N. 51 - Marzo 2012
(LXXXII)
Tra instabilità e incertezza
in siria l'ombra di al-qaeda
di Federico Donelli
Ad
ormai
quasi
un
anno
di
distanza
dall’inizio
delle
prime
rivolte,
la
situazione
siriana
rimane
critica
con
scontri
pressoché
quotidiani
tra
le
forze
armate
fedeli
al
regime
degli
Assad
e la
popolazione
che
invoca
l’intervento
di
Organizzazioni
internazionali
per
porre
fine
ad
una
lotta
condotta
ad
armi
impari.
Difficile
fare
previsioni
sul
futuro
soprattutto
perché
non
risulta
facile
comprendere
le
ragioni
dell’atteggiamento
quasi
timoroso
che
ha
caratterizzato
fino
ad
ora
le
potenze
straniere,
Stati
Uniti
su
tutti.
Inoltre
emerge
preoccupante
la
silenziosa
penetrazione
da
parte
di
movimenti
jihadisti,
storicamente
abili
a
sfruttare
a
proprio
vantaggio
le
situazioni
di
anarchia
politica.
Inizialmente
gli
scontri
nelle
principali
città
siriane
si
concentravano
durante
i
venerdì,
giorno
di
preghiera
del
mondo
musulmano;
da
qualche
mese
invece
avvengono
quasi
quotidianamente,
portando
a
circa
7000
mila
il
numero
delle
vittime
dall’inizio
delle
rivolte.In
un
recente
e
ben
dettagliato
articolo
di
Mordechai
Kedar
(in
“Limes”,
n.
5,
2011)
vengono
prospettati
tre
possibili
scenari
per
il
futuro
della
Siria.
Un
primo
vede
la
presa
di
coscienza
da
parte
di
diversi
ufficiali
dell’esercito
e
dei
capi
di
uno
dei
molteplici
servizi
segreti
del
regime
che
per
cercare
di
salvare
le
proprie
posizioni
e il
proprio
potere
decidono
di
scendere
a
compromessi
con
la
popolazione
attuando
un
golpe
interno
che
porti
all’arresto
di
Bassar
al-Asad
e
degli
altri
membri
della
famiglia.
Una
simile
operazione
presenterebbe
principalmente
due
tipi
di
difficoltà:
una
data
dal
fatto
che
come
in
tutto
il
mondo
arabo
anche
l’esercito
siriano
sia
strutturato
con
un
forte
carattere
tribale
e
con
precisi
e
ben
saldi
vincoli
di
clan
e di
famiglia.
Appare
dunque
difficile
immaginare
un
eventuale
tradimento
da
parte
di
membri
dello
stesso
clan
se
non
addirittura
della
stessa
famiglia.
Una
perplessità
accentuata
dalla
consapevolezza
che
in
questo
momento
il
clan
che
detiene
il
potere
(alawita),
a
cui
appartengono
gli
Asad,
ha
anche
in
mano
il
totale
controllo
finanziario
disponendo
quindi
di
molteplici
risorse
in
grado
di
garantire
la
fedeltà
degli
ufficiali
e
dell’esercito.
L’altra
difficoltà
che
potrebbe
emergere
da
un
eventuale
coup
interno
è
data
proprio
dall’appartenenza
tribale
dei
membri
in
grado
di
attuarlo;
infatti
se
fossero
essi
stessi
membri
alawiti
diventerebbe
difficile
immaginare
che
la
maggioranza
della
popolazione
siriana
di
confessione
sunnita,
decida
di
conferirli
legittimità.
Un
secondo
scenario
mostra
come
potrebbe
esserci
una
frattura
interna
alle
forze
di
sicurezza
del
regime
(esercito
ed
intelligence)
sulla
falsa
riga
di
quanto
avvenuto
un
anno
fa
in
Libia
e in
Yemen.
Una
rottura
di
questo
tipo
porterebbe
ad
una
situazione
di
guerra
per
la
lealtà
o
meno
al
regime
portando
allo
scontro
frontale
tra
due
fazione
entrambe
guidate
e
composte
da
militari.
È
altresì
possibile
che
uno
scenario
del
genere
comporti
l’inevitabile
inasprimento
degli
scontri
con
i
lealisti
appoggiati
dall’Iran
mentre
i
ribelli
armati
e
finanziati
dall’Occidente
e
dall’Arabia
Saudita.
Un
terzo
scenario
è
rappresentato
dalla
sconfitta
alawita
nelle
battaglie
tra
le
strade
delle
loro
principali
roccaforti
nel
nord
ovest
del
Paese
(Latakia,
Gàbla)
e
nei
centri
nevralgici
del
potere
(Damasco,
Hims).
