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N. 99 - Marzo 2016 (CXXX)

STORIA DELLA SPAGNA IMPERIALE

PARTE II - SVILUPPO E DECLINO DELL’EREDITÀ ASBURGICA

di Cristina Massa

 

A segnare una nuova fase della storia della monarchia di Spagna fu la morte di Isabella, avvenuta nel 1504. Al trono sarebbe dovuta succedere la figlia dei Re Cattolici, Giovanna, la quale aveva sposato Filippo d’Asburgo, erede dell’Impero. Ma la precoce scomparsa di quest’ultimo (1506) e la conseguente infermità mentale di Giovanna per la perdita del consorte, fecero sì che Ferdinando riprendesse le redini della monarchia, detenendole fino alla morte, ovvero sino al 1516. Fu allora che il nipote Carlo, figlio di Giovanna e Filippo, ereditò il vasto impero spagnolo all’età di appena 16 anni – dato che la madre non era nelle condizioni di regnare.

 

Carlo I si recò a prendere possesso del regno ereditato solo l’anno seguente, trovandovi una accoglienza tutt’altro che calorosa: a riceverlo con una certa diffidenza erano stati i maggiori dignitari castigliani e aragonesi, ai cui occhi il nuovo sovrano appariva poco più che uno straniero – Carlo, difatti, parlava solo francese; e di certo costoro non accolsero di buon grado la sua candidatura al trono imperiale, dopo la morte del nonno paterno Massimiliano I d’Asburgo avvenuta nel 1519. A ciò si aggiunga che i Castigliani erano consapevoli che, qualora il loro re avesse assunto anche la corona del Sacro Romano Impero, il paese sarebbe stato privo del suo monarca per lunghi periodi (timori destinati a concretizzarsi, giacché Carlo I di Spagna, nei suoi quarant’anni di regno, avrebbe soggiornato presso i sudditi iberici per un periodo complessivo di soli sedici anni).

 

La notizia dell’acquisita dignità imperiale da parte di Carlo I (asceso all’Impero col titolo di Carlo V), non poté che sollevare un coro di proteste. Il nuovo sovrano di Spagna, dal canto suo, non aveva voluto rinunciare al disegno universalistico di dar vita in Europa ad un’egemonia spagnola nel solco della cristianità; un progetto ambizioso, per realizzare il quale l’elevazione a imperatore si prospettava quasi come una condicio sine qua non. Egli, prima ancora di subentrare a Massimiliano I, aveva maturato l’idea di un’autorità imperiale intesa quale guida morale e politica del mondo cristiano, investita del dovere di mantenerlo unito nella fede cattolica e nella giustizia. In ciò fu influenzato non solo dal suo precettore fiammingo, l’arcivescovo di Utrecht Adrian Florensz (asceso al soglio pontificio nel 1522 col nome di Adriano VI), ma anche dal suo gran cancelliere Mercurino Arboro di Gattinara. Pur di veder compiuto il suo sogno di una monarchia universale, Carlo non aveva esitato a comperarsi i voti dei principi elettori, facendosi prestare ingenti somme di denaro dai ricchi mercanti europei e dai rinomati banchieri di Augusta, i Függer e i Welser.

 

Il suo disegno egemonico, tuttavia, fu sin da principio minato da ostacoli. Innanzitutto, in Italia il sovrano dovette fronteggiare la politica espansionistica del re di Francia Francesco I; in secondo luogo, il dilagare del movimento protestante in seno ai suoi domini; infine, l’affermazione della potenza turco-ottomana nell’Europa centro-orientale e nel Mediterraneo. A tali minacce esterne, nell’estate del 1520, si aggiunse la rivolta dei comuneros, ovvero delle comunità cittadine della Castiglia, scontente della politica adottata dal monarca durante il suo soggiorno in Spagna (1517-1520): questi, infatti, non solo aveva urtato gli interessi della nobiltà locale distribuendo importanti cariche laiche ed ecclesiastiche ai membri dell’aristocrazia fiamminga e borgognona del suo seguito, ma aveva anche imposto un gravoso prelievo fiscale, necessario a finanziare le spese della sua incoronazione imperiale.

