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N. 141 - Settembre 2019 (CLXXII)

rubens e IL CICLO PITTORICO per MARIA DE MEDICI

TRA ALLEGORIE E POTERE - PARTE I

di Sergio Taddei

 

“laonde pare che l’istorico,

non contento de’ suoi termini,

trapassi né confini de la poesia”

 

Torquato Tasso, Discorsi del poema eroico

 

Secondo Esiodo, la Storia ha la sua Musa, Clio, colei che rende celebri: nella personificazione è celato il mistero alchemico della trasformazione dell’ordinario in eccezionale, del vero in memorabile.

 

Più di mille anni più tardi, Torquato Tasso resterà soggiogato dalla abilità delle nove figlie di Giove nel “dir molte bugie simili a la verità”: i suoi Discorsi del Poema Eroico sono opera che potrebbe offrire allo studioso una chiave di lettura per la fortunata convivenza di vero e meraviglioso quale si osserva nella Galleria del Lussemburgo.

 

Il grandioso ciclo di ventiquattro tele elaborato tra 1621 e 1625 da Peter Paul Rubens per celebrare gli effimeri successi della triste vita di Maria de Medici e destinato alla residenza parigina della Regina Madre, si impone per meriti non solo tecnici nella memoria dei posteri assai più che non le algide allegorie olimpiche con le quali Le Brun catasterizza nei cieli di Versailles i trionfi del Re Sole.

 

La sterminata letteratura riguardante la più ambiziosa commissione pubblica del primo ‘600 europeo si sofferma, almeno dalla ormai classica monografia di Thuillier in poi, sul desiderio della Regina Madre di eternare per mezzo dell’arte di Rubens onori e patimenti in egual misura, allo scopo di restituire l’immagine commovente di una eroina tragica piuttosto che il freddo simulacro di una sovrana vittoriosa.

 

Tuttavia due forze ben più potenti agirono indipendentemente dalle volontà della committente sull’elaborazione di una impresa artistica che assurgeva progressivamente allo stato di importante manifesto politico: da una parte la brama di Richelieu di valorizzare il suo ruolo di mediazione durante il conflitto che oppose Maria a suo figlio re Luigi XIII, dall’altra l’ansia del re stesso di non trovare appeso sulle pareti del Lussemburgo alcun episodio che potesse fare onta alla sua condotta morale.

 

Le due polarità che, allo scopo di aggirare imposizioni e censure, l’abilità del pittore fiammingo fu chiamato a far convergere entro una immagine di malinconica, solenne nobiltà furono dunque realtà biografica e idealizzazione allegorica. Nella accesa dialettica tra tali polarità, episodi come la precipitosa sostituzione del pannello con la “Fuga da Parigi” mediante la scena squisitamente simbolica e coreografica de “La Felicità della Reggenza avvenuta nel 1622 testimoniano la indiscussa vittoria della corrente del mitologismo allegorico sulla profonda serietà venata di eroica malinconia all’antica che caratterizzava le scene prettamente biografiche.

 

Attraverso puntuali confronti letterali e iconografici la presente trattazione si propone di portare avanti l’ipotesi che la componente allegorica del Ciclo del Lussemburgo sia debitrice tanto nella forma quanto nel contenuto alle coeve manifestazioni poetiche, coreutiche e musicali della corte parigina, in particolare il panegirico e il ballet de cour.

 

Con quest’ultima sigla si definisce la sontuosa tipologia di intrattenimento scenico-musicale in voga nella Francia del XVII secolo, frutto della felice unione tra neoplatonismo letterario di matrice pleiadista, gusto di ascendenza italiana per l’onirico e il meraviglioso e scaltra allusività politica. La pregnanza pubblica di questo tipo di balletti è testimonianza dal fatto che membri della più alta aristocrazia e finanche della famiglia reale solevano celebrarvi il rito della propria epifania nelle vesti sontuose di personaggi mitologici, fenomeno che costituirà in seguito il nerbo della propaganda culturale del Re Sole.

 

All’altezza cronologica dell’elaborazione del ciclo con la Vita di Maria de Medici, nessuna altra forma d’arte ufficiale poteva dispiegare con pari disinvoltura una tale commistione di elementi realistici e favolosi, in una ambivalenza di scopi oscillante senza mezze misure tra la l’utopia dell’armonia universale e la più servile lode di circostanza. In virtù di tale peculiarità questo lavoro vede nel ballet de cour il più vicino e illustre modello del ciclo rubensiano in termini di declinazione programmatica dell’allegoria mitologica.

