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STORIA & SPORT


N. 14 - Febbraio 2009 (XLV)

I funamboli della neve
La centenaria storia dello sci alpino

di Simone Valtieri

 

È il 1897. Nella gelida località francese di Chamonix, tra le Alpi Graie, un ragazzino inglese di appena dieci anni, Arnold Lunn, assapora per la prima volta nella sua vita il clima dell’alta montagna. La fresca aria respirata e gli splendidi paesaggi visibili dagli oltre quattromila metri delle vette alpine affascinano Arnold ed entrano nel suo immaginario così profondamente da condizionarne l’intera esistenza.

 

Figlio del reverendo metodista Henry Simpson Lunn, fondatore dell’omonima agenzia “Lunn” che si occupava di viaggi e di turismo tra le Alpi, nasce lontano dalla patria Inghilterra, nella città indiana di Madras, il 18 aprile 1888. Dopo le prime escursioni alpine con il padre in tenerissima età, si appassiona a un particolare aspetto della montagna ancora non del tutto esplorato: la discesa mediante l’uso di sci, utilizzati fino ad allora principalmente per le discipline nobili dello sci di fondo.

 

Prima di parlare ulteriormente di Lunn bisogna però fare un piccolo salto indietro di qualche decennio per conoscere i progressi di uno scultore austriaco, e un altro balzo, un po’ più lontano, di ventimila anni.

Le origini dell’arte sciistica con mezzi simili a quelli odierni è datata circa 2500 anni prima di Cristo. In alcune incisioni rupestri in Lapponia e Norvegia vi è però testimonianza dell’uso di strumenti fatti per scivolare sul ghiaccio risalenti addirittura a venti secoli prima dell’anno zero. Lo sci destro era il più lungo mentre il sinistro, più corto, coperto di pelle di foca, serviva a darsi la spinta sulla neve senza scivolare. Si trattava di rudimentali attrezzi realizzati per di più in legno di frassino e con lacci di cuoio per fissarli all’arto.

 

Preziosi riferimenti all’uso degli sci si possono trovare in Erodoto e nell’Eneide di Virgilio, nonché negli scritti del prelato Francesco Negri che effettuò un viaggio in Lapponia nel 1663, descrivendo questi attrezzi come un normale mezzo di locomozione per gli abitanti della zona.

Tuttavia è tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo che si inizia a pensare allo sci come mezzo di svago e di competizione. Lo scultore e pittore austriaco, o meglio sarebbe dire austroungarico, Mathias Zdarsky fu il primo ad avere l’intuizione giusta: lo sci si può utilizzare per scendere e non solo per salire i pendii, a patto di servirsi però di un mezzo più corto rispetto a quelli in uso, 1,80 metri rispetto ai 3 abituali.

 

Con l’aumento del pendio da affrontare, si pone però il problema degli allacci, per cui due stringhe di cuoio iniziano a diventare pericolose. Lo stesso Zdarsky ha la premura di studiare un nuovo tipo di aggancio, chiamato Lilienfelder dal nome di una cittadina austriaca, con la funzione di ancorare il piede allo sci mediante una talloniera per evitare slittamenti laterali all’arto. L’invenzione è rivoluzionaria e contemporanea alla nascita delle prime società sciistiche come lo Sci Club “Christiania” (l’odierna Oslo) in Norvegia e lo Ski Club des Alpes a Grenoble, nel 1883.

La precedente tecnica di discesa con tallone libero, il telemark, utilizzata per i pendii meno ripidi e sperimentata dal falegname norvegese Sondre Norheim, uno dei padri dello sci nordico, risultava essere sempre meno adatta man mano che l’inclinazione della discesa aumentava. Il problema viene iniziato a risolvere sempre da Zdarsky, che con gli sci da lui ideati può permettersi una nuova tecnica di discesa, da lui stesso chiamata “voltata d’appoggio” e oggi nota come “spazzaneve”, che consiste nello scendere con le ginocchia piegate e gli sci convergenti a V.

 

Naturale evoluzione è quella di curvare aprendo gli sci verso una posizione parallela. Il primo a sperimentare tale metodo è l’ufficiale dell’esercito austroungarico Georg Bilgeri, che si serve di due bastoncini per equilibrare il corpo in apertura e chiusura di curva. La tecnica si chiamerà Stemmbogen e sarà perfezionata da Johannes Schneider, che influenzato anche dalle originarie tecniche nordiche, inventerà un nuovo modo di impostare le curve.

