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ARTE


N. 145 - Gennaio 2020 (CLXXVI)

RUBENS E IL CICLO PITTORICO PER MARIA DE MEDICI

TRA ALLEGORIE E POTERE - PARTE V

di Sergio Taddei

 

Con la realizzazione del grandioso “poema eroico” del Ciclo del Lussemburgo, Rubens non solo attinse all’universo formale e spirituale del teatro musicale di Maria de Medici, ma consegnò alla Regina Madre un repertorio di immagini maestose e edificanti da cui difficilmente il suo entourage culturale avrebbe potuto prescindere nella elaborazione di macchine apologetiche e “magnificenze” celebrative. In seguito alla giornata degli Ingannati del 1631, ultimo tentativo della Regina Madre di compromettere con maldestri eccessi di collera il rapporto tra Luigi XIII e Richelieu, Maria de Medici dovette subire l’umiliazione del definitivo esilio nei Paesi Bassi Spagnoli.

 

Dal 1632 alla morte, avvenuta dieci anni dopo a Colonia, la Regina Madre peregrinò per varie corti dell’Europa nord-occidentale, in una affannosa ricerca di assistenza e commiserazione che dovette dimostrarsi ingombrante per i suoi stessi figli. Come è noto, con alcuni momenti di insofferenza, Rubens restò fedele nella cattiva sorte a un personaggio così devoto alla causa della monarchia asburgica, porgendole il suo aiuto di diplomatico e di artista.

 

L’autorità di quanto aveva realizzato per la Galleria del Lussemburgo era tale da costituire un modello celebrativo per quanti, come lui, avessero qualche interesse a mostrare la loro amicizia al partito della Regina Madre. I fastosi comitati d’accoglienza a lei riservati nelle città fiamminghe e olandesi recano testimonianza dell’importanza programmatica dei prestiti iconografici del Ciclo del Lussemburgo: si esamineranno brevemente i casi più eclatanti, l’entrata ad Anversa del 1632, il cui minuzioso resoconto si trova nel volume “Historie curieuse” dato alle stampe nello stesso anno dal Moretus, e l’ingresso ad Amsterdam del 1638, descritto nel volume Medicea Hospes e corredato da sontuose incisioni del pittore Claes Moyaert.

 

Il primo dei due eventi chiude trionfalmente la narrazione del viaggio della Regina Madre esiliata per le principali città fiamminghe, e non può che soffermarsi tra le altre cose sulla visita di Maria de Medici all’atelier Rubens. Dopo le solennità domenicali, la regale ospite assistette a una processione allegorica nel quale una sua controfigura attraversava le vie della città nelle vesti di Cibele, scena certo ricavata dal pannello con l’Incontro a Lione e alla cui elaborazione non dovette essere estraneo lo stesso pittore.

 

Alla fecondità e alla lungimiranza matrimoniale della Regina Madre fa riferimento ancora la coreografia delle tre ninfe abbigliate alla francese, spagnola e inglese accompagnate da Imeneo, nelle quali è difficile non riconoscere la memoria delle tre Grazie dell’Educazione della Regina o delle ninfe “nazionali” Pirene e Galathèe che nel Bal de la Reyne del 1621 assistono lo scambio delle principesse sul fiume Bidassoa. Ben diverso il messaggio ideologico sotteso ai festeggiamenti di Amsterdam, la cui apparente docilità cela in realtà un chiaro elogio delle libertà repubblicane.

 

Se le solennità fiamminghe rappresentavano la magra ricompensa degli Asburgo a una alleata che non erano stati in grado di difendere, quelle olandesi si ponevano come scelta di deliberata indipendenza politica, l’onore delle armi concesso dal vincitore a un nemico sconfitto. Il prologo steso dall’umanista Barlaeus sottolinea dal principio la distinzione tra potere divino e potere monarchico, e la stessa accoglienza riservata a Maria de Medici è presentata come libera scelta di una comunità orgogliosa della sua lotta contro qualsiasi forma di assolutismo, sia esso di matrice francese o spagnola.

