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N. 98 - Febbraio 2016 (CXXIX)

STORIA DELLA SPAGNA IMPERIALE

PARTE I - GLI ALBORI

di Cristina Massa

 

Valladolid, 19 ottobre 1469: un luogo e una data che avrebbero segnato la storia della penisola iberica. Quel giorno, in una residenza privata, venivano celebrate le nozze tra il giovane Ferdinando, sovrano del regno di Sicilia ed erede al trono d’Aragona, e l’Infanta Isabella, erede designata dei regni di Castiglia e León: un connubio che avrebbe sancito l’unione fra le due Corone.

 

Non pochi nobili castigliani erano stati tra coloro che si erano opposti al matrimonio, consapevoli che quell’annessione avrebbe consolidato la monarchia castigliana e indebolito, di conseguenza, la loro posizione e i loro privilegi. Si schierarono, pertanto, a favore della presunta figlia di re Enrico IV, Juana, la quale si era vista estromessa dai suoi diritti di successione proprio da Isabella, sorella del sovrano castigliano, la quale, di fatto, sarebbe ascesa al trono alla morte del fratello (1474).

 

Le forze che invece accoglievano di buon grado la congiunzione delle due Corone erano quelle legate al ramo aragonese dei Trastàmara e, in particolare, al re Giovanni II, padre di Ferdinando. Questi, infatti, vedeva in essa il presupposto di una fruttuosa alleanza fra le due monarchie, indispensabile per sostenere l’urto della politica espansionistica del re di Francia, Luigi XI, e per sedare la rivolta catalana allora in corso. Le nozze, tuttavia, avevano contribuito a rendere ancor più esplosiva la situazione iberica, provocando una lotta per la successione al trono castigliano che si protrasse per circa dieci anni e che, tra il 1475 e il 1479, assunse le proporzioni di una vera e propria guerra civile. Da essa uscirono vincitrici le forze congiunte di Isabella e Ferdinando, malgrado l’intervento del re del Portogallo, Alfonso V, a sostegno della fazione nobiliare anti-aragonese e di Juana (alla cui mano ambiva perché avvenisse l’unione del suo regno con quello di Castiglia).

 

Nel momento stesso in cui il nuovo re di Castiglia, nel gennaio 1479, alla morte del padre Giovanni II, ebbe assunto anche il titolo di re d’Aragona, prendeva corpo una nuova realtà politico-territoriale: il regno di Spagna. Tuttavia, la coppia reale si trovò dinnanzi a un paese ancora da unificare sotto il profilo politico e sociale: ciascuno dei due regni manteneva le proprie istituzioni, il proprio ordinamento giuridico, propri costumi e persino una propria lingua (castigliano da un lato e catalano dall’altro); diverse, inoltre, la struttura economica, l’estensione territoriale e la densità demografica. Ad ogni modo, sebbene le due entità non si amalgamarono in un solo dominio, ciò non ebbe come effetto la subordinazione dell’Aragona alla Castiglia o viceversa. Complementari, piuttosto, si rivelarono i loro interessi: gli Aragonesi trasferivano ai Castigliani la propria esperienza commerciale e la propria esperienza politico-amministrativa, mentre i Castigliani si trovarono a gravitare nell’orbita della politica mediterranea aragonese.

 

Inizialmente l’azione di governo dei due sovrani si orientò soprattutto in direzione della Castiglia, la regione più ricca e con il più elevato tasso di densità demografica, e dove imperversavano banditismo e anarchia feudale. Tali fenomeni destabilizzanti furono efficacemente domati grazie alla riorganizzazione della Santa Hermandad (Santa Fratellanza), un’associazione di città che svolgeva funzioni di polizia. Si noti che, mentre le hermandades medievali erano risultate per lo più soggette alla grande aristocrazia locale, esse, sotto Ferdinando, dovevano rispondere esclusivamente agli ordini della Corona. Il loro ripristino, quindi, appariva come un espediente che, sebbene adottato inizialmente per ovviare a una situazione allarmante, a lungo andare si rivelò lo strumento mediante il quale la monarchia si poneva nelle condizioni di affermare la propria supremazia sull’aristocrazia.