Lo sci inizia a prendere piede anche in Italia agli albori del nuovo secolo con la fondazione di alcuni Sci Club, come quello di Ponte Nossa (1900) e di Torino (1901), e con la nascita dell’Unione Ski Club italiani nel 1908.

 

Il 19 marzo 1905, intanto, si era svolta a Muckenkogel, nei pressi della cittadina di Lilienfeld, la prima competizione di sci alpino. Ad organizzarla, il luogo è già un indizio, sembra sia stato proprio Mathias Zdarsky, che su un dislivello di 800 metri aveva fatto mettere 40 porte, delimitate ognuna da due paletti, in cui era d’obbligo passare per arrivare al traguardo. La prima gara di discesa libera, ossia non delimitata da porte strette, è invece del 7 gennaio 1911 sulle nevi di Crans Montana in Svizzera, e prende il nome di “Challenge Robert of Kandahar”.

 

Anche qui il nome della gara è un indizio: “Robert di Kandahar” fu un generale che occupò per conto della Regina la città afgana; l’inglese e dunque connazionale di Arnold Lunn, che gli intitolò la manifestazione e la aprì a giovani dilettanti britannici. A soli venti anni Lunn fonda l’Alpine Ski Club e si batte, tra lo scetticismo generale, per promuovere la diffusione della disciplina tra i suoi connazionali.

 

Nel dopoguerra trasforma il Challenge Kandahar in competizione internazionale aperta a tutti, che prende il nome di “Arlberg-Kandahar” e dura, con l’alone del mito, fino al 1986.

Il 1924 è un anno chiave per lo sci. Il 30 gennaio Lunn fonda il Kandahar Ski Club, che promuove le nuove discipline alpine di discesa e slalom tra le porte, nonché una gara su entrambe le specialità, chiamata combinata. Neanche tre giorni più tardi, il 2 febbraio a Chamonix, durante la “Settimana internazionale degli sport invernali”, quella che più tardi sarà riconosciuta ufficialmente dal CIO come prima edizione dei Giochi olimpici invernali, nasce la FIS: Federazione Internazionale dello Sci.

 

Voluta principalmente dai paesi scandinavi, aveva una vocazione più tradizionalista atta a rafforzare il primato del nobile sci di fondo e del salto dal trampolino, sul giovane e spericolato sci alpino, che veniva sì riconosciuto come disciplina, ma non ammesso alle prime grandi competizioni come i giochi olimpici.

Lo sci alpino continua comunque inesorabile la sua diffusione. Nel 1928 viene organizzata la già citata Arlberg-Kandahar, una gara internazionale da disputare su due manche, una di slalom e una di discesa, la cui somma dei tempi dava poi il vincitore finale. La prima edizione fu organizzata tra le nevi austriache di Sankt Anton am Arlberg e a vincere furono due atleti di casa, Benno Leubner tra gli uomini e Lisbeth Polland tra le donne. Il primo costruì la sua vittoria tra i pali stretti dello slalom, mentre la seconda tra le larghe porte della discesa.

 

La gara riscosse un interesse clamoroso e venne ripetuta l’anno successivo, e quello successivo ancora, fino a diventare il più prestigioso appuntamento per gli appassionati di questa giovane disciplina. Nel 1931, sempre su spinta di Lunn, la federazione accetta di organizzare il primo “Concorso internazionale FIS” di Sci Alpino, una sorta di genitore dei moderni campionati mondiali. A Mürren, in Svizzera, si disputano due prove di discesa e una di slalom, sia maschile che femminile, con un ottimo risultato per gli sciatori britannici.

Il “Concorso internazionale FIS” viene ripetuto per altre cinque stagioni, fino al 1936, anno in cui, a causa del grande successo riscosso tra il pubblico, e al sempre crescente numero di atleti partecipanti, la FIS accetta di inserire lo sci alpino nel programma dei giochi Olimpici. A Garmisch Partenkirchen, in Germania, la giovane disciplina esordisce con due prove di combinata, vinte entrambe da atleti tedeschi, Franz Pfnur e Christel Cranz.