 

Sui tre fronti contro cui Carlo V fu costretto ripetutamente a intervenire (luteranesimo, pericolo turco, egemonia in Italia contro le pretese della Francia), i successi conseguiti si rivelarono ben presto labili. Un nuovo scontro parve profilarsi allorché il nuovo re di francese, Enrico II, d’accordo con i principi protestanti tedeschi, occupò i vescovadi lorenesi di Metz, Toul e Verdun (territori di lingua francesi, fino ad allora posti sotto l’egida della Corona spagnola). Fu allora che l’imperatore, non potendo più tollerare altri conflitti che avrebbero dissanguato ulteriormente le casse statali e compromesso ancor più la stabilità dei suoi domini, e consapevole dell’impossibilità di veder compiuto il suo disegno universalistico, prese la decisione di abdicare. Tuttavia, prima di ritirarsi a vita privata in un monastero spagnolo, si accinse a stipulare una tregua con la Francia e a ratificare, nel 1555, una pace con i luterani (pace di Augusta), che sanciva i principi regolanti la convivenza tra cattolici e protestanti all’interno dei suoi domini. Nello stesso tempo, al fine di preservare l’integrità del suo vasto impero, lo divise in due parti: al fratello Ferdinando spettarono la corona imperiale e i territori asburgici, mentre gli altri domini europei e le colonie del Nuovo Mondo al figlio Filippo II.

 

Sotto Filippo II la Spagna si presentava come la prima potenza europea in grado di avviare una politica imperialistica, sia in virtù degli ingenti quantitativi d’oro provenienti dalle colonie americane, sia della gravosa pressione fiscale imposta ai suoi domini. Il governo di un impero così esteso ed eterogeneo, d’altronde, non sarebbe stato possibile senza un efficiente apparato burocratico. Nella sostanza, la struttura della monarchia di Filippo II non si discostava da quella dei suoi predecessori; ma essa, data la scelta del sovrano di governare i suoi domini quasi esclusivamente dal palazzo dell’Escorial (nei pressi di Madrid), conobbe un’ulteriore articolazione. Al centro di tale sistema di governo v’era una struttura il cui perno erano i Consigli, organi collegiali, ciascuno con una propria sfera di competenza, che trattavano le questioni più importanti dell’impero. Oltre al Consiglio di Stato, che si occupava di politica estera, al Consiglio dell’Inquisizione e a quello delle finanze, vi erano i Consigli preposti ai diversi complessi territoriali (di Castiglia, d’Aragona, delle Fiandre, d’Italia, e delle Indie). A essi, dopo l’annessione del Regno lusitano, si aggiunse il Consiglio del Portogallo. Per questioni di particolare urgenza il re si avvaleva di apposite commissioni provvisorie dette juntas.

 

Uomo austero e devoto, l’erede di Carlo V era consapevole che la coesione religiosa si configurava come il presupposto dell’unità civile e l’unico strumento atto a stornare eventuali lotte intestine. Si apprestò, pertanto, a realizzare un sistema politico teso a ripristinare l’unità della religione cattolica fra tutti i popoli suoi sudditi, sostenuto nella sua azione dal Santo Uffizio e dalla Compagnia di Gesù (fondata da Ignazio di Loyola nel 1540). Filippo II rappresentò, così, uno dei cardini della Riforma cattolica, rivelandosi un sovrano rigoroso e diffidente che, per la sua condotta, si guadagnò l’appellativo di El rey prudente. Provvide subito a bandire dai Paesi Bassi il luteranesimo, colpì con condanne capitali i membri di comunità protestanti scoperte a Valladolid e a Siviglia; all’interno della penisola iberica rinvigorì la persecuzione contro i moriscos riluttanti a convertirsi al cattolicesimo (definitivamente espulsi dalla Spagna nel 1609) e lanciò una campagna di conversioni coatte volte a colpire i mori e gli ebrei ancora risiedenti in Spagna.

 

Per quanto solida potesse essere la macchina statale messa in campo da Filippo II, i suoi domini non furono affatto immuni da continue minacce esterne ed interne. In primo luogo, il re dovette fronteggiare lo scoppio di una serie di rivolte nei Paesi Bassi, dove vigeva un diffuso malcontento, innescato sia dall’intolleranza delle autorità spagnole nei confronti dei protestanti, sia dal concentrarsi di prestigiose cariche pubbliche nelle mani di funzionari castigliani (rivolte che ebbero come esito la spartizione del paese in due regioni, nel 1579). In secondo luogo, sul versante mediterraneo – dove la casata asburgica di Spagna aveva consolidato il dominio del Regno di Napoli e delle due maggiori isole italiane – la minaccia proveniva dalle incursioni dei corsari barbareschi e dalla potenza ottomana del sultano Selim II. Fu in tale contesto che il re spagnolo mobilitò la sua flotta aderendo alla Santa Lega, promossa da papa Pio V contro i turchi che avevano sferrato il loro attacco contro l’isola di Cipro – avamposto orientale della Serenissima e della cristianità. Nel settembre del 1571, dalla città peloritana la flotta della Lega, guidata dal fratellastro di Filippo II, don Giovanni d’Austria, si mosse verso l’imboccatura del golfo di Corinto: qui, a Lepanto, il 7 ottobre fronteggiò il nemico ottomano, forte di circa 250 galere. Benché da un punto di vista numerico le forze cristiane risultavano di poco inferiori a quelle turche, in virtù della maggiore potenza bellica la flotta della Lega riuscì a prevalere su quella ottomana. Due anni dopo Giovanni d’Austria riconquistò Tunisi, ma si trattò di un successo effimero, dal momento che nel 1574 i cristiani ne persero nuovamente il controllo.

