 1945 dalla Consulta regionale, che era composta da trentasei membri; e poi dal Consiglio dei Ministri, che allora aveva potestà legislativa, il 15 maggio del 1946. C’era ancora Umberto II, e fu lui a promulgarlo.

 

L’avvocato Alessi, primo presidente della Regione (il secondo sarebbe stato Franco Restivo, giovane palermitano che alle riunioni accompagnava Enrico La Loggia), ha raccontato anni fa questa pagina di storia in un’intervista a Giovanni Ciancimino, notista politico del quotidiano La Sicilia.

 

Esaltando lo spirito autonomistico del suo partito, la Democrazia cristiana; e confutando la tesi antistorica, che ebbe larga eco soprattutto al Nord, di un’Autonomia concessa per neutralizzare le rivendicazioni separatiste.

 

L’ideologia dell’autonomismo affonda infatti le sue radici in un lungo cammino storico. Dalle lotte contro i Borboni per la separazione dell’Isola dal regno di Napoli al primo congresso dei democristiani siciliani. Tenutosi proprio nel suo studio di avvocato, nell’autunno del 1943, e presieduto da Salvatore Aldisio, discepolo prediletto di don Luigi Sturzo.

 

“L’Autonomia regionale – dice Alessi – divenne proposta politica concreta, ispirata, secondo la tradizione del pensiero cattolico, al principio del pluralismo istituzionale”. Con Sturzo, che ancora si trovava negli Stati Uniti, i partecipanti al congresso erano in “relazione telefonica”. E il prete di Caltagirone, fondatore del Partito popolare, “approvò e sostenne – ricorda Alessi – il nostro ruolo di autonomisti incondizionati e contrari al separatismo”.

 

Ma chi sono questi uomini che favorirono il processo autonomistico e che oggi drammaticamente mancano alla politica siciliana?

 

Enrico La Loggia entrò in parlamento nel 1919, eletto nella circoscrizione di Agrigento. Sei anni prima ci aveva provato, senza successo, nel collegio di Licata. Era un socialista liberale, esperto di materie economiche e giuridiche, interventista nel Primo conflitto mondiale e poi antifascista, la cui presenza come deputato non passò certo inosservata.

 

Fu sottosegretario alle finanze nel governo Facta e relatore d’importanti proposte di legge per le riforme agraria e mineraria e per l’amministrazione autonoma dei lavori pubblici in Sicilia. Quest’ultima proposta già contiene lo spirito autonomista dell’uomo: vent’anni dopo, caduto il fascismo, si sarebbe concretizzata nella nascita del Provveditorato delle opere pubbliche con sede a Palermo.

 

Dopo lo sbarco degli Alleati, non volle far parte del CLN siciliano, nonostante le pressioni ricevute. Lui preferiva la penna e lo scrittoio, dare il proprio contributo per l’Isola con il pensiero politico e stando dietro le quinte. E da dietro le quinte, con autorevolezza, manovrò tutte le pedine della nuova scacchiera.

 

A Indro Montanelli, che lo intervistò per uno dei suoi Incontri nell’ufficio della Cassa di Risparmio dove trascorse la vecchiaia, sembrò “un incrocio fra Richelieu e G.B. Shaw”. Se ne stava seduto dietro un tavolo ingombro di carte ed era “dritto sulla persona, bianco di baffi e di barbetta, e secco come un ulivo”. Fermo nelle sue convinzioni, gli dimostrò quanto “scandalosamente insufficienti” erano gli aiuti dello stato alla regione: solo un quinto di quelli che avrebbero dovuto essere. Cifre alla mano.

 

A La Loggia si deve l’Articolo 38 della Costituzione. Era scritto in modo così nebuloso, in perfetto stile laloggiano, che si temeva non sarebbe stato capito dai legislatori. E a chi, preoccupato, glielo fece notare, Enrico La Loggia rispose: “In fondo è quello che voglio, a spiegarlo penseranno i fatti”. L’aveva scritto per tutte le regioni, non per la sola Sicilia.

 

Al momento di votarlo Einaudi ebbe più d’una perplessità. Ma l’orientamento generale era di lasciarlo passare perché “non significava niente”.

 

Questo pensavano i costituenti dell’Articolo 38, confusi dalla prosa di La Loggia. Ma la sua applicazione in Sicilia – e la sua durata – avrebbero dimostrato il contrario. E impegnato lo stato a versare alla Sicilia delle somme a titolo di solidarietà nazionale. Significava tanto per la Regione. E Enrico La Loggia seppe ottenerlo.

 

Accanto a lui nel progetto autonomistico per l’Isola c’era un altro grande antifascista, l’avvocato canicattinese Giovanni Guarino Amella, suo competitore nel collegio per l’elezione al parlamento. Giornalista e autonomista fin dal 1906, anche lui, come La Loggia, entrò alla Camera nel 1919. Fu prosindaco di Canicattì (gli si devono la realizzazione di utili opere pubbliche tra cui l’acquedotto Tre Sorgenti) e poi sindaco, quando nel 1943 vi arrivarono gli Alleati.

 

Ma aveva già legato il proprio nome a un avvenimento importante della storia nazionale: la secessione dell’Aventino, in seguito alla quale decadde da deputato. Sul suo giornale, Il Moscone, proponeva le ragioni di un’autonomia spinta e l’istituzione di un’Alta Corte giurisdizionale in Sicilia, sancita dall’articolo 22 dello Statuto, ma poi abolita dallo stato nazionale. Era convinto che solo l’autonomia speciale poteva ridurre le disuguaglianze economiche e la contrapposizione di interessi tra il Nord e la Sicilia.