 

Nel 1937 è poi la volta dei primi, veri e propri, Campionati mondiali di sci alpino, che si disputano a Chamonix sulle tre prove classiche di discesa, slalom e combinata. Sono gli anni dei primi pionieristici campioni, come il francese Emile Allais che si aggiudica tutte le prove maschili di quell’edizione, e della già citata tedesca Christel Cranz, che fa l’en plein nelle prove femminili e rimane dominatrice incontrastata di un po’ tutte le discipline fino ai primi anni quaranta, collezionando a fine carriera il record, ancora imbattuto, di 10 medaglie d’oro mondiali.

Ormai riconosciuto a tutti gli effetti come sport invernale di primo piano, lo sci alpino ha davanti a sé una strada in… discesa. Le edizioni dei mondiali, nonostante l’interruzione per il secondo conflitto, si susseguono una volta ogni quattro anni fino al 1974, dando così lustro a una competizione che ogni quadriennio si incarica di consegnare alla storia i nomi degli atleti vincitori nelle varie discipline.

 

A proposito di discipline, nell’immediato dopoguerra fa il suo esordio ai mondiali di Aspen del 1950, in Colorado, una nuova specialità: lo slalom gigante. Rispetto allo slalom già esistente, che prenderà il nome di “speciale”, il “gigante” ha porte più larghe e permette raggi di curvatura più ampi e morbidi. La nuova disciplina rappresenta un terreno neutro di sfida tra gli atleti abituati ad andar forte tra i pali stretti e gli specialisti delle discese.

I nomi più luminosi dello sci alpino di quel periodo sono vari e disparati. Si parte dall’austriaco Toni Sailer, capace di vincere tre ori mondiali su quattro discipline ad Are, in Svezia nel 1954, e di fare incetta di ori a Cortina, durante le Olimpiadi del 1956, dove però non era in programma la prova di combinata.

 

Vanno forte anche i francesi, con James Couttet e Henri Orellier che si spartiscono ori olimpici e mondiali, e spunta anche il nome del discesista italiano Zeno Colò, oro a Oslo nel 1952, e vincitore di tre medaglie, due ori e un argento, ai mondiali di Aspen del 1950. Tra le donne eccellono le svizzere, le tedesche, le austriache e le americane, ma non è ancora tempo di trovare l’erede di Christel Cranz.

Nel 1966 nasce, su idea di un giornalista, una nuova competizione, volta a portare le gare di sci alpino in giro per il mondo, come un circo itinerante della durata di tutta la stagione invernale: il circo bianco della Coppa del Mondo di sci. Il 5 gennaio 1967 si parte da Berchtesgaden, in Germania, con uno slalom speciale maschile dove vince l’austriaco Heini Messner.

 

Sarà un fuoco di paglia, perché già a partire dalla terza gara si affermerà come dominatore incontrastato il francese Jean Claude Killy, capace di vincere ben 12 prove di coppa su 17, trionfando in tutte le discipline e in quasi tutte le località toccate: Adelboden e Wengen in Svizzera, Kitsbuehel in Austria, Megeve in Francia, Sestriere in Italia, Franconia, Vail e Jackson Hole negli Stati Uniti.

 

La breve ma folgorante carriera del francese si interrompe a soli 25 anni, forse per mancanza di stimoli, non prima però di aver eguagliato l’austriaco Sailer, vincendo alle Olimpiadi di Grenoble nel ’68 tre ori olimpici, e chiudendo con 15 vittorie di coppa all’attivo e le prime due classifiche assolute. Killy prenderà altre strade e parteciperà con ottimi risultati a prestigiose corse automobilistiche in giro per il mondo, vincendo una Targa Florio, arrivando secondo in una Mille Miglia e partecipando a tre Parigi-Dakar.

 

In campo femminile l’alter-ego di Killy è la canadese Nancy Greene, che si aggiudica le prime due edizioni della coppa dopo battaglie all’ultima porta contro le rappresentanti dello scatenato squadrone francese, composto da atlete di talento assoluto come Marielle e Christine Goitschel, che in due portano in famiglia anche sei ori tra olimpici e mondiali, Christine Beranger, Annie Famose e Isabelle Mir.

