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N. 128 - Agosto 2018 (CLIX)

cinquantenario della Contestazione

Sessantotto, le radici in un decennio
di Gaetano Cellura

 

In fondo, contro cosa si ribellano gli studenti in quell’anno che inizia con il terremoto nel Belice e finisce con la rivolta dei liberi braccianti di Avola?

 

L’Italia, dove la Contestazione parte prima che in Francia, ha superato i problemi del dopoguerra, ha vissuto il boom economico, ha risolto il problema del mangiare e del dormire. E pure quello delle vacanze. Ha conosciuto la stagione rinnovatrice del centrosinistra e della Chiesa postconciliare.

 

Nell’estate di cinquant’anni fa sulle coste siciliane e pugliesi si vedono giovani che alternano i bagni al volantinaggio davanti a qualche fabbrica. Li chiamano Gli Uccelli, scesi per conoscere il proletariato meridionale, per portare il Sessantotto anche al Sud dove in realtà era arrivato: nelle università di Napoli e di Catania, di Palermo e Messina.

 

Gli Uccelli volevano occupare i Sassi di Matera. Ma la polizia li carica e li disperde. Li fa rivolare verso il Nord, scrive Giorgio Bocca. Quelli che si vedono in Sicilia e in Puglia sono solo una piccola parte degli occupatori di Matera, prima che la notizia dei carri armati a Praga riporti a casa anche loro.

 

E lì, nella Cecoslovacchia occupata, il Sessantotto aveva ragioni più forti. Lì aveva davvero un sogno – anticomunista – da realizzare.

 

Ma in Europa e in America non esplode per caso. È tutto un decennio, giunto intanto al tramonto, a preparare quell’anno. Sul quale il giudizio storico e politico si mantiene discorde.

 

Gazzarra inutile, ribellione contro i padri e i maestri, declamazione di formule semplicistiche per problemi complessi o vera rivolta libertaria e antimperialista?

 

Nel 1966 sei giovani e due tipografi vengono arrestati a Milano per aver stampato manifesti a favore dell’obiezione di coscienza. E gli studenti del liceo Parini pubblicano un giornale, La zanzara, su cui scrivono di educazione sessuale da introdurre nelle scuole medie, di libertà di ognuno di fare ciò che vuole a patto di non ledere la libertà altrui. Cui aggiungono: “La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa”. Per la destra è troppo: già esistono le condizioni per un primo scontro alla vigilia delle elezioni studentesche a Roma.

 

L’anno dopo l’Università di Pisa viene occupata per contrastare la riforma del ministro Gui. Sul fuoco giovanile soffia il vento della via cinese al socialismo, l’innamoramento per il libretto rosso di Mao, e della campagna antiamericana e a favore dei vietcong nel Sudest asiatico.

 

Da Berlino, a Trento e a Milano l’agitazione studentesca scuote le università, considerate come strumento della lotta di classe. Base da cui partire per cambiare la scuola e la società.

 

Anche la musica dà il proprio contributo alla contestazione: con le canzoni Dio è morto di Guccini, Contessa di Pietrangeli, Mettete dei fiori nei vostri cannoni dei Giganti, Canzone del Maggio di De André, uscita nel 1973 ma liberamente tratta da un inno del Maggio francese.

 

In America, a Berkeley, il Sessantotto comincia quattro anni prima. E se ne fa profeta il giovane italoamericano Mario Savio. È figlio di emigrati siciliani, di Santa Caterina Villarmosa, e a Berkeley arriva a ventidue anni. Vincitore di una borsa di studio.

 

Gli altri ragazzi del Campus restano affascinati dalla sua Libertà di parola (proprio così si chiama l’organizzazione che dirige) e dalla sua azione rivoluzionaria. Sentono come sincere le sue parole contro l’università diventata fabbrica che ha trasformato gli studenti in clienti o peggio nella “materia bruta” che ne è il prodotto.

 

In Francia sembra vincere la noia (come scrive l’autorevole Le Monde) e tutto tace fino al 22 marzo del 1968. Allorché gli studenti, scesi in piazza per il Vietnam, dopo gli arresti effettuati dalla polizia occupano Paris-Nanterre. La risposta di chiudere l’ateneo più che placare gli animi, com’era nelle intenzioni del sistema, li fa divampare.

 

E il 3 maggio la protesta esplode alla Sorbona, coinvolge sempre più giovani e si allarga all’intero Quartiere Latino. È l’inizio del Maggio francese.

 

Il sociologo Edgar Morin ne parla come di “una prodigiosa comune studentesca” che rifiuta la società borghese. Ma per l’intellettuale marxista Régis Debray è “il trionfo della società dei consumi più che la sua contestazione”. Lo scrittore André Malraux vi vede “una crisi di civiltà”.

 

Una crisi che abbatte persino una quercia come il presidente De Gaulle. Che affida proprio alla penna di Malraux, l’intellettuale da lui più stimato, il suo testamento politico prima di ritirarsi a Colombay nella residenza di famiglia (dove muore due anni dopo).