 

La sottomissione della nobiltà fu d’altronde agevolata dalla politica di elargizioni e favori messa in atto da Ferdinando, il quale era riuscito ad acquisire una posizione di rilievo anche in seno alla sfera ecclesiastica: si era fatto proclamare Gran Maestro dei potenti ordini monastico-militari di Santiago, Alcántara e Calatrava, e aveva ottenuto dal pontefice la facoltà di assegnare vescovadi e benefici ecclesiastici. Il potere del nuovo re, quindi, si stava via via estendendo a ogni aspetto della vita del neonato regno di Spagna. Come se non bastasse, le Cortes (rappresentanze del clero, della nobiltà e delle comunità cittadine) venivano convocate di rado e ridotte al rango di assemblee consultive, che approvavano passivamente le richieste finanziarie della monarchia. Essa, inoltre, aveva posto sotto la propria tutela l’amministrazione cittadina, delegandola a funzionari di nomina regia detti corregidores; in compenso, all’interno del Consiglio reale – in seguito chiamato Consiglio di Castiglia – furono nominati giuristi di origine borghese (latrados).

 

Le tre province costituenti il regno d’Aragona (Aragona propriamente detta, Catalogna e Valenza) preservarono, invece, le proprie autonomie e prerogative, le cui portavoce erano ancora le Cortes. Ben presto, però, poiché di norma Ferdinando risiedeva in Castiglia, anche in Aragona (come già in Sicilia e Sardegna, domini aragonesi dal XIV secolo), venne posto un viceré, e nel 1494 fu istituito un Consiglio d’Aragona.

 

All’interno di un contesto così omogeneo emergevano, tuttavia, due elementi di congiunzione fra i due regni: la tradizione della Reconquista (la crociata interna al mondo iberico contro l’infedele musulmano) e l’intransigente difesa dell’ortodossia religiosa. Di fatto, in un primo momento, l’azione della Corona si orientò principalmente verso il rafforzamento dell’unità religiosa del paese: la Spagna, per poter essere unita, doveva essere prima di tutto cristiana; ne derivava che ogni suddito spagnolo dovesse essere cristiano, dunque né ebreo né musulmano. La Chiesa, sempre più legata indissolubilmente alla monarchia, non poteva che fungere da principale collante dell’unificazione nazionale. In ultima analisi, l’obiettivo congiunto del mondo ecclesiastico e della Corona non poteva che essere la salvaguardia della limpieza de sagre, ovvero la purezza del sangue dei cristianos viejos. Già nel 1478 i sovrani avevano ottenuto da papa Sisto IV la licenza di istituire in Castiglia un tribunale dell’Inquisizione – o Santo Uffizio – impegnato per l’appunto nell’inquisitio (ricerca) dell’autenticità della fede cristiana, e sottoposto all’autorità regia (e non, come l’inquisizione romana, all’autorità pontificia).

 

Tale istituzione, che rappresentava l’unico organo la cui giurisdizione si estendesse uniformemente su tutti i territori soggetti alla monarchia spagnola, a partire dal 1483 venne regolato da un apposito Consiglio reale – il Consejo de la Suprema y General Inquisiciòn – e affidato al domenicano Tomàs de Torquemada, confessore della regina e primo inquisitore generale di Spagna. Il tribunale, oltre a giudicare su delitti di varia natura (stregoneria, sodomia, adulterio, eresia), si occupava della repressione delle minoranze religiose e, in caso di nuovi adepti al Cristianesimo, dell’accertamento della veridicità della loro conversione. Fin dai primi decenni del Cinquecento, infatti, l’azione inquisitoriale fu rivolta essenzialmente contro moriscos e conversos, rispettivamente musulmani ed ebrei convertiti. In questo modo, il Santo Uffizio divenne un potente ed efficace strumento politico nelle mani della monarchia, che se ne avvalse, tra l’altro, per cementare i suoi legami con le comunità cittadine aragonese e castigliana: obiettivo comune era, di fatto, assicurare il trionfo definitivo della Chiesa spagnola quale custode della vere e unica fede religiosa.