Negli anni Settanta lo sci alpino è in uno dei suoi periodi più effervescenti. I nomi di rilievo sono quelli dell’austriaco Karl Schranz, degli italiani Gustavo Thoeni e Piero Gros e dell’irraggiungibile svedese Ingemar Stenmark in campo maschile, mentre per quanto riguarda il settore femminile la regina incontrastata è la campionessa austriaca Annemarie Moser-Proell.

 

I primi anni del decennio sono appannaggio della cosiddetta “valanga azzurra”. Thoeni e Gros iscriveranno l’Italia tra le nazioni di rilievo dello sci alpino, collezionando in due 36 vittorie di coppa, e vincendo cinque coppe del mondo assolute (quattro Gustavo ed una “Pierino”). I due arricchiranno il loro palmares con un oro olimpico a testa, a cui Thoeni aggiungerà anche due ori mondiali.

Numeri grandissimi ma che sembrano insignificanti se confrontati con quelli di Ingemar Stenmark, lo sciatore più vincente di tutti i tempi. Specialista delle discipline più tecniche, fa suo l’impressionante numero di 86 gare di coppa (46 slalom giganti e 40 speciali) dominando il panorama delle due discipline per oltre un quindicennio fino al 1989. Il campione di Tarnaby, piccolo paesino svedese che gli diede i natali il 18 ottobre del 1956, conquista però “soltanto” tre coppe del mondo assolute, in quanto altri avversari si dilettavano anche nelle discipline veloci guadagnando più punti, ma chiuderà la carriera con ben 16 coppe di specialità equamente divise tra gli slalom, tre ori mondiali e 2 ori olimpici a Lake Placid nel 1980. In campo femminile Annemarie Moser-Proell è di poco inferiore in termine di risultati ma vanta una poliedricità che le consente di conquistare vittorie in tutte le discipline presenti: 62 saranno al termine della carriera le affermazioni in coppa dell’austriaca di Kleinart, cui vanno aggiunti tre ori mondiali e un trionfo olimpico in discesa nel 1980.

All’ombra dei due grandi campioni, c’è una sfilza interminabile di sciatori altrettanto bravi e dal carniere invidiabile, che scrivono il loro nome negli albi d’oro e nella storia dello sci: i due fratelli Andreas e Hanni Wenzel ad esempio, portano alla ribalta il nome del piccolo principato alpino del Liechtenstein, vincendo in due 47 gare di coppa, due ori mondiali, due olimpici e tre coppe del mondo assolute, o ancora splendidi atleti come la tedesca occidentale Rosi Mittermaier e la svizzera Lise Marie Morerod o il grandissimo discesista austriaco Franz Klammer, che ebbe poca fortuna in coppa del mondo, non vincendone neanche una nonostante un carniere di 27 successi di coppa e due medaglie d’oro tra olimpiadi e mondiali.

Lo sci alpino, ormai disciplina matura, vive in questi anni una rapida evoluzione. La tecnologia approda in misura sempre più larga nel mondo del circo bianco. Il tempo si misura in centesimi di secondo, grazie a sofisticati sistemi di cronometraggio con fotocellule sparse lungo il percorso per far conoscere ai telespettatori la situazione di uno sciatore in tempo reale. Gli sci diventano sempre più veloci e soprattutto leggeri, evolvendo verso materiali sempre più elastici, e anche i paletti degli slalom non sono più rigidi ma snodati, in modo da permettere agli atleti traiettorie sempre più strette. Viene introdotta una nuova disciplina chiamata Super Gigante, in pratica una via di mezzo tra gigante e discesa libera, cha acquista subito nobiltà olimpica, e i mondiali vengono disputati non più una volta ogni quattro anni, ma ogni due.

Sul piano agonistico gli anni Ottanta sono quelli delle fortissime atlete svizzere in campo femminile e del boom mediatico e televisivo dello sci, con un pubblico sempre più ampio che si interessa alle gare grazie anche alle imprese, in pista e fuori, di un vero e proprio funambolo della neve: Alberto Tomba.

 

Bisogna però andare con ordine, perché l’atleta italiano farà la sua comparsa sulle piste di coppa solo dopo metà decennio, mentre nei primi anni era un ragazzino che vedeva dominare lo statunitense Phil Mahre, vincitore di tre coppe del mondo consecutive, ed era soprattutto testimone delle prime grandissime sfide tra due campionissimi: Pirmin Zurbriggen e Marc Girardelli. Svizzero il primo, lussemburghese (ma austriaco di nascita) il secondo, i due si danno battaglia fino agli inizi degli anni Novanta a colpi di vittorie in ogni disciplina e in ogni competizione.