 

Non era più la sua Francia: De Gaulle aveva quasi ottant’anni; e la metà del suo paese meno di trenta. Giovani non ancora nati quand’era finita la Seconda guerra mondiale. Ancora bambini quando la Francia chiudeva con il proprio passato colonialista.

 

Per il presidente il Maggio francese è una “mascherata”. Che non dura molto (anche per la capacità della sinistra e del sindacato di isolare la componente maoista). La protesta degli studenti, cui partecipano entusiasti i leader del Sessantotto italiano, si estende alle fabbriche e coinvolge parte del ceto impiegatizio.

 

Ma il 12 giugno “la Francia dell’ordine – scrive Giorgio Bocca – passa alla controffensiva, il movimento operaio si sgonfia da solo, la Sorbonne viene sgomberata, il lavoro riprende in tutte le fabbriche e il 23 i gaullisti trionfano alle elezioni”.

 

Persino la fotografia simbolo dei moti parigini, quella di Caroline de Bendern sulle spalle di un manifestante mentre sventola la bandiera del Vietnam, si rivelerà illusoria.

 

La Marianna del Maggio francese dirà di esservi stata coinvolta per caso. Non era né una studentessa né un’operaia, ma una modella inglese che si trovava in Francia per motivi che nulla avevano a che fare con la rivolta. Aveva male ai piedi e chiese a un suo amico di portarla sulle spalle. Fu in quel momento che a qualcuno venne l’idea di darle la bandiera e di scattarle la foto che ne fece un’eroina.

 

Anche in Cecoslovacchia il Sessantotto incomincia negli anni precedenti. Con le proteste studentesche del 1964, per la mancata destalinizzazione, e con la sfilata nel 1966 di carri allegorici nelle università. “Beati i poveri di spirito" – c’era scritto negli slogan – "Il loro regno è la Cecoslovacchia”. Oppure: “Viva l’URSS, ma che si mantenga da sola!”.

 

Ma queste proteste non ricevono dall’Occidente la dovuta considerazione. Vengono anzi sottovalutate e svilite.

 

“Gli intellettuali cecoslovacchi – scrive il drammaturgo tedesco Peter Weiss – sono caduti vittime di fatali fraintendimenti e di una sopravvalutazione della libertà in occidente”. Gli stanno a cuore più le sorti del Vietnam che quelle dei paesi oltre la cortina di ferro.

 

Alla Polonia e alla Jugoslavia viene riservato lo stesso trattamento. L’Occidente finge di non vedere l’allontanamento di Bauman dall’insegnamento, i fermenti studenteschi per il divieto alle rappresentazioni delle opere teatrali Gli avi del drammaturgo polacco Mickiewicz, considerata opera antirussa, e del Kongres di Primoz Kozak che denunciava come l’università in Jugoslavia fosse un privilegio dei figli dei funzionari del regime.

 

In particolare l’Occidente non vede il gesto di Ryszard Siwiec che si dà fuoco in Polonia, il giorno della Festa nazionale del raccolto, per protestare contro la partecipazione del suo paese all’invasione della Cecoslovacchia. Quattro mesi dopo, nella piazza San Venceslao a Praga, Jan Palach si immola allo stesso modo.

 

Se i prodromi sono visibili negli anni precedenti, gli effetti del Sessantotto si manifestano nel decennio successivo.

 

La Francia ne regge l’urto; ma l’Italia e la Germania, paesi di frontiera nella geografia della guerra fredda, paesi dove alcune frange del movimento si radicalizzano, ne subiscono la conseguenza più tragica: il terrorismo armato di estrema sinistra (Banda Baader-Meinhof e Brigate Rosse).

 

La crescita economica che si registra negli anni Sessanta, il miglioramento delle condizioni di vita non sono, non possono essere, da sole, motivo di generale soddisfazione per i figli della nuova borghesia. I padri hanno fatto la Resistenza; e loro ora vogliono fare il Sessantotto.

 

Quando Le Monde parla di noia coglie nel segno. Centra il cuore della questione di un decennio. Una questione di natura ideale o idealistica che trova conforto nella lettura dei filosofi marxisti.

 

In altre parole, è proprio la crescita economica, peraltro già fermatasi al 1963, la società consumistica che ne è derivata che i sessantottini contestano.

 

Il consumismo non può essere punto d’arrivo su cui appiattirsi. Anche perché ci sono nuove esigenze sociali, civili e di libertà da soddisfare e di cui proprio l’appiattimento e la noia sono nemici. Prima fra tutte, come segnala Sergio Romano, la domanda di lavoro intellettuale qualificato che risulta inferiore all’offerta.

 

Ma il limite del Sessantotto è proprio nel ritenere che una società comunista sia la risposta a queste esigenze. Quando già una ce n’era, oltrecortina, illiberale e oppressiva, da cui in quegli anni e in quei mesi giungeva il lacerante grido di dolore.



 

 

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