 

Altra questione spinosa che Filippo II dovette affrontare fu il depauperamento delle casse castigliane, su cui gravava il peso maggiore del carico fiscale. Esse, di fatto, non furono più in grado di finanziare i sempre più costosi progetti espansionistici del re. Lo sforzo bellico, dapprima in direzione del Portogallo - annesso dalla Corona di Spagna nel 1580 con tutti i suoi domini coloniali-, poi dell’Inghilterra di Elisabetta I (per cui fu necessario finanziare l’allestimento di una poderosa flotta, l’Invencible Armada), finì col fagocitare tutte le entrate regie annuali e accrescere il debito pubblico. Inevitabile, quindi, fu la battuta d’arresto che conobbe la politica espansionistica di Filippo II, a partire dalla disfatta subita, nelle acque della Manica, contro la superiore forza navale britannica, nel 1588; ma causata anche dal vertiginoso crollo finanziario e dalla situazione incresciosa in cui si venne a trovare la Castiglia, colpita da annate di carestie e da epidemie. Dopo l’ennesima bancarotta della monarchia spagnola, durante gli ultimi anni di reggenza di Filippo II, anche il suo successore, il figlio Filippo III, nel 1607 dovette dichiarare l’insolvenza della Corona.

 

All’interno di un simile scenario di immobilità economica e sociale, un effettivo programma riformistico non poteva concretizzarsi senza una guida valida che detenesse di fatto le redini della monarchia; ed essa non poteva certo corrispondere all’erede di Filippo II.

 

Filippo III, infatti, si era rivelato un sovrano inetto, anonimo. Con il suo avvento sul trono di Spagna mutò quasi repentinamente il sistema di potere del governo monarchico, il cui fulcro non era più rappresentato dal sovrano, bensì dalla figura del valido (o privado), che finì, di fatto, con l’eclissare l’autorità regia. Questi altro non era che “il favorito del re”, una sorta di primo ministro, a cui i monarchi incapaci di governare delegavano tutti i poteri decisionali e di comando. Le due più importanti personalità politiche che rivestirono tale funzione, nella prima metà del XVII secolo, furono il duca di Lerma, il favorito di Filippo III, e il conte-duca d’Olivares, che operò durante la reggenza di Filippo IV.

 

Fu il duca di Lerma, e non Filippo III, a porre fine alle guerre in cui la Spagna era allora coinvolta, provvedendo a stipulare la pace con l’Inghilterra (1604) e, nel 1609, la tregua di dodici anni con le Province Unite. Nello stesso anno, assumeva la decisione di espellere dalla penisola iberica i moriscos.

 

Tuttavia, la fragile pace estera stabilita grazie all’operato del duca di Lerma era destinata a franare sotto le mire imperialistiche del nuovo valido, il conte-duca d’Olivares. Uomo energico e risoluto, era profondamente convinto della necessità di innescare una serie di mutamenti in seno al sistema politico e alla struttura economica della monarchia. Quella da lui messa in campo fu una politica militare aggressiva, tesa principalmente a contrastare l’Olanda, le cui flotte minavano i traffici lusitani in Brasile e nel Levante. Fu quindi deciso a non rinnovare la tregua con i Paesi Bassi, che scadeva nell’aprile del 1621.

