LA SIRIA DOPO ASSAD
TRA RESILIENZA E SPERANZE DI UNA
PRIMAVERA A DAMASCO
di Valerio
Acri
La mattinata dell’8 dicembre 2024 ci
ha consegnato una data storica per
il Medio Oriente perché la caduta
del regime di Bashar Al-Assad in
Siria segna la fine di una
occupazione familiare di potere
protrattasi per oltre mezzo secolo.
Una dominazione feroce, inaugurata
il 13 novembre 1970 da Hafez e
proseguita poi dal 2000 dal figlio
Bashar, cinquantaquattro anni lungo
i quali gli Assad sono riusciti a
puntellare una dittatura
irremovibile e nel buio delle
carceri hanno saputo nascondere la
repressione più malvagia, la stessa
che si svelò agli occhi di molti
tredici anni fa, quando la scintilla
rivoluzionaria della cosiddetta
Primavera Araba, partita dal Maghreb,
si era propagata fino alla Siria.
Assad rifiutò fin da subito il grido
di libertà della sua gente
rinchiudendosi nel vicolo cieco dei
massacri, al punto che nel febbraio
2012, meno di un anno dopo
l’inasprirsi delle rivolte, l’allora
Commissario Onu dei diritti umani
Navy Pillay dichiarò impossibile
aggiornare un bilancio della vittime
siriane.
Sembrò peraltro evidente già allora
come il massimo organismo
internazionale avesse esaurito le
sue prerogative, non tanto perché
mpossibilitato a redigere la conta
delle vite spezzate, quanto perché
immobilizzato dal meccanismo dei
veti incrociati di turno pronti a
vanificare ogni mozione. Oggi i no
americani rendono di fatto
impossibile contenere la furia
israeliana a Gaza, all’epoca furono
i ripetuti veti di Putin e della
Cina a impedire di fermare Assad e
arginare il bagno di sangue siriano.
L’asilo offerto da Mosca ad Assad è
una sintesi di coerenza perché, dal
2012 al 2015, Putin si è battuto
strenuamente in difesa del suo
regime traballante, con l’obiettivo
di conservare un fidato cliente
nella vendita di armi e soprattutto
un valido alleato mediterraneo nel
contrasto alle rivolte contro i
dispotismi. L’intervento russo si
rivelò decisivo, come e forse anche
più del sostegno iraniano, per
ribaltare le sorti del conflitto
civile siriano e concedere al
despota di Damasco ulteriori tredici
anni di potere.
Esso si concretizzò in due fasi
distinte: nella prima Putin fece
ricorso alla sua superba capacità di
sopraffare la distinzione tra vero e
falso facendosi scudo
dell’argomentazione in base alla
quale le risoluzioni Onu anti-Assad
avrebbero sancito un’ingerenza negli
affari interni di uno Stato sovrano.
Nel frattempo poté rifornire di armi
le forze governative per sostenere
la superiorità militare e logistica
della loro contro-offensiva sui
ribelli che nei primi mesi del 2012
erano ormai alla periferia di
Damasco. Successivamente riuscì ad
accreditare – anche agli occhi della
Casa Bianca e di Barack Obama –
l’intervento militare dell’aviazione
russa come liberatore dalle milizie
terroriste dell’Isis nel frattempo
piombate sulla palude di una
rivoluzione sfociata in una sorta di
guerra civile internazionale.
Perché, di fatto, in quei drammatici
anni dal 2011 al 2015, la Siria è
stata un ignobile tavolo da gioco in
una partita a scacchi che ha visto
contrapporsi, nell’espressione più
nuda e deteriore della politica,
l’Occidente liberale, l’asse
autocratico formato da Russia e
Iran, le petrolmonarchie del Golfo e
una potenza regionale multiforme
come la Turchia di Erdogan.
Il regime degli ayatollah di Teheran
è stato fin da subito a fianco di
Assad essendo già tredici anni fa in
piena offensiva per la diffusione
internazionale dello sciismo (la
componente minoritaria dell’Islam) e
per assumere la leadership
anti-israeliana del mondo arabo
insieme al suo braccio armato
Hezbollah. Arabia Saudita, Qatar e
Turchia si posizionarono invece
dalla parte degli insorti sunniti
mal sopportando la cupola degli
alawiti, la minoranza della setta
sciita alla quale appartiene la
famiglia Assad, con Erdogan
impegnato inoltre a negare qualunque
conquista ai curdi siriani filo-Pkk.