 

Il raffronto tra i due è da capogiro: 5 coppe assolute a 4 per Girardelli, 43 vittorie di coppa contro 40 sempre per il lussemburghese, 7 coppe di specialità a 5 per Zurbriggen, poi ancora un bilancio pressoché in parità per quanto riguarda i mondiali, con quattro titoli ciascuno e 11 podi a 9 per Girardelli e ancora un oro a zero alle Olimpiadi per Pirmin Zurbriggen, unica casella vuota nella carriera di Marc. Incredibile.

Come accennato, il settore femminile è dominio delle svizzere. Anche qui i numeri si sprecano. In ordine cronologico Marie Therese Nadig, Erika Hess, Micaelea Figini, Maria Walliser e Vreni Schneider dominano il circo bianco per tutti gli anni Ottanta con la sola eccezione dell’americana McKinney nel 1983. Oltre 160 successi si contano nel carniere delle cinque atlete, più votate alla velocità Nadig, Figini e Walliser, imbattibili sui terreni tecnici la Hess, che vanta anche sei titoli mondiali assoluti, seconda solo a Christel Cranz, e Vreni Schneider, che in carriera vince tre coppe del mondo assolute gareggiando anche per buona parte del decennio successivo.

E siamo ad Alberto Tomba. Il ragazzone bolognese merita un capitolo a parte: si fa notare da giovanissimo per come aggredisce gli spazi stretti e per la potenza che sprigiona ad ogni cambio di direzione, ma anche per il suo carattere guascone e spensierato. Quando scia Alberto non sposta la neve, la demolisce, e a 19 anni, nel 1985, fa il suo esordio in coppa del mondo. Vincerà la prima gara nel 1987 ed esploderà alle olimpiadi di Calgary dove otterrà gli ori di gigante e slalom. Di lui si ricorderanno i successi impossibili, le rimonte ancor più impossibili durante le seconde manche e soprattutto l’interesse che ha saputo destare, non solo in Italia ma in tutto il mondo, per lo sci alpino. Tomba sarà “il” personaggio dello sci a cavallo tra gli “Ottanta” e i “Novanta”, quello che fa notizia non soltanto per ciò che raccoglie sulle piste, ma anche fuori, con la sua vita privata, i suoi flirt, le sue scazzottate e le sue controversie.

 

Nonostante un numero inferiore di vittorie rispetto a Stenmark, è considerato, da molti, il più forte slalomista di tutti i tempi. Chiuderà la carriera con un’unica affermazione nella classifica assoluta di coppa del mondo, datata 1994-95, con otto coppe di specialità, tre ori olimpici, due mondiali e 50 vittorie di coppa in totale, l’ultima delle quali, a Crans Montana nel ’98, quando, in un’immagine che è sintesi del suo carattere e della sua voglia di divertire il pubblico, scenderà in mutandoni gialli e canottiera la sua ultima discesa.

Per l’Italia gli anni Novanta non sono però proprietà esclusiva di Tomba. In campo femminile si fa notare, soprattutto negli appuntamenti che contano (olimpiadi e mondiali), un’altra sciatrice: Deborah Compagnoni. Anche “Debby” inizia giovanissima, a 17 anni, e i suoi numeri non rendono giustizia alla sua classe. Dietro le sue 16 vittorie di coppa del mondo, si nascondono distacchi abissali inflitti alle avversarie e lampi di classe assoluta. La Compagnoni nasce velocista e si specializza nel gigante, dove conquisterà le vittorie più importanti. Quello che fa impressione è la sua precisione nel programmare e raggiungere gli obiettivi e le gare su cui si concentra: ad Albertville ’92 sarà oro in SuperG, a Lillehammer ‘94 e Nagano ’98 oro in gigante, ai mondiali di Sierra Nevada ‘96 ancora oro in gigante ed al Sestriere nel ’97 farà doppietta vincendo entrambe gli slalom. Chiuderà la sua carriera ancora ventinovenne nel ’99 lasciando spazio alla giovane connazionale Isolde Kostner, discesista, che conquisterà 15 vittorie di coppa in carriera andando a sfiorare il primato italiano di Deborah.