 

La descrizione della disposizione e composizione degli archi trionfali segue il percorso biografico del Ciclo del Lussemburgo, indugiando sugli stessi eventi e utilizzando simili allegorie. Così la rappresentazione dei felici eventi non può che aprirsi con la scena del matrimonio (fig. 26), direttamente ispirata all’omonimo pannello rubensiano ma con delle significative variazioni, la principale delle quali la presenza di Enrico IV in persona. Sul lato destro del corteggio nuziale troneggia infatti la figura di Minerva: a mio avviso la scelta reca memoria della prima, perduta, versione rubensiana della scena, quella che attraverso la presenza di Minerva ricordava lo spettacolo cantato di Guarini e Cavalieri e che fu descritta in termini entusiastici da Peiresc.

 

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C. de Moyaert, Il Matrimonio di Maria de Medici,

incisione da Medicea Hospes, Amsterdam, Blaeu, 1638  

 

  

Di ispirazione altrettanto rubensiana l’incisione col carro trionfale trainato da leoni (fig. 27), la quale non fa mistero di essere ricavata dal pannello con L’Incontro a Lione.

 

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C. de Moyaert, Maria de Medici come Berecynthia,

incisione da Medicea Hospes, Amsterdam, Blaeu, 1638

 

“Aveva poche virtù e pochi difetti che la rendessero temibile, tuttavia, dopo tanto splendore e tanta grandezza, questa principessa, vedova di Enrico IV e madre di tanti re, è stata fatta imprigionare dal re suo figlio e dall’odio del cardinale de Richelieu che le doveva la sua fortuna. È stata abbandonata dagli altri suoi figli, che non hanno neppure avuto il coraggio di ospitarla nei loro Stati e, dopo una persecuzione durata dieci anni, è morta di miseria e quasi di fame a Colonia”

 

Tolto il “pio velame” dell’allegoria e della trasfigurazione eroica, questo resta della vita di Maria de Medici: poche inesorabili righe con le quali la icastica penna di Francois de la Rochefoucauld riassume l’infelice biografia della Regina Madre.

 

Il fatto che ancora nel 1637 Rubens si impegnasse nel disegnare il succitato frontespizio dell’opera apologetica di Matthieu de Morgues rivela che, nonostante le necessità di adulazione, l’impegno diplomatico a favore degli Asburgo, i fastidi derivati dall’aver sostenuto una causa persa, il pittore non fu privo di una sincera devozione verso la causa della Regina Madre.

 

Nelle antinomie non sempre efficacemente risolte del ciclo mediceo, nell’inversione di tendenza che porterà l’espediente allegorico da enfasi di qualità individuali a elemento di spersonalizzazione carnevalesca, si rivelano i prodromi di quel fenomeno di progressivo abbandono della componente eroica e tragica nella cornice celebrativa della aristocrazia francese che verrà portato a compimento dalla politica delle immagini del Re Sole.

 

In breve, la svolta simbolica intrapresa in itinere nel cantiere del Lussemburgo costituisce l’espressione artistica dell’adeguamento riottoso all’esigenza assolutistica di uniformità e astrazione: una Fronda pittorica che al pari delle successive verrà destinata a piegarsi alle nuove forme del potere. A ragione Thuillier parla a proposito del ciclo rubensiano come di una “formula senza posterità”, nella difficile ricerca di potenziali eredità artistiche di tale concezione narrativa. La formula della Vita di Maria de Medici segna il trauma irrisolto di una corrente che fu privata per ragioni politiche e temporali di un vero e proprio apice, il quale sarebbe stato probabilmente costituito dalla Galleria di Enrico IV.

 

Se la freschezza della coesione tra mito e storia, la sublime trasfigurazione eroica della realtà conducono la portata del lavoro ben al di là dei suoi precedenti italiani e francesi, l’intreccio di dinamiche incompatibili, repentine inversioni di tendenza e pericolose implicazioni politiche non permisero al lavoro di raggiungere la coerenza dell’archetipo. Il buonsenso delle raccomandazioni del libello Des peintures convenables, steso nel 1600 dal Laval, sulla necessità di mantenere separati l’ambito mitologico da quello della storia recente, continuò a prevalere tutto sommato quale linea guida dell’arte di stato barocca.