 

Persuaso che non sarebbe stato possibile sostenere lo sforzo bellico continuando a gravare sulla già dissestata economia castigliana, nel 1626 presentò un programma che prevedeva il più diretto coinvolgimento di tutti i domini spagnoli, sia in termini di denaro che di uomini. Questo progetto era noto come Uniòn de las Armas, in base al quale ciascuna provincia doveva reclutare ed equipaggiare a proprie spese un determinato contingente di soldati, in modo da raggiungere le 140.000 unità necessarie. Ma dopo i primi successi militari nelle operazioni intraprese contro i principi tedeschi protestanti e l’Olanda, la politica attuata dall’Olivares cominciò a mostrare le prime crepe, sostanzialmente a causa del profilarsi di un ennesimo tracollo delle finanze statali. Esso fu determinato non solo dalle ingenti spese per il coinvolgimento della Spagna in un nuovo conflitto contro la Francia – per la successione al ducato di Mantova, nel 1628 – ma anche dalla cattura, da parte degli Olandesi, della flotta spagnola che trasportava oro americano. Come se non bastasse, il conte-duca dovette far fronte al malcontento, sempre più crescente, del Portogallo: nel vecchio regno lusitano, il governo vicereale non aveva funzionato, e la conseguente sostituzione del viceré con un governatore aveva suscitato il dissenso della popolazione di Lisbona.

 

Fu, tuttavia, nella Catalogna che l’Olivares incontrò una più ferrea resistenza, dacché essa, gelosa delle proprie autonomie, si considerava, al pari della Castiglia, una nazione distinta, con proprie istituzioni giuridiche e amministrative, lingua e cultura. Così, allorché l’Olivares, all’inizio del 1640, volle convocare in territorio catalano le Cortes per imporre i mutamenti che più gli premevano, la Catalogna insorse. Quest’ultima, dopo aver sollecitato e ottenuto il sostegno della Francia, nel gennaio del 1641, si annesse alla monarchia borbonica, pur preservando propri ordinamenti e leggi.

 

La rivolta catalana ebbe indubbiamente ripercussioni in Portogallo, dove, nel dicembre del 1640, un’insurrezione contro il governo madrileno ripristinò sul trono la dinastia legittima dei Braganza, con l’ascesa di Giovanni IV, proclamando la piena indipendenza della nazione portoghese.

 

Dinnanzi al precipitare della situazione, Filippo IV non poté astenersi dal licenziare l’Olivares, nel 1643. Il successivo esplodere di una serie di rivolte (nel Regno napoletano, in Sicilia e nelle province aragonesi), il persistere delle difficoltà finanziarie, la terribile pestilenza che si abbatté sulla Castiglia, l’ennesima bancarotta, condussero la monarchia spagnola verso un inevitabile declino. In quegli anni, unica magra consolazione per la Corona fu la riacquisizione della Catalogna, sul finire del 1652.

 

A succedere a Filippo IV sul trono di Spagna fu il suo terzogenito Carlo II: un sovrano debole di fisico e di spirito. Privo anch’egli di quell’autorità necessaria al risanamento della monarchia, ben presto si vide vittima delle altre potenze europee, decise a spartirsi i possedimenti della Corona asburgica.

In un simile contesto, si inseriva la figura del re di Francia Luigi XIV, il quale, determinato ad assicurare i domini spagnoli alla casa di Borbone, mise in campo tutta la sua abilità diplomatica.

 

Nel marzo del 1700, quando oramai era stato annunciato che la vita del sovrano Carlo II, affetto da una grave malattia, di lì a poco si sarebbe spenta, veniva stipulato un accordo tra le maggiori potenze europee. In base ad esso, si assegnava il regno spagnolo a Carlo, figlio dell’imperatore Leopoldo I, mentre a Filippo d’Angiò, nipote dello stesso Re Sole, si garantivano i domini italiani.

 

Ma la prospettiva di uno smembramento dei territori dell’eredità asburgica di Spagna suscitò l’ostile reazione del governo di Madrid. Carlo II, così, un mese prima di spirare, nell’ottobre 1700, si lasciò convincere dal Consiglio di Stato a redigere un testamento che nominava suo erede il duca d’Angiò (il futuro Filippo V), con la clausola che questi rinunciasse ai suoi diritti di successione in Francia.

 

Con la morte di Carlo II, all’inizio del XVIII secolo, si estingueva di fatto la casata degli Asburgo di Spagna e si inaugurava un nuovo capitolo della storia spagnola, con l’avvento sul trono della dinastia francese dei Borbone.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Canale Cama, D. Casanova, R.M. Delli Quadri, Storia del Mediterraneo moderno e contemporaneo, Napoli 2009.

C. Capra, Storia moderna (1492-1848), Milano 2011.

J.H. Elliott, Imperial Spain 1492-1716, London 1981.



 

 

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