 

Girolamo Li Causi, l’oratore che a Sala d’Ercole piaceva a tutti, compagni e avversari, aveva fatto quindici anni e tre mesi tra carcere e confino: e “ne era uscito – racconta sull’Ora Pierluigi Ingrassia – con un’adorazione per i bambini”: ché uomini tanti ne aveva visti durante la reclusione, “ma bambini no”. E ogni volta che ne incontrava uno, forte “sentiva il bisogno di carezzarlo”.

 

Per l’autonomia della Sicilia era pronto a collaborare con tutti: non solo con Alessi, ma anche con Scelba e Bellavista da lui politicamente lontani. E fu presente, traendone viva soddisfazione, all’incontro tra Togliatti e i parlamentari siciliani che peroravano la causa dello Statuto e che rimasero contenti della favorevole disposizione del leader comunista.

 

Li Causi studiò a Palermo: all’Istituto Tecnico Parlatore, in piazza Montevergini. E in questa piazza, partecipando alle discussioni degli operai in sciopero che vi si riunivano, maturò la propria coscienza rivoluzionaria. La sua più importante operazione politica fu la costituzione in Sicilia del Blocco del Popolo, che per otto anni, attraverso i propri membri socialisti e comunisti, guidò le lotte sociali e l’opposizione al governo Restivo.

 

Il 16 settembre del 1944 andò a Villalba per un comizio. E don Calò Vizzini si era sistemato di fronte al palco. «C’ero anch’io, ragazzo, nella piazza del paese a sentire Girolamo Li Causi, che era accompagnato da Emanuele Macaluso e da altri» racconta Luigi Lumia nel suo libro Villalba, Storia e memoria.

 

Con la sua voce tonante e in un linguaggio semplice, intercalando frasi in dialetto, cominciò a parlare della Sicilia, dello sfruttamento dei contadini, del feudo, dei gabellotti. Quando le accuse si fecero più precise, don Calò cominciò a urlare: «Non è vero, è falso».

 

I mafiosi spararono e buttarono bombe a mano, mentre Li Causi, che era rimasto ferito, continuava: «A chi spari? Non vedi che stai sparando a te stesso?».

 

Salvatore Aldisio era ministro del secondo governo Badoglio quando gli venne proposto di dirigere l’Alto Commissariato per la Sicilia. Accettò l’incarico a una “esplicita condizione” (precisa Alessi nell’intervista a Ciancimino): la contemporanea emanazione, da parte del governo nazionale, di “un decreto istitutivo della Consulta regionale, avente il compito espresso di provvedere alla redazione dello Statuto per l’Autonomia”.

 

C’era tanto del progetto politico di don Sturzo e della tradizione del Partito popolare in questa richiesta di Aldisio; e tanto della volontà dei democratici cristiani del dopoguerra, decisi a staccarsi dal partito nazionale se non assumeva nel suo programma l’autonomia regionale della Sicilia.

 

Nonostante l’intransigenza del Psi di Nenni, che riteneva la materia dell’autonomia di competenza della Costituente, Aldisio e la Dc siciliana vinsero questa prima battaglia e si prepararono a vincere la seconda.

 

Quella del voto per l’elezione dell’Ars nel 1947, una volta promulgato lo Statuto. E cioè molto prima che la nuova Costituzione della Repubblica, che doveva recepirlo e coordinarlo con le altre leggi, entrasse in vigore. Anche in questo caso le resistenze non mancarono, ma la caparbietà di Alessi e “l’intervento attuativo dell’on. Aldisio” permisero alla Sicilia di superare anche questo ostacolo.

 

A vincere le elezioni fu però il Blocco del Popolo: ventisei deputati contro i venti della Dc. Né l’uno né l’altra avevano i numeri per governare. Iniziò così un altro lavoro di paziente tessitura da parte di Alessi, di quest’uomo formato dagli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, antifascista e repubblicano.

 

Più del governo – allora c’era ben poco da gestire sul piano amministrativo e legislativo – a lui interessava la difesa dello Statuto da “ogni tentativo riduttivo” da parte dell’Assemblea Costituente. Il clima era infuocato: il Blocco del Popolo proponeva un governo di centrosinistra come quello nazionale, che avrebbe avuto la maggioranza assoluta; ma la destra si diceva pronta a sostenere, senza contropartita, un qualsiasi governo che escludesse i socialcomunisti.

 

E alla fine, per evitare i tumulti cui avrebbe dato origine un governo della Dc sostenuto dalla destra agraria, fu proprio lui, per l’opera svolta alla Consulta per lo Statuto e perché ritenuto “vicino” alla sinistra, a dover guidare il governo.

 

“Così comincia la mia storia di primo presidente della Regione” dice Giuseppe Alessi. Che giudica in modo positivo la prima fase dell’Autonomia siciliana. “Sono stati realizzati ospedali, scuole, strade, opere di edilizia popolare, orfanotrofi, illuminazione e fognature nei comuni”.

 

Aiuti sono stati dati a settori in perdita come quello dello zolfo; o in salute come quello petrolifero, dei sali potassici, dei cementifici. “Ma non è sempre primavera” conclude con visibile amarezza il primo presidente della Regione.

 

Passato l’entusiasmo iniziale, uno scadimento c’è stato: “Non può negarsi”. E né l’Ars né la stampa hanno reagito a uno Statuto rimasto inattuato in alcune sue disposizioni e “manomesso in altre, crudelmente e programmaticamente”.



 

 

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