[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 152 / AGOSTO 2020 (CLXXXIII)


arte

IL Sarcofago Egizio come Signore della Vita

dal periodo predinastico all’epoca romana

di Paolo Fundarò

 

Nell’antica religione egizia, le cerimonie rituali assicuravano la salvezza e la trasfigurazione in una nuova vita come continuazione di quella terrena. Queste pratiche includevano formule magiche tratte da una tradizione di testi funerari come il Libro dei Morti, dipinte sul sarcofago a partire dal primo Periodo Intermedio (VII-X dinastia), la presenza di amuleti inseriti nelle bende, e di piccole statuine detti ushabti (il servitore eterno), rappresentanti il defunto, per sostituirlo in caso di distruzione del corpo, impedendo la dissoluzione del Ka, e per assolvere ai compiti di sostentamento e di lavoro agricolo nelle luminose terre dell’Occidente, assicurando protezione e aiuto nel viaggio verso l’oltretomba (duat).

 

Il sarcofago, che in greco antico significa “divoratore della carne”, era considerato dalla civiltà egizia come "signore della vita" (neb ankh). Racchiudeva un’estesa simbologia della cosmologia egizia: la cassa rappresentava la terra, e il coperchio spesso dipinto con raffigurazione della dea del cielo Nut, il cielo.

 

“Oh madre Nut avvolgimi interamente perché io possa essere posto tra le stelle imperiture e non morire mai” riporta un inno dedicato alla dea. In quelli più arcaici, dove i corpi sono rannicchiati in vasi di terracotta, si suole vedere l’imitazione del grembo materno, premessa a una rinascita.

 

La forma e l’iconografia dei sarcofagi muta nel tempo riflettendo le trasformazioni delle varie epoche e dinastie, dai più semplici in legno grezzo nel periodo Predinastico (4500-3300 a.C.) ai più riccamente decorati del Primo Periodo Intermedio (2150-2040 a.C. ca)

 

Nell’Antico Regno (2700-2190 a.C), la cassa rettangolare era decorata come una cinta muraria per renderla inespugnabile alle forze del male e, verso la fine dell’Antico Regno, sui sarcofagi lignei appaiono decorazioni, come la falsa porta per la circolazione del Ka del defunto e l’occhio sacro per mantenere un contatto col mondo dei vivi.

 

 

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Sarcofago in legno con occhi dipinti, XII dinastia. Londra, British Museum

 

Durante il Medio Regno (1991-1785 a.C. ca) e verso la fine della XII dinastia appaiono i sarcofagi antropoidi, mentre nella XVIII dinastia (1550-1292 a.C.) durante il Nuovo Regno i sarcofagi multipli, spesso inseriti l'uno nell'altro sono il vero sostituto del corpo che assume le sembianze del dio Osiride con il quale il defunto veniva identificato “Che io viva o muoia, io sono Osiride. Entro dentro e riappaio attraverso te, mi decompongo in te, mi creo in te” (inno di Osiride Vegetante).

 

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Sarcofago antropoide. Torino, Museo Egizio

 

Risalenti alla XXVI dinastia Saitica (664-525 a.C.) sono una serie di sarcofagi antropoidi in pietra colossali, con le forme quadrangolari spesso smussate, provenienti dalle botteghe di Gīza o Saqqāra. Coll’ascesa dei regni tolemaici (332-30 a.C.) assistiamo alla modellazione della maschera funeraria che assume la forma di un busto in cartapesta rappresentate il defunto, munito di parrucca e iscrizioni apotropaiche per scongiurare i pericoli del viaggio nell’aldilà.

 

Queste fisionomie lavorate in cartonnage e a volte decorate con foglia d’oro, si legano ancora al rituale classico dell’antico Egitto, dove l’importanza degli occhi, narici e bocca rappresentano forse transiti vitali che permettono alle forze cosmiche di unirsi al defunto per poterlo trasfigurare nella luce di Osiride donando l’immortalità.

 

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Maschera in Cartonnage dorata. Londra, Petrie Museum

 

È in epoca romana (30 a.C.-395 d.C.) che si aggiunge come innovazione funeraria alla serialità della maschera, il ritratto dipinto e posto sul volto della mummia. La sua funzione, ancora oggetto di dibattito, è dovuta probabilmente alla fusione delle diversi tendenze culturali presenti durante il dominio romano nella terra dei Faraoni.

 

In questo contesto rileviamo che la tecnica pittorica del ritratto, l’encausto, era di matrice greca e l’idea del ritratto adagiato sul volto della mummia influenzato o dovuto alla tradizione patrizia dei romani delle imagines maiorum – tradizione per altro estranea al mondo greco – rappresentata da maschere in cera dell’estinto custodite in appositi armadi, e utilizzate in particolari cerimonie.

 

Un possibile anticipo di questo uso potrebbe essere ravvisato nei sarcofagi antropoidi ritrovati in Libia e introdotti dall’Egitto dai Re di Sidone Tabnit e Echmonouzar II durante la battaglia di Pelusio.

 

Tra il V e IV sec. a.C., quando parte della classe borghese fenicia, intraprende la commissione di sarcofagi che distaccandosi progressivamente dall’influenza egizia subiscono quella greca, abbiamo l’esempio di manufatti realizzati in marmo pario con la testa scolpita secondo il modello prettamente greco.

 

I volti maschili, scolpiti nei sarcofagi hanno folte capigliature, barbe e riccioli, e in alcuni sculture di teste femminile si conservano tracce policrome. Presentano una visibile affinità iconografica con le mummie e i sudari del Fayyum considerata la differenza temporale e i materiali di realizzazione.