 

Nonostante la sterminata produzione epistolare del pittore fiammingo non adombri un rapporto diretto con tale tipologia di rappresentazione, i principali attori dell’avventura francese di Rubens ebbero col ballet de cour un legame privilegiato: in primo luogo la protagonista, Maria de Medici, solita esaltare con capricciosa invadenza la propria immagine calcando le scene in ruoli magniloquenti quali Minerva o il Sole, in secondo luogo l’abate Peiresc, uno dei più stretti collaboratori dell’artista, la cui corrispondenza col poeta e librettista Malherbe è fitta di richiami ai coevi intrattenimenti musicali parigini. Sebbene la storiografia artistica dedicata alla Vita di Maria de Medici abbia fin dai tempi del Puyvelde suggerito l’ipotesi di una influenza del teatro musicale coevo nell’approccio che Rubens riserva all’argomento mitologico, l’analogia non è mai uscita dall’alveo delle suggestioni preziose o dei fugaci riferimenti.

 

Si propone in questa sede dunque la finalità di attendere a una rigorosa disamina delle analogie testuali, iconografiche e concettuali che intercorrono tra esempi di ballet de cour realizzati nel periodo tra la morte di Enrico IV (1610) e il completamento del ciclo pittorico dedicato alla vita di Maria de Medici (1625), e le scene allegoriche del ciclo stesso. La trattazione si pone come premessa la ricerca dei fondamentali punti di contatto tra la carriera artistica e diplomatica di Rubens e i principali siti di genesi del teatro musicale in Italia e in Francia.

 

La sezione principale sarà occupata da una analisi delle corrispondenze scena per scena, cercando laddove possibile di mantenere un ordine cronologico. Successivamente, il richiamo a uno degli eventi capitali della difficile elaborazione del Ciclo, l’imposta sostituzione del concitato pannello con la fuga della Regina da Parigi mediante la scena squisitamente allegorica della “Felicità della Reggenza”, sarà vista quale inizio di una progressiva rinuncia della propaganda dinastica francese all’elemento patetico e realistico, a favore di una celebrazione sempre più magnifica, algida ed esteriore.

 

Infine, si osserverà la maniera in cui le più fortunate soluzioni iconografiche di Rubens torneranno a vestire abiti teatrali, facendo mostra di sé in alcuni spettacoli encomiastici messi in scena ad Anversa e Amsterdam negli anni trenta del diciassettesimo secolo per concedere la consolazione di una fastosa accoglienza alla esiliata Maria de Medici.

 

 

La vocazione teatrale e musicale di Rubens e Maria de Medici

dall’Italia alla corte di Parigi

 

Nel novembre 1600, a sbarcare a Marsiglia e scortare a Lione la futura Regina di Francia si trovava uno dei più colti, discussi e sofisticati gentiluomini romani, Don Virginio Orsini, duca di Bracciano.

 

L’eccentrico personaggio avrebbe proseguito poi il suo viaggio oltre Lione per la smania di un incontro regale ben più stimolante, quello con Elisabetta d’Inghilterra, lasciando dietro di sé una affascinante traccia epistolare, importante per farsi un’idea di come un raffinato aristocratico italiano avrebbe potuto considerare gli intrattenimenti delle principali corti europee.

 

In particolare destò scandalo nella Roma del tempo, tanto da procurare all’inavveduto Don Virginio una insidiosa scomunica, il suo ballo a due con la scismatica regina Tudor: l’avvenimento divenne subito leggendario e costituisce notevole testimonianza dell’immenso peso politico che all’epoca di Rubens e Maria de Medici potessero rivestire balletti e “magnificences” di corte.

 

Spettacoli coreutico-musicali, caroselli a cavallo, pantomime mitologiche costituivano la versione innocua e ingentilita di processioni e tornei del tardo-medioevo: è significativo il fatto che Caterina de Medici, la regina che proibì per sempre la giostra nella corte francese dopo il trauma della morte del marito, fu anche il personaggio che diede maggiore impulso alla nascita del genere del ballet de cour.

 

Il Ballet des Polonais del 1573 e il Ballet comique de la Reyne del 1581 costituiscono gli atti fondativi della cultura del balletto allegorico francese : esso univa sontuosamente arte musicale, scenografica, coreutica e declamatoria allo scopo di esaltare metaforicamente fatti della vita di corte, personaggi della famiglia reale o dell’alta aristocrazia, concetti universali legati all’infallibilità della monarchia.

