N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
modernità del mondo antico
Spiritualità e forza del paganesimo
di Miro Gabriele
C’è oggi un grande e rinnovato interesse per il mondo antico
e
per
le
sue
letterature,
in
particolare
per
quella
latina.
Soltanto
una
decina
d’anni
fa,
il
latino
sembrava
destinato
a un
triste,
inesorabile
declino;
ora
basta
dare
un’
occhiata
in
giro
per
accorgersi
del
contrario.
L’editoria non fa che riproporre classici in collane economiche,
negli
Stati
Uniti
le
facoltà
umanistiche
riaprono
le
classi
di
latino,
la
Radio
Televisione
Finlandese
trasmette
settimanalmente
un
notiziario
radiofonico
in
lingua
latina.
L’idioma dei nostri antenati è ben presente nei nuovi territori
di
Internet,
numerosi
sono
i
siti
redatti
in
latino
con
i
loro
forum
di
discussione,
ed è
possibile
reperire
on
line
l’intero
corpus,
o
quasi,
della
letteratura
latina.
La famosa Wikipedia, la libera enciclopedia in rete, fra le
sue
numerose
edizioni
ha
anche
quella
latina.
Solo l’Italia, patria geografica del latino, è in controtendenza
come
al
solito,
l’interesse
per
questa
lingua
sembra
affievolirsi
nella
società
e
nella
scuola
del
nostro
paese,
abituato
da
sempre
a
prendere
dall’estero,
in
particolare
dal
mondo
anglosassone,
le
cose
peggiori
e a
tralasciare
le
migliori.
Ma
questo
è un
altro
discorso,
affrontare
il
problema
ci
porterebbe
troppo
lontano.
Perché all’inizio del III millennio si continua ancora nel
mondo
a
leggere
e a
studiare
i
classici?
Perché questo indelebile interesse per le letterature antiche,
e
soprattutto
per
quella
latina?
Una delle risposte è che sia il sintomo del desiderio, spesso
della
precisa
volontà,
di
riproporre
una
centralità
della
cultura
classica,
di
cui
il
latino,
madre
di
alcuni
dei
principali
idiomi
del
mondo,
e
che
fu a
lungo
lingua
internazionale
anche
dopo
la
caduta
del
potere
di
Roma,
ne
costituisce
il
veicolo
linguistico
primario.
È il bisogno di capire quello che siamo stati, di cercare
qualcosa
che
ci
appartiene,
e
che
nel
momento
presente,
così
vertiginoso
e
confuso,
non
riusciamo
più
a
trovare.
La modernità e l’emancipazione hanno forse reso gli uomini
più
liberi,
ma
non
necessariamente
più
felici,
come
è
stato
detto.
Nei
disastri
del
XX
secolo
è
naufragata
del
tutto
l’idea
dell’inarrestabile
progresso
della
specie
umana,
e al
concetto
di
modernità
non
appare
più
legata
alcuna
promessa
di
felicità.
Il mondo classico perciò rappresenta quei simboli e quegli
universali
che
la
casualità
del
mondo
d’oggi
ci
sottrae,
in
un
certo
modo
esso
fa
da
argine
alla
crisi
della
ragione
e
della
moralità.
Ci si rivolge alle letterature classiche per riappropriarsi
di
qualcosa
che
nel
corso
del
tempo
ci è
sfuggito,
perché
la
poesia
degli
antichi
era
quella
del
possesso,
della
centralità,
della
pienezza
dell’esistenza,
mentre
la
poesia
dei
moderni
sembra
essere
quella
della
nostalgia.
Se nostalgia c’era negli antichi, essa era di cose ben concrete:
dolore
per
la
lontananza
dalla
patria,
rimpianto
per
le
persone
e le
cose
amate
e
perdute.
Le
letterature
moderne
sono
segnate
da
un
altro
tipo
di
nostalgia,
non
di
qualcosa
di
specifico
o
particolare,
ma
di
indeterminato,
di
astratto,
forse
della
vita
in
sé.
Gli
antichi
si
sentivano
inseriti
nella
totalità
della
vita,
nel
cuore
delle
cose,
nella
gioia
o
nel
dolore
ma
sempre
in
piena
luce;
noi
moderni,
pur
sostenuti
da
una
religione
che
ha
tentato
di
sciogliere
il
mistero
dell’esistenza,
ce
ne
sentiamo
lontani,
come
sradicati
dall’armonia
con
l’essere.
Un altro modo di pensare, e di vedere la realtà, ci separa
dall’uomo
antico,
e
cioè
il
peso
di
una
intera
civiltà.
Sono
le
strutture
di
un’altra
religione
e di
un’altra
filosofia
a
fare
la
differenza.
Ma
in
che
modo
il
paganesimo
improntava
lo
spirito
dell’uomo?
L’uomo antico credeva che ogni forza, ogni espressione della
natura:
il
vento,
il
mare,
il
sole,
gli
alberi,
l’amore,
fosse
divina
e
sacra,
anzi
che
fosse
proprio
il
dio,
una
delle
manifestazioni
della
sua
potenza
(Iovis
omnia
plena,
scrive
Virgilio).
Egli pensava che ogni cosa avesse un’anima, uno spirito e
che
quest’anima
fosse
divina.
Era
una
sorta
di
animismo,
ma
un
animismo
evoluto,
non
irrazionale,
né
tribale,
quello
di
una
società
profondamente
legata
allo
spirito
della
natura,
e
che
allo
stesso
tempo
credeva
con
forza
nella
ragione.
Il paganesimo rispettava alberi e ruscelli perché in loro
vedeva
il
dio,
ed
era
altresì
capace
di
grandi
impeti
e di
improvvise
violenze,
perché
ugualmente
sottomesso
alle
forze
sotterranee
e
dell’oscuro.
Marte,
impersonante
la
guerra,
conviveva
con
Venere
che
era
l’esatto
contrario,
cioè
l’amore.
Nel mito del congiungimento delle due divinità, il paganesimo
fece
un
grande
sforzo
intellettuale,
provando
a
conciliare
gli
opposti,
considerando
Eros
e
Aggressività
manifestazioni
della
stessa
forza,
la
forza
vitale.
Cercò
in
tal
modo
di
trovare
il
punto
di
equilibrio
del
mondo,
e
forse
riuscì
ad
avvicinarsi
a
uno
dei
misteri
dell’esistenza.
L’uomo pagano, col suo tranquillo scetticismo, non credeva
molto
alla
vita
eterna,
o
meglio,
non
essendo
sicuro
che
ci
fosse
(nessuna
“rivelazione”
era
scesa
a
dargli
la
risposta),
non
voleva
che
condizionasse
l’esistenza.
Preferiva,
senza
negarla
recisamente,
non
prenderla
in
esame,
non
parlarne,
tenerla
in
ombra
e
considerare
centro
d’ogni
azione,
il
“qui”
e l’
“adesso”.
La vita doveva risultare conciliazione di spinte opposte,
di
forza
e di
grazia,
di
razionale
e di
irrazionale,
di
impeto
istintivo
e di
civile
cortesia,
non
dovuta
a
dettami
superiori,
ma
derivante
dal
sentire
comune,
dalla
responsabilità
della
persona,
e
dalla
convinzione
che
l’equilibrio
sta
nel
mezzo,
che
ci
troviamo
al
centro
di
una
rete
infinita
di
forze,
a
noi
superiori,
alcune
conosciute
e
altre
sconosciute.
Il paganesimo fu in definitiva sottomissione volontaria
alle
forze
sacre
del
mondo,
e
insieme
il
riconoscimento
dell’esiguità
dell’uomo
e
l’accettazione
del
suo
inconoscibile
destino.
Per noi moderni, cresciuti dentro le braccia del Cristianesimo
e
delle
sue
motivazioni
fideistiche
e
ultramondane,
è
questo
il
nocciolo
della
diversità,
il
profilo
che
ci
sfugge
dell’uomo
antico.
Egli sa, visceralmente, in modo più profondo del nostro,
quanto
sia
forte
e
fragile
la
vita,
quanto
dura
ma
anche
preziosa
e
bella,
in
ogni
aspetto,
e
misteriosamente
sacra,
per
la
chiarezza
del
giorno
e
per
le
oscurità
della
notte.
Egli
la
possedeva
tutta
la
sua
vita,
nel
bene
e
nel
male,
fisicamente
e
nello
spirito,
ne
era
al
centro,
ne
era
padrone,
dentro
il
grande
interrogativo
dell’esistere,
che
aveva
accettato
e
che
rispettava.
Non si attendeva nulla dall’aldilà, il senso e la pienezza
dell’esistenza
erano
tutti
quaggiù,
legati
a
realtà
ben
concrete:
la
famiglia,
la
terra,
l’onore.
È stato detto che lo sguardo pagano, quel modo particolare
di
percepire
e di
rappresentare
la
realtà,
sembra
esprimere
una
“serenità
senza
escatologie”.
Come acutamente osserva Guido Ceronetti, l’uomo pagano era
allo
stesso
tempo
certo
e
incerto
delle
ombre;
ogni
volta
che
anche
noi
siamo
certi
e
incerti
delle
ombre,
siamo
vicini
a
lui,
e
per
un
momento
siamo
anche
noi
pagani.
In questa sottile ambiguità risiede il fascino dello sguardo
antico,
e
del
suo
malinconico
sorriso,
il
mistero
di
quella
serenità
senza
escatologie.