 

Dal canto suo Ferdinando, dietro la giustificazione della missione evangelica di cui sarebbe stata investita la coppia reale di Spagna (motivo per il quale Isabella e il consorte vennero insigniti del titolo di “Re Cattolici” da papa Alessandro IV, nel 1496), si era assicurato la costituzione di un tribunale ecclesiastico dotato, sì, di tutti i poteri che il pontefice poteva delegare, ma da lui stesso governato, sia nella scelta degli inquisitori che nello sfruttamento dei vantaggi economici e politici garantiti da quell’istituzione. Si ricordi che, mediante la confisca dei beni messa in atto da quella potente macchina giudiziaria contro eretici e apostati, il sovrano si vedeva confluire nel Tesoro regio una fonte sicura e preziosa di introiti.

 

Parallela a tali fatti, procedeva la Reconquista, fino a che, il 2 gennaio del 1492, dopo dodici anni di operazioni belliche, capitolava il regno di Granada, l’ultima roccaforte musulmana in territorio iberico. Poco meno di tre mesi dopo, l’intransigente difesa dell’ortodossia, unita all’odio sempre più acceso della società spagnola verso i discendenti del popolo giudaico, portò alla redazione dell’editto reale di espulsione degli ebrei non convertiti. Esso fu firmato il 31 marzo 1492 proprio a Granada, non lontano dalla quale, a Santa Fe, sarebbero state sottoscritte le capitolaciones tra Isabella e Cristoforo Colombo, con cui la regina accordava al navigatore genovese la spedizione delle tre caravelle al di là del Mare Nostrum.

 

La Spagna, così, si accingeva a gettare le basi di quello che sarebbe divenuto il suo vasto impero transoceanico, dove, nei decenni successivi, avrebbe dato vita ai due vicereami della Nuova Spagna (1522) e del Perù (1535). Nel Nuovo Mondo, la colonizzazione procedette sia mediante la fondazione di città, sia tramite una particolare forma di giurisdizione cittadina nota come encomienda (commenda). Si trattava di un sistema consistente nell’assegnazione di una circoscrizione di territorio a un colono spagnolo o a un conquistador, all’interno di cui costoro, pur non essendo proprietari del suolo, detenevano il diritto di esigere il pagamento di un tributo e prestazioni d’opera dagli indios; in cambio gli encomenderos erano tenuti a tutelare l’incolumità degli indigeni e a istruirli nella fede cristiana. Ma l’encomienda si rivelò ben presto una vera e propria pratica di sfruttamento della manodopera indigena.

 

Benché impegnata nella conquista di nuove terre, la Corona non aveva dimenticato la sua missione evangelica in loco: un’ulteriore prova di fedeltà verso quel Cristianesimo militante di cui la coppia reale si era ammantata si ebbe allorché, all’inizio Cinquecento, i mori della regione delle Alpujarres si ribellarono. L’origine della rivolta è da ricercare nella campagna di battesimi e di conversioni forzate lanciate dall’intransigente arcivescovo di Toledo, Francisco Jimènez de Cisneros. Al soffocamento della ribellione seguì, nel 1502, l’editto che decretava l’espulsione dal suolo spagnolo di tutti i mori non convertiti al Cattolicesimo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

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F. Canale Cama, D. Casanova, R.M. Delli Quadri, Storia del Mediterraneo moderno e contemporaneo, Napoli 2009.

C. Capra, Storia moderna (1492-1848), Milano 2011.

A.A. Cassi, Ultramar. L’invenzione europea del Nuovo Mondo, Roma 2007.

J.H. Elliott, Imperial Spain 1492-1716, London 1981.

A. Prosperi, Il seme dell’intolleranza, Roma 2013.



 

 

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