Attanagliati dal
dilemma di una deriva fuori
controllo e di una possibile
santabarbara su vasta scala, i
leader occidentali hanno così di
fatto assistito inermi allo
sterminio civile dei siriani,
all’emergenza umanitaria dei
profughi, disertori e rifugiati
sparpagliatisi ovunque anche in
Europa, al sovraffollamento delle
prigioni (quella militare di Sednaya
la più tristemente nota) che –
solamente dal 2012 – hanno
inghiottito a forza di abusi
centinaia di migliaia (anche qui i
numeri di Amnesty International sono
gelidi e impossibili da stimare con
esattezza) di oppositori per reati
di opinione, perfino alla strage
chimica compiuta dall’esercito di
Assad nei sobborghi di Damasco
nell’agosto 2012.
Lo scoppio della rivoluzione siriana
seguì di pochi mesi l’intervento
Nato in Libia che portò alla caduta
e all’uccisione di Muhammar
Gheddafi, ma Damasco non fu Tripoli
per le sopracitate ragioni legate
alla vasta complessità degli
equilibri geopolitici attorno alla
Siria e per altre non trascurabili
contro-indicazioni che fecero
scartare l’opzione di un nuovo
ricorso alla forza. Non ultima
quella di un cartello
dell’opposizione diviso,
disorganizzato e privo di un
effettivo coordinamento nazionale in
grado di unificare il confronto
armato, una condizione che consentì
alle milizie jihadiste di
infiltrarsi tra gli insorti
facendoli vacillare di fronte a
offerte di denaro, armi e munizioni.
In questa maniera si finì per
consentire che in Siria venisse
abbondantemente superato il momento
nel quale il troppo è troppo e che
gli appelli inascoltati dei ribelli
a intervenire facessero per certi
versi riecheggiare le parole di
Alexander Solzenytcin a proposito di
un popolo tradito nella sua
insurrezione contro la tirannìa, con
riferimento a un’altra Primavera
insanguinata, quella di Praga del
1968.
Il coraggio resiliente dei (non
molti) siriani rimasti nel loro
Paese anche dopo la sconfitta della
Rivoluzione è stato infine premiato
da un blitz rapido che in soli
undici giorni ha dato la spallata
decisiva ad Assad cogliendo di
sorpresa anche i più attenti
analisti mediorientali. Le milizie
di Hts (Hayat Tahrir al-Sham)
guidate dal comandante Ahmed
al-Sharaa (alias Mohamed al-Jolani)
hanno marciato trionfalmente da Homs
a Damasco riuscendo a fare in meno
di due settimane quel che è stato
impossibile per oltre cinquant’anni
e ora sono chiamate a riabilitarsi
agli occhi della comunità
internazionale dopo un passato di
affiliazione qaedista.
Nel primo venerdì di preghiera senza
dittatura le principali piazze del
Paese hanno traboccato gioia e
speranza riportando alla mente le
immagini di Piazza Tahrir al Cairo
nel 2011 dopo la caduta di Mubarak e
incorniciando la pagina bianca di
una Siria che ha la possibilità di
un nuovo inizio.
L’auspicio è che possa essere
migliore di quanto lo fu quello
egiziano, agitato dalle sommosse
permanenti, sbattuto rapidamente
nelle caserme e infine messo sotto
chiave dai militari di Al Sisi.
In questo senso, il futuro di
Damasco può offrire
all’Organizzazione delle Nazioni
Unite un’opportunità per dimostrare
di avere ancora una ragione
d’essere. Invocato anche dalla Lega
Araba per istituire una missione che
aiuti a coordinare il delicato
passaggio della transizione
politica, l’Onu dovrebbe ripartire
dalla risoluzione 2254 approvata dal
Consiglio di Sicurezza nel dicembre
2015 per “una soluzione autentica
in Siria”.
Una delibera che,
attualizzata, si può declinare con
l’invocazione di un processo per un
Paese inclusivo in grado di
armonizzare le tante comunità
confessionali presenti e convincere
i milioni di siriani fuggiti altrove
che esiste ancora una Patria alla
quale tornare.