Un
progressivo
indebolimento
del
regime
alawita
porterebbe
allo
sgretolamento
del
Paese
alimentando
le
rivolte
e le
mire
separatistiche
delle
molte
minoranze
presenti
sul
suolo
siriano:
dai
drusi
ai
curdi
passando
per
le
molte
tribù
beduine
residenti
nelle
province
orientali
della
Siria.
Tuttavia
questi
scenari
appaiono
i
più
plausibile
soprattutto
in
ragione
del
fatto
che
ad
oggi
non
sembrano
esserci
reali
alternative.
Pare
molto
difficile
che
i
molti
attori
esterni,
siano
essi
regionali
(Iran,
Turchia,
Israele)
oppure
internazionali
(Stati
Uniti,
Unione
Europea,
Russia)
decidano
di
muoversi
in
maniera
congiunta.
Per
tutti
loro
in
questo
momento
un
intervento
in
Siria
comporterebbe
conseguenze
imprevedibili
e
dai
costi
esterni
(politici
ed
economici)
incalcolabili.
Gli
Stati
Uniti
da
quando
il
Presidente
Obama
è
entrato
alla
Casa
Bianca
hanno
dovuto
affrontare
un
periodo
di
grave
recessione
economica
accentuata
dalla
crisi
dei
mercati
del
2009;
motivi
questi
che
hanno
decisamente
condizionato
l’agenda
di
politica
estera
dell’amministrazione
alle
prese
con
la
progressiva
riduzione
delle
truppe
stanziate
in
diverse
regioni
del
mondo.
A
pesare
sulle
scelte
di
Obama
sono
le
ormai
imminenti
elezioni
presidenziali
di
novembre;
a
pochi
mesi
dalle
elezioni
difficilmente
l’opinione
pubblica
comprenderebbe
legittimandolo
un
nuovo
intervento
in
un
Paese,
come
la
Siria,
che
l’
americano
medio
difficilmente
saprebbe
indicare
su
una
cartina
e
che,
al
momento,
non
considera
come
diretta
minaccia
alla
propria
sicurezza
nazionale.
Con
questo
non
si
vuole
negare
l’interesse
politico
americano
nell’area
ne
tanto
meno
escludere
le
plausibili
motivazioni
umanitarie,
ma
piuttosto
occorre
fare
una
cinica
analisi
di
“real
politik”
per
cui
in
un
momento
di
ingenti
tagli
alla
spesa
pubblica,
e di
disoccupazione
alle
stelle,
per
l’amministrazione
e
per
il
Congresso
risulterebbe
difficile
approvare
un
nuovo
costoso
dispiegamento
di
truppe.
A
questa
giù
lunga
serie
di
motivi
si
devono
aggiungere
gli
attuali
precari
equilibri
regionali
con
l’attenzione
americana
concentrata
sul
programma
nucleare
iraniano
e
sulla
difficile
strategia
di
ritiro
dall’Afghanistan
oltre
che
l’instabilità
politica
dell’
Iraq.
Per
questi
motivi
gli
Stati
Uniti
stanno
cercando
di
giungere,
come
nel
caso
libico
di
un
anno
fa,
ad
una
soluzione
congiunta
con
altri
Paesi
promossa
all’interno
delle
organizzazioni
diplomatiche
e
delle
alleanze
regionali
(Nato).
Un
ulteriore
problema
che
Obama
e
gli
Stati
Uniti
devono
fronteggiare
però
viene
da
est,
dalla
Cina
e
dalla
Russia
entrambe
contrarie
ad
una
qualsiasi
intromissione
negli
affari
interni
della
Siria.
Tutti
questi
fattori
presentano
gli
Stati
Uniti
come
un
Paese
che
attualmente
ha
le
mani
legate,
per
questo
motivo
ormai
da
mesi
il
Dipartimento
di
Stato
fa
pressioni
su
un
prezioso
alleato
regionale
come
la
Turchia,
perché
decida
di
muoversi
in
maniera
convinta
a
sostegno
del
popolo
siriano.
Il
Primo
Ministro
turco
Erdogan,
memore
degli
errori
commessi
lo
scorso
anno
durante
le
prime
settimane
della
crisi
libica,
ha
in
questa
occasione
agito
prontamente
censurando
il
comportamento
di
Bassar
al-Asad,
con
il
quale
si
era
da
tempo
instaurato
un
rapporto
di
cordialità
politica
e di
amicizia
privata.