Gli anni Novanta sono comunque ricchi di grandissime battaglie. Dalle austriache Petra Kronberger, che fa sue tre coppe del mondo, e Anita Wachter, alle tedesche Katja Seizinger e Martina Ertl, dalla slalomista svedese Pernilla Wyberg, alla già citata Vreni Schneider fino al dominio delle grandi discesiste austriache Goetschel-Dorfmeister-Meissnitzer. Tutte atlete specializzate, chi nel veloce, chi nel tecnico, che si alternano negli albi d’oro di coppa, olimpici e mondiali, misurandosi in sfide entusiasmanti sul filo del centesimo di secondo.

 

In campo maschile si affacciano prepotentemente gli atleti norvegesi, ormai non più dediti soltanto alle discipline nordiche, ma ormai inseriti a pieno titolo nel gotha dello sci alpino mondiale. Lasse Kjus e Kjetil Andre Aamodt fanno incetta di coppe, titoli e medaglie di ogni tipo.

Con l’avvento del nuovo millennio non è più tempo di numeri, in quanto i nomi che seguono sono già nella leggenda, ma quasi tutti ancora lì a buttarsi da pendii sempre più ripidi per aggiornare i loro palmares. Quel “quasi” sta per Stephan Eberharter e Janica Kostelic, austriaco il primo e specialista della velocità con due coppe del mondo assolute nel carniere, croata la seconda e forse il più grande talento inespresso dello sci alpino femminile di tutti i tempi. Janica infatti conclude giovanissima la sua presenza in coppa del mondo a causa di ripetuti infortuni ad una schiena che ha condizionato continuamente la sua attività ma che non è riuscita ad impedirle di conquistare tre coppe del mondo assolute, cinque ori mondiali e quattro olimpici.

Gli altri sono tutti lì: il roccioso austriaco Hermann “Herminator” Maier, specialista del SuperG e splendido interprete di digante e discesa con tre coppe del mondo all’attivo e un pauroso incidente alle spalle che ha rischiato di inchiodarlo su una sedia a rotelle; il funambolo statunitense Bode Miller, sempre al massimo in ogni specialità, e per questo sempre a rischio di cadute, autore di impossibili recuperi degni del più atletico felino; il polivalente austriaco Benjamin Raich, un computer capace di vincere oltre trenta gare di coppa del mondo in gigante, slalom e combinata.

 

Tra le donne siamo nell’era della polivalenza, dove le più brave (su tutte svedese Anja Paerson e l’americana Lindsay Kildow-Vonn) sono in grado di andare forte in ogni disciplina. Dietro di loro, ma in molte gare davanti a loro, sia in campo maschile che in campo femminile, un nutrito nugolo di avversari tra cui molti ottimi italiani.

Lo sci alpino è diventato, al compimento di un secolo di vita, lo sport invernale per eccellenza. E’ doveroso tuttavia ricordare che la disciplina è rischiosa, e molti bravi atleti hanno sacrificato la loro vita alla montagna, non riuscendo a sopravvivere a drammatici incidenti. In ogni caso è giusto anche dire che gli atleti stessi hanno oggi voce in capitolo su questioni riguardanti la sicurezza e che gli equipaggiamenti e le protezioni lungo le discese sono sempre più perfezionati, permettendo loro, nella maggior parte dei casi, di cavarsela anche dopo terribili cadute.

 

L’aspetto più affascinante della disciplina è comunque che in cento anni, i cambiamenti e gli accorgimenti per rendere più sicure le piste non le hanno snaturate, e i luoghi dove si misuravano i grandi sciatori del passato sono gli stessi dove si buttano oggi, in alcuni casi ad oltre 150 chilometri all’ora, quelli odierni.

 

Gare come le discese sulla pista Straif di Kitzbuehel o quella sul Lauberhorn di Wengen, conservano ancora un sapore antico e quel seducente fascino del rischio che in poche discipline è presente. Viene da sorridere a pensare che probabilmente Alfred Lunn con la sua intuizione aveva visto molto lontano: in montagna non serve combattere contro la forza di gravità, basta assecondarla.



 

 

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