[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 205 / GENNAIO 2025 (CCXXXVI)


attualità

LA SIRIA DOPO ASSAD
TRA RESILIENZA E SPERANZE DI UNA PRIMAVERA A DAMASCO

di Valerio Acri

 

La mattinata dell’8 dicembre 2024 ci ha consegnato una data storica per il Medio Oriente perché la caduta del regime di Bashar Al-Assad in Siria segna la fine di una occupazione familiare di potere protrattasi per oltre mezzo secolo.

 

Una dominazione feroce, inaugurata il 13 novembre 1970 da Hafez e proseguita poi dal 2000 dal figlio Bashar, cinquantaquattro anni lungo i quali gli Assad sono riusciti a puntellare una dittatura irremovibile e nel buio delle carceri hanno saputo nascondere la repressione più malvagia, la stessa che si svelò agli occhi di molti tredici anni fa, quando la scintilla rivoluzionaria della cosiddetta Primavera Araba, partita dal Maghreb, si era propagata fino alla Siria.

 

Assad rifiutò fin da subito il grido di libertà della sua gente rinchiudendosi nel vicolo cieco dei massacri, al punto che nel febbraio 2012, meno di un anno dopo l’inasprirsi delle rivolte, l’allora Commissario Onu dei diritti umani Navy Pillay dichiarò impossibile aggiornare un bilancio della vittime siriane.

 

Sembrò peraltro evidente già allora come il massimo organismo internazionale avesse esaurito le sue prerogative, non tanto perché mpossibilitato a redigere la conta delle vite spezzate, quanto perché immobilizzato dal meccanismo dei veti incrociati di turno pronti a vanificare ogni mozione. Oggi i no americani rendono di fatto impossibile contenere la furia israeliana a Gaza, all’epoca furono i ripetuti veti di Putin e della Cina a impedire di fermare Assad e arginare il bagno di sangue siriano.

 

L’asilo offerto da Mosca ad Assad è una sintesi di coerenza perché, dal 2012 al 2015, Putin si è battuto strenuamente in difesa del suo regime traballante, con l’obiettivo di conservare un fidato cliente nella vendita di armi e soprattutto un valido alleato mediterraneo nel contrasto alle rivolte contro i dispotismi. L’intervento russo si rivelò decisivo, come e forse anche più del sostegno iraniano, per ribaltare le sorti del conflitto civile siriano e concedere al despota di Damasco ulteriori tredici anni di potere.

 

Esso si concretizzò in due fasi distinte: nella prima Putin fece ricorso alla sua superba capacità di sopraffare la distinzione tra vero e falso facendosi scudo dell’argomentazione in base alla quale le risoluzioni Onu anti-Assad avrebbero sancito un’ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Nel frattempo poté rifornire di armi le forze governative per sostenere la superiorità militare e logistica della loro contro-offensiva sui ribelli che nei primi mesi del 2012 erano ormai alla periferia di Damasco. Successivamente riuscì ad accreditare – anche agli occhi della Casa Bianca e di Barack Obama – l’intervento militare dell’aviazione russa come liberatore dalle milizie terroriste dell’Isis nel frattempo piombate sulla palude di una rivoluzione sfociata in una sorta di guerra civile internazionale.

 

Perché, di fatto, in quei drammatici anni dal 2011 al 2015, la Siria è stata un ignobile tavolo da gioco in una partita a scacchi che ha visto contrapporsi, nell’espressione più nuda e deteriore della politica, l’Occidente liberale, l’asse autocratico formato da Russia e Iran, le petrolmonarchie del Golfo e una potenza regionale multiforme come la Turchia di Erdogan.

 

Il regime degli ayatollah di Teheran è stato fin da subito a fianco di Assad essendo già tredici anni fa in piena offensiva per la diffusione internazionale dello sciismo (la componente minoritaria dell’Islam) e per assumere la leadership anti-israeliana del mondo arabo insieme al suo braccio armato Hezbollah. Arabia Saudita, Qatar e Turchia si posizionarono invece dalla parte degli insorti sunniti mal sopportando la cupola degli alawiti, la minoranza della setta sciita alla quale appartiene la famiglia Assad, con Erdogan impegnato inoltre a negare qualunque conquista ai curdi siriani filo-Pkk.

 

Attanagliati dal dilemma di una deriva fuori controllo e di una possibile santabarbara su vasta scala, i leader occidentali hanno così di fatto assistito inermi allo sterminio civile dei siriani, all’emergenza umanitaria dei profughi, disertori e rifugiati sparpagliatisi ovunque anche in Europa, al sovraffollamento delle prigioni (quella militare di Sednaya la più tristemente nota) che – solamente dal 2012 – hanno inghiottito a forza di abusi centinaia di migliaia (anche qui i numeri di Amnesty International sono gelidi e impossibili da stimare con esattezza) di oppositori per reati di opinione, perfino alla strage chimica compiuta dall’esercito di Assad nei sobborghi di Damasco nell’agosto 2012.

 

Lo scoppio della rivoluzione siriana seguì di pochi mesi l’intervento Nato in Libia che portò alla caduta e all’uccisione di Muhammar Gheddafi, ma Damasco non fu Tripoli per le sopracitate ragioni legate alla vasta complessità degli equilibri geopolitici attorno alla Siria e per altre non trascurabili contro-indicazioni che fecero scartare l’opzione di un nuovo ricorso alla forza. Non ultima quella di un cartello dell’opposizione diviso, disorganizzato e privo di un effettivo coordinamento nazionale in grado di unificare il confronto armato, una condizione che consentì alle milizie jihadiste di infiltrarsi tra gli insorti facendoli vacillare di fronte a offerte di denaro, armi e munizioni.

 

In questa maniera si finì per consentire che in Siria venisse abbondantemente superato il momento nel quale il troppo è troppo e che gli appelli inascoltati dei ribelli a intervenire facessero per certi versi riecheggiare le parole di Alexander Solzenytcin a proposito di un popolo tradito nella sua insurrezione contro la tirannìa, con riferimento a un’altra Primavera insanguinata, quella di Praga del 1968.

 

Il coraggio resiliente dei (non molti) siriani rimasti nel loro Paese anche dopo la sconfitta della Rivoluzione è stato infine premiato da un blitz rapido che in soli undici giorni ha dato la spallata decisiva ad Assad cogliendo di sorpresa anche i più attenti analisti mediorientali. Le milizie di Hts (Hayat Tahrir al-Sham) guidate dal comandante Ahmed al-Sharaa (alias Mohamed al-Jolani) hanno marciato trionfalmente da Homs a Damasco riuscendo a fare in meno di due settimane quel che è stato impossibile per oltre cinquant’anni e ora sono chiamate a riabilitarsi agli occhi della comunità internazionale dopo un passato di affiliazione qaedista.

 

Nel primo venerdì di preghiera senza dittatura le principali piazze del Paese hanno traboccato gioia e speranza riportando alla mente le immagini di Piazza Tahrir al Cairo nel 2011 dopo la caduta di Mubarak e incorniciando la pagina bianca di una Siria che ha la possibilità di un nuovo inizio.

 

L’auspicio è che possa essere migliore di quanto lo fu quello egiziano, agitato dalle sommosse permanenti, sbattuto rapidamente nelle caserme e infine messo sotto chiave dai militari di Al Sisi.

 

In questo senso, il futuro di Damasco può offrire all’Organizzazione delle Nazioni Unite un’opportunità per dimostrare di avere ancora una ragione d’essere. Invocato anche dalla Lega Araba per istituire una missione che aiuti a coordinare il delicato passaggio della transizione politica, l’Onu dovrebbe ripartire dalla risoluzione 2254 approvata dal Consiglio di Sicurezza nel dicembre 2015 per “una soluzione autentica in Siria”.

 

Una delibera che, attualizzata, si può declinare con l’invocazione di un processo per un Paese inclusivo in grado di armonizzare le tante comunità confessionali presenti e convincere i milioni di siriani fuggiti altrove che esiste ancora una Patria alla quale tornare.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]