Il
Primo
Ministro
turco
ha
più
volte
chiesto
ufficialmente
le
sue
dimissioni
lasciando
libera
scelta
al
popolo
siriano
per
il
futuro
del
Paese.
Il
passo
fatto
dalla
Turchia
può
sembrare
poca
cosa,
ma
ha
avuto
pesanti
ripercussioni
interne
perché
è
andato
contro
uno
dei
pilastri
della
propria
dottrina
guida
in
politica
estera,
la
Profondità
Strategica
elaborata
dal
Ministro
degli
Esteri
turco
Ahmet
Davutoğlu.
A
venir
meno
è
stato
il
principio
conosciuto
come
“zero
problemi
con
i
vicini”
che
impone
alla
politica
estera
turca
di
non
intromettersi
in
alcun
modo
negli
affari
interni
ai
Paesi
vicini
in
modo
da
riuscire
a
consolidare
con
essi
un
rapporto
di
reciproca
fiducia
e
cordialità
(Davutoğlu
A.,
Turkey’s
Foreign
Policy
vision:
an
assessment
of
2007,
in
“Insight
Turkey”).
La
scelta
di
Erdogan
ha
rappresentato
quindi
una
novità
nelle
linee
guida
della
politica
estera
turca
almeno
da
quando
il
partito
Akp
(Partito
Giustizia
e
Progresso)
è al
potere
(2003).
A
rendere
legittimo
il
sacrificio
è
stata
la
consapevolezza
dello
stesso
Erdogan
che
schierandosi
al
fianco
della
popolazione
siriana
avrebbe
visto
ulteriormente
crescere
l’ammirazione
nei
suoi
confronti
e
verso
la
Turchia
da
parte
della
popolazione
di
tutto
il
Medio
Oriente.
Una
scelta
quindi
fatta
rientrare
in
un
più
ampio
disegno
neo-ottomano
volto
ad
acquisire
sempre
più
la
leadership
regionale
in
quanto
guida
e
modello
per
qualsiasi
Paese
a
maggioranza
musulmana.
Questa
stessa
consapevolezza
porta
a
ritenere
poco
probabile
un
intervento
militare
in
Siria
perché
una
tale
mossa
andrebbe
ad
infrangere
i
delicati
equilibri
raggiunti
con
l’
Iran
con
cui
la
Turchia
ha
comunque
l’interesse
a
mantenere
rapporti
stabili.
Inoltre,
un
appoggio
concreto
ai
rivoltosi
siriani
creerebbe
un
pericoloso
precedente
spingendo
altri
gruppi
di
opposizione
presenti
in
diversi
Stati
della
regione,
a
chiedere
l’intervento
turco.
A
queste
motivazione
che
spingono
la
Turchia
ad
essere
assai
prudente,
si
devono
aggiungere
i
problemi
legati
alla
delicata
questione
curda
che
attualmente
causa
non
poche
difficoltà
al
confine
con
l’Iraq.
Alla
situazione
di
instabilità
interna
siriana,
si
sommano
quindi
i
timori
e i
molti
interessi
che
bloccano
gli
Stati
dall’agire
oltre
all’incapacità
decisionale
di
alcune
organizzazioni
internazionali
(Onu)
e
l’impotenza
di
altre
di
natura
regionale
(Lega
Araba).
Chi
invece
sembra
iniziare
ad
approfittare
della
situazione
siriana
è
al-Qaeda
che
è
tornata
a
farsi
sentire
il
12
febbraio
con
un
lungo
messaggio
di
Ayman
al-Zawahiri
in
appoggio
alla
popolazione.
Al-Zawahiri
ha
inoltre
esortato
le
popolazioni
di
credenti
musulmani
dei
Paesi
vicini
(Turchia,
Giordania,
Libano)
ad
intervenire
in
soccorso
dei
“fratelli”
siriani.
Il
suo
messaggio
è
arrivato
a
pochi
giorni
di
distanza
da
un
rapporto
dell’
intelligence
americana
in
cui
si
riferisce
di
alcuni
attentati
compiuti
da
militanti
jihadisti,
provenienti
dall’Iraq,
contro
strutture
dei
servizi
segreti
di
Damasco
(Bokhari
K.,
Jihadist
Opportunities
in
Syria,
in
“Stratfor”
2/2012).
Una
notizia
confermata
anche
dal
Ministro
dell’Interno
iracheno,
al-Assadi,
il
quale
ha
riportato
che
diversi
combattenti
jihadisti
da
settimane
stanno
attraversando
il
confine
probabilmente
armati
e
pronti
a
colpire.
È
difficile
comprendere
le
ragioni
di
al-Qaeda
in
questo
momento,
perché
già
un
anno
fa
emerse
come
l’agenda
essenzialmente
transnazionale
del
gruppo
jihadista,
che
mira
a
ristabilire
un
califfato
su
tutto
il
dar-ar
Islam,
non
suscitasse
le
simpatie
delle
masse
in
rivolta
nei
Paesi
arabi.
Una
irrilevanza,
quella
dei
jihadisti
sul
popolo
in
rivolta,
sottolineata
negli
ultimi
mesi
dall’ascesa
del
tutto
pacifica
e
democratica
dei
partiti
islamici
in
Tunisia
prima
e in
Egitto
poi.
Questa
consapevolezza
ha
progressivamente
mutato
la
tattica
del
gruppo
che
ha
negli
ultimi
mesi
concentrato
i
propri
attacchi
con
l’intento
preciso
di
creare
situazioni
di
crisi
interna
(Yemen)
oppure
accentuare
tensioni
diplomatiche
già
esistenti
(Pakistan).
L’idea
quindi
anche
in
Siria
sarebbe
quella
di
creare
ulteriore
disordine
cercando
poi
di
sfruttarlo
a
proprio
vantaggio
sia
per
crearsi
un
nuovo
spazio
di
manovra
e
proselitismo,
sia
per
tentare
di
conquistare
il
potere.
È
fuori
di
dubbio
che
in
questo
momento
le
libertà
di
azione
in
Siria
per
al-Qaeda
siano
innumerevoli;
ma è
altrettanto
fuor
di
dubbio
che
aggiungere
caos
al
disordine
favorirebbe
lo
stesso
regime
degli
Asad
legittimandone
l’intervento.
Seguendo
questa
linea
occorre
notare
come,
nonostante
la
notizia
americana
di
attentati
ai
danni
dell’intelligence
siriana,
da
anni
ormai
i
jihadisti
hanno
stretto
legami
e
accordi
con
i
servizi
segreti
di
Damasco
sul
cui
libro
paga
compaiono
diversi
membri
di
al-Qaeda.
Probabile
che
dietro
alla
cellula
che
ha
compiuto
gli
attentati
vi
sia
direttamente
l’Arabia
Saudita
che
più
volte
in
questi
mesi
è
stata
chiamata
ad
intervenire
in
sostegno
della
popolazione
siriana
(sunnita)
e
che
con
la
caduta
del
regime
alawita
darebbe
un
duro
colpo
all’Iran.
La
verità
forse
sta
proprio
nel
mezzo;
ovvero
la
motivazione
più
plausibile
della
scelta
di
al-Qaeda
di
dirigere
le
proprie
attenzioni
in
Siria
è
dettata
sia
dalla
possibilità
di
muoversi
indisturbata
grazie
ai
vecchi
legami
con
intelligence
siriana,
sia
dalla
possibilità
di
sfruttare
a
proprio
vantaggio
il
sostegno
indiretto
delle
potenze
straniere
ai
ribelli.
Non
è un
mistero
che
la
tattica
utilizzata
dagli
Stati
inizialmente
in
Libia,
cioè
fornire
armi
e
attrezzature
ai
ribelli,
venga
utilizzata
anche
in
Siria
con
main
sponsor
Paesi
tra
i
quali
la
stessa
Arabia
Saudita.
Il
passaggio
di
forniture
in
una
situazione
di
totale
anarchia
lascerebbe
libera
al-Qaeda
di
rifornirsi
in
tutta
tranquillità
passando
inosservata.
Questa
possibilità
preoccupa
e
non
poco
gli
Stati
Uniti
e la
Turchia
che
vogliono
essere
certi
che
un
eventuale
sostegno
ai
ribelli
siriani
non
vada
ad
“arricchire”
l’arsenale
di
al-Qaeda
col
rischio
di
un
effetto
boomerang
(Afghanistan
insegna).
Lo
scenario
regionale
appare
sempre
più
un
mosaico
di
situazioni
interrelate
tra
loro
ed
in
continuo
mutamento;
per
questo
motivo
qualcosa
potrebbe
cambiare
dell’esito
delle
elezioni
presidenziali
iraniane,
previste
la
prima
settimana
di
marzo.
Il
rischio,
nonché
il
principale
motivo
per
cui
manchi
un
deciso
intervento
esterno,
è
ciò
che
tutti
i
Paesi
in
questo
momento
vogliono
evitare
ovvero
un
effetto
domino
per
cui
un
eventuale
caduta
siriana
innescherebbe
in
tutta
la
regione
una
serie
di
conseguenze
pericolose
e
non
controllabili.
