.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

contemporanea


N. 106 - Ottobre 2016 (CXXXVII)

la repubblica compie settantanni

una, libera e repubblicana
di Gaetano Cellura

 

Quello che un tale dice a Leo Longanesi è la sintesi perfetta di com’era l’Italia nel 1946, anno della grande scelta. Monarchia o Repubblica?

 

«Ecco» gli dice, «le mie simpatie sono per il comunismo, i miei interessi mi avvicinano all’Uomo qualunque, mia moglie va in chiesa e io, in fondo, ho paura di andare all’inferno».

 

Un paese diviso e con il problema del pane. Finita la guerra, ne era emerso il vero volto. Un Nord industriale e un Sud agricolo e feudale in cui dominano mafia e banditismo. Città da ricostruire e macerie dappertutto. Un paese con due fedi e due chiese politiche: una cattolica e l’altra laica e comunista.

 

L’Italia risorgimentale e liberale, che ha unito la nazione, si scopre debole e minoritaria. E minoritaria, nel gioco politico di quegli anni, si scopre anche la Resistenza. Tagliata fuori dal compromesso tra i grandi partiti di massa sul quale si sviluppa la nuova storia del paese.

 

A Salerno, nel 1944, il primo governo, formato dai partiti repubblicani, decideva che Vittorio Emanuele III avrebbe lasciato il trono dopo la liberazione di Roma e che con un referendum, poi fissato per il 2 giugno del 1946, sarebbero stati gli italiani a scegliere la configurazione istituzionale del paese. Lo stesso giorno si vota per eleggere l’assemblea costituente.

 

 

 

«Povera Italia!» scriveva Prezzolini nel suo Diario americano, «Costretta a scegliere fra una repubblica che nasce dalla paura dei bombardamenti e una monarchia che tradì la Costituzione per il fascismo, e il fascismo per gli alleati, pensando unicamente a se stessa e alla famiglia Savoia».

 

È il 5 giugno del 1944 quando Vittorio Emanuele III nomina il figlio Umberto luogotenente del Regno con queste parole: «Vai e divertiti tu, adesso». Poco o nulla sapevano gli italiani di questo Savoia che sarebbe stato l’ultimo sovrano d’Italia e, per la storia, il Re di Maggio. A lui era destinata la decisiva battaglia per tenere in vita la monarchia.

 

Sapevano gli italiani che Umberto II era un bell’uomo, il principe sorridente che ha sposato Maria José, figlia del re del Belgio. La principessa triste fece il proprio dovere fino in fondo. Visitava ospedali e asili, si faceva fotografare con i figli, restava vicina al marito in quell’ultima avventura della Casa Reale. Ma dentro di sé era certa della piega presa dagli avvenimenti: «Sentivo che progrediva alle nostre spalle una fatale meccanica di causa e effetti. Rispondevamo agli applausi della folla che si adunava sotto il Quirinale riportandone una fuggevole impressione di esultanza».

 

 

Per Giorgio Bocca (Storia della Repubblica italiana), la regina Maria José «sembra avere un unico grande desiderio: che tutto finisca presto». Insultata durante una manifestazione della Croce Rossa, prova a fuggire e chiama al telefono l’organizzatore Zanotti Bianco: «Io non ce la faccio» gli dice, «e tutto sommato non c’entro». Zanotti Bianco era suo amico.

 

Il referendum si avvicina e il clima si scalda. In modo inaspettato per i repubblicani, non più così certi della vittoria. Si scalda perché i moderati italiani vedono nella monarchia il loro ultimo baluardo e i meridionali la scelgono contro il nord repubblicano. Il clima si scalda e Umberto ora ci mette l’impegno necessario per diventare – e rimanere – re d’Italia.

 

I leader dell’antifascismo e gli insulti della stampa non lo spaventano più come all’inizio dell’avventura. I suoi consiglieri gli suggeriscono quella che potrebbe essere la mossa decisiva. E così il 9 maggio del 1946 lui arriva all’improvviso a villa Rosebery a Posillipo, dove risiede il padre e gli chiede di firmare l’abdicazione.

 

Il vecchio re esegue, poi sale sul Duca degli Abruzzi e parte per l’esilio in Egitto. Ma la sua abdicazione, prima del referendum, non rientrava negli accordi di Salerno: e ne sono tutti contrariati, da De Gasperi agli Alleati. Più di tutti, i comunisti: «L’ultimo tradimento dei Savoia» titola l’Unità.

 

Un conto era affrontare il referendum con un luogotenente dotato di poteri ma senza dignità regale, un altro era affrontarlo con un sovrano capace di tenere ancora vivi i sentimenti monarchici degli elettori. E questo fa Umberto: gira per l’Italia, fa campagna elettorale. «Candidato di fronte al popolo, piuttosto che monarca fra i sudditi» scrive acutamente il giornalista e storico Domenico Bartoli.

 

Umberto II aveva quarantadue anni, una vita politica anonima prima di diventare luogotenente generale per ventitré mesi e sovrano a pieno titolo per solo trentaquattro giorni, dal 9 maggio al 12 giugno del 1946. E dal breve regno gli viene l’appellativo di Re di Maggio.

 

Con il referendum istituzionale del 2 giugno, l’ideale di Mazzini si realizza compiutamente: l’Italia è una, libera e repubblicana.

 

Ma, finita la conta ansiosa, meno di due milioni di voti dividono la repubblica dalla monarchia. Non sono pochi, ma nemmeno tanti. Certamente meno di quelli che i repubblicani  si aspettavano. Il paese sembra aver dimenticato la guerra, il fascismo, la Resistenza, le responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III.

 

I monarchici italiani rialzano la testa e sono certi che se Umberto avesse usato il suo potere e rinviato il referendum di qualche mese, la repubblica avrebbe perso. In un clima sempre più teso, e di scontri, di guerra civile sul punto di poter scoppiare, contestano il risultato e si procede al nuovo conteggio dei voti. Solo il 18 giugno la Cassazione dà i numeri definitivi che confermano la vittoria della repubblica.

 

 

Ma già sei giorni prima, il presidente del consiglio De Gasperi aveva rotto gli indugi assumendo anche le funzioni di capo dello stato e mostrando alla nazione e al Re di Maggio, che non si è ancora dimesso, tutta la propria fermezza: «Ho finito il mio latino» dice al sovrano, «Si vuole ricorre alla forza? Va bene, vorrà dire che io verrò a trovarla a Regina Coeli o lei verrà a trovare me».

 

Umberto ribatte che è suo dovere attendere la proclamazione dei risultati definitivi, ma è ormai consapevole di una storia finita e dei rischi di contrapposizione armata che il paese corre. Saluta i suoi fedeli e a Ciampino s’imbarca, incapace di trattenere le lacrime, su un aereo Savoia Marchetti.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.