 

I volti dipinti sulle mummie egizie occupano la stessa posizione dei volti scolpiti nei sarcofagi di Sidone, in cui affiorano nella stessa maniera tratti espressivi e realistici. Queste sarcofagi antropoidi anticipano nei propositi le mummie con ritratto o rappresentano una casuale convergenza senza corrispondenze?

 

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Mummia con Ritratto di Artemidoro. Londra, British Museum

 

In ogni caso il ritrovamento di alcune mummie ad Abusir El-Melek, deposte dentro sarcofagi ad armadio provvisti di sportelli, come le nostre pale d’altare, per l’apertura e la visione della mummia, depone a favore dell’ipotesi che il culto dei romani in Egitto aveva probabilmente sostituito la pratica delle imagines maiorum col ritratto su tavola o lino.

 

Forse il defunto, voleva apparire con quel preciso aspetto davanti il dio Osiride, sospendendo in tal modo l’ansia dell’ignoto in un eterno presente. I grandi occhi quasi sproporzionati dei ritratti, rimandano probabilmente allo sguardo di Horus dipinto nei sarcofagi, con lo scopo magico di guidare il cammino verso l’eterno ciclo del sole nascente.

 

Secondo il brillante egittologo britannico W.F. Petrie, solo l’1 per cento delle mummie rinvenute nelle necropoli di Hawara presentava un ritratto come sostituzione della maschera parte del corredo magico.

 

I volti del Fayyum, così definiti nonostante questi pannelli e sudari siano stati ritrovati in tutto l’Egitto dal 1600 in poi, fino alle coste di Marina El Almenin durante gli anni Novanta del Novecento, ammontano a più di mille e suggeriscono più un’unità stilistica che geografica. Sono considerati come l’unico collegamento con la grande pittura da cavalletto del mondo antico, ormai perduta, anche se in mancanza di altri rinvenimenti fuori dall’Egitto non abbiamo termini di paragone o riscontri per sapere se questi dipinti sono un riflesso della grande pittura greca, semplice artigianato nell’ambito di una semplificazione di provincia o una sintesi più o meno somigliante dell’evoluzione tecnica della pittura su tavola del mondo classico.

 

Nell’ambito della ricerca sul significato dei ritratti sarebbe interessante indagare anche la differenza di concezione tra quelli realizzati in cera rispetto ai meno numerosi a tempera. Cosa li distingue nella scelta della pratica funeraria?

 

La cera aveva anche una funzione simbolica o la scelta era puramente casuale? Il ritratto impediva la dissoluzione nell’invisibile, favorendo una mediazione maggiore, un segno di distinzione più preciso verso l’aldilà rispetto la maschera?

 

In ogni caso rappresentano una singolare testimonianza dell’encausto, con cui molti dipinti sono stati realizzati, e rappresentano i più antichi ritratti di persone comuni; non riproducono infatti divinità o sovrani, anche se l’archeologo G. Ebers amico dell’antiquario e faccendiere Theodor Graf alla fine dell’Ottocento tentò di spacciarli come immagini dei Tolomei per aumentarne il valore commerciale.

 

Si tratta quindi di un’eccezionale corpus di documenti unici e preziosi. Alcuni sono impregnati di un potente naturalismo, e di una esuberante forza vitale. Tutti i dipinti – ritratti e sudari – sono collocabili tra il I secolo d. C e la fine del IV secolo: da Tiberio ai regni dei Valentiniani.

 

La qualità del dipinto non dipende dall’epoca o da uno sviluppo cronologico come inizialmente si credeva, ma aderisce più all’idea funzionale del ritratto dovendo rappresentare più o meno, a secondo dei casi, la tradizione stilizzata egizia o naturalista greco-romana. Il ritrovamento di numerosi frammenti di cornici o rilievi in stucco decorato con vari motivi, con tracce di chiodi o cavicchi, di un dipinto rinvenuto da Petrie a Hawara che conserva interamente la cornice e la cordicella per appenderlo, e il famoso tondo dei due fratelli ritrovato dall’egittologo francese Albert Gayet ad Antinopolis nel 1898, fanno pensare che i ritratti eseguiti in vita sono stati successivamente utilizzati per la cerimonia funebre. Anche il taglio della tavola ai lati per adattarla alla mummia fornisce ulteriore sostegno a questa convinzione.

 

Personalmente ritengo che la maggioranza dei dipinti su tavola sia stata realizzata prima della morte della persona raffigurata; in alcuni casi forse ci troviamo di fronte a delle copie realizzate al momento del decesso o ritoccati per esigenze rituali come ad esempio l’aggiunta della foglia d’oro in alcuni casi sulle labbra per scopi propiziatori.

 

I sudari o ritratti su lino, d’altro canto appaiono con un carattere più marcatamente rituale e standardizzato, e inducono a pensare più all’utilizzo di uno schema fisso e una serie di varianti su un modello uniforme, tenuto conto anche che la posizione delle mani e gli oggetti che stringono hanno significati simbolici e funerari.

 

Nella concezione dell’antico Egitto per la sopravvivenza nell’aldilà, il corpo non doveva essere distrutto, ma conservato attraverso il rito dell’imbalsamazione perché gli elementi vitali costitutivi dell’individuo potessero attivarsi per condurlo nella vita dopo la morte.

 

I principi vitali più noti secondo la tradizione Egizia sono il Ka, la forza vitale universale che mantiene uno stretto rapporto col corpo del defunto visitandolo e accudendolo dopo la morte, il Ba, lo spirito o potenza interiore dell’essere che congiunge il mondo dei vivi coi defunti e le divinità, il Khaibhit, l’ombra o doppio immateriale che collega il corpo agli elementi intangibili dell’individuo.

 

I ritratti del Fayyum con gli occhi sepolti nel silenzio dei millenni, rappresentano probabilmente, l’ultima tappa di una rinascita attesa nel volto di coloro che hanno per sempre l’alba nelle pupille.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]