 

Per tornare alle radici concettuali della nozione rubensiana di “eroico”, si può far risalire il monito di Laval al dibattito cinquecentesco sulle unità della poetica aristotelica: l’apostolo del poema eroico, Tasso, raccomanda nei suoi Discorsi che nella elezione di una materia a soggetto di un lavoro epico si ricerchino eventi “lontani da la nostra memoria con distanza conveniente”. Con tutti i suoi vertiginosi gorgheggi mitologici adulatori, il manierismo italiano aveva tendenzialmente rispettato le linee generali di tale “aristotelica” separazione narrativa e concettuale.

 

Dagli esecrati tempi di Nerone, il demone degli stoici, il palcoscenico era stato invece il luogo del mascheramento mitologico più impudente: la grande sala del Louvre vedeva abitualmente membri della famiglia reale volteggiare compiaciuti nei panni di dei e eroi, inscenare sulle spalle della loro fiera aristocrazia la sacra rappresentazione del potere. Solo il ballet de cour riesce a mio avviso a giustificare un connubio di tale arroganza tra mito e realtà, intervenendo quale luminosa meteora nella mentalità rigorosa di un pittore innamorato dei valori morali della storia e dell’epica antica.

 

La cultura del balletto allegorico intervenne a salvare la libertà compositiva dal naufragio della censura: l’operazione fu resa possibile dallo spostamento dell’attenzione dal soggetto allegorizzato all’allegoria stessa. In pannelli quali la “Fuga di Parigi” una scena assolutamente realistica vede l’inserimento di personaggi mitologici quale mezzo per enfatizzare caratteristiche morali dei protagonisti, in composizioni del genere della “Felicità della Reggenza” una coreografia assolutamente fantastica è messa in scena da attori che prestano il loro volto per una rappresentazione di un concetto universale.

 

La maschera prevale sull’individuo, la realtà diviene allegoria di una nozione astratta. Un’apoteosi mitologica risultava innocua ancor che superba, il volto familiare di un re o di un marchese aveva il diritto di celarsi nella figura di un Giove fulminatore, tuttavia nessun dio era mai disceso dall’Olimpo al precipuo scopo di consolare una regina dei suoi patimenti o per rincuorarla di incaute scelte politiche.

 

Una simile apologia dell’individuo era inaccettabile ai fini della ragion di stato: il Leviatano avrebbe presto richiesto in tributo ai principi il regno dell’interiorità.

 

 

 Riferimenti bibliografici:

 

Balet comique de la Reyne, Paris 1582.

Barlaeus, C., Medicea Hospes, Blae, Amsterdam 1638.

Bordier, R., Description du ballet de Madame…, Sara, Paris 1615.

Bordier, R., Ballet de la Reyne en forme de Soleil, Paris 1621.

Buonarroti il Giovane, M., Descrizione delle felicissime nozze …, Marescotti, Firenze 1600.

Christout, M.F., Le Ballet de Cour au XVII siecle, Editions Minkoff, Ginevra 1987.

De la Serre, P., « Histoire curieuse… » , Moretus, Anversa 1632.

de Morgues, M., Diverses pieces pour la defense de la Royne Mere, Moretus, Anversa 1637.

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Fabbri, P., Monteverdi, EDT, Torino 1985.

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V. Orsini, V., Un paladino nei palazzi incantati, a cura di R. Zapperi, Sellerio, Palermo 1993.

Rinuccini, O., Poesie, Firenze 1622.

Rubens, P.P., Rooses, M., Ruelens, C., Correspondance de Rubens et documents…, III, Anversa 1900.

Thuillier, J., Le storie di Maria de Medici al Lussemburgo, Rizzoli, Milano 1967.

Tasso, T. Prose, Rizzoli, Roma 1935.

van Puyvelde, L., Dessins de Pierre-Paul Rubens, Editions de la connaissance, Bruxelles 1939.

von Simson, O., La vita di Maria de’ Medici nell’opera di Rubens, Fratelli Fabbri, Milano 1965.



 

 

 

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