 

I succitati esempi di età cateriniana rivelano ancora una profonda matrice neoplatonica e classicista dovuta all’intervento di Ronsard e degli accademici pleiadisti nella stesura del libretto, tuttavia già il Ballet comique rivela una rapida evoluzione verso il senso del grandioso e del celebrativo.

 

In seguito gli spettacoli dell’età di Enrico IV, Maria de Medici e Luigi XIII privilegeranno alle componenti filosofiche e universalistiche una più disinvolta ricerca del grandioso e della celebrazione di circostanza: la struttura dei balletti si farà più semplice e uniforme, la partecipazione diretta di membri della aristocrazia e della famiglia reale abitudine irrinunciabile.

 

Sebbene ritenga personalmente la contemporanea genesi del ballet de cour francese e del melodramma italiano quali eventi indipendenti l’uno dall’altro ancorché strettamente interconnessi, è inevitabile considerare la svolta dei balletti parigini di età medicea in termini di coerenza drammatica e semplificazione dell’apparato simbolico quali portati della sempre maggiore nomina a corte di scenografi, librettisti e musicisti provenienti dal Sud delle Alpi. Esemplare l’esperienza di Ottavio Rinuccini, il celebrato poeta fiorentino autore dei libretti di due dei primi melodrammi della storia, L’Euridice di Peri e la Dafne di Marco da Gagliano, il quale accompagnò Maria de Medici in Francia e vi rimase fino al 1605 alla corte di Enrico IV.

 

A quanto scrive suo figlio Pierfrancesco nella prefazione al volume delle sue Poesie, Ottavio mise in scena a Firenze durante le nozze per procura di Maria de Medici e Enrico IV la sua Euridice alla presenza di “tanti signori di Francia” e ritornò dal suo soggiorno parigino introducendo in patria il balletto francese. A quell’altezza cronologica, Don Virginio Orsini riporta che anche nella corte di Elisabetta d’Inghilterra si rappresentasse in sua presenza “una commedia mescolata con musica e balli”, testimonianza che all’alba del diciassettesimo secolo la consuetudine del teatro in musica avesse già, oltre che valicato le Alpi, attraversato la Manica.

 

La stessa Maria de Medici ricevette a Firenze una valida educazione musicale, aspetto su cui insiste il panegirico Il Tempio di Giovan Battista Marino, e su cui si soffermerà anche la tela con L’Educazione della Regina. Durante il suo soggiorno italiano, Rubens incontrò personalmente tutti i personaggi precedentemente nominati, assistendo dunque direttamente agli atti fondativi del melodramma italiano.

 

Volendo dar fede a quanto Peiresc afferma nella lettera del 27 ottobre 1622, egli fu presente alle nozze fiorentine di Maria de Medici, interagì con Virginio Orsini a Livorno poco prima di imbarcarsi per la Spagna, partecipò ai principali cantieri della Mantova di Vincenzo I sovrintesi da Antonio Maria Viani, artista poliedrico che fu vent’anni prima scenografo degli intrattenimenti musicali della corte bavarese e la cui partecipazione nella realizzazione delle “macchine” per i melodrammi di Claudio Monteverdi e Ottavio Rinuccini è nota attraverso documenti e lettere di pagamento dell’archivio Gonzaga.

 

Tra 1600 e 1608 Rubens ebbe dunque un ruolo attivo nella vita culturale delle città natali del melodramma italiano, Firenze, Mantova e Roma. Gli stessi anni del soggiorno romano di Rubens videro il trionfo della Rappresentatione de Anima et Corpo di Emilio de Cavalieri (1600), e dell’Eumelio di Agostino Agazzari (1606), rispettivamente il primo oratorio in musica e il primo “dramma pastorale” della storia cittadina.

 

La succitata lettera di Peiresc del 27 ottobre 1622 esprime la certezza che nella Iris di una perduta versione della tela con Il Matrimonio per procura di Maria de Medici si celi memoria del “Dialogo di Giunone e Minerva”, scritto in occasione delle nozze medicee dal Guarini e messo in musica, secondo la “Descrizione” di Buonarroti il Giovane, da Emilio de Cavalieri.

 

La commissione vallicelliana pone le basi per nuove ipotesi riguardo un ulteriore e più significativo incontro tra Rubens e l’arte musicale rappresentativa del più valente compositore romano del momento, giacchè la Rappresentatione de Anima et Corpo aveva visto la sua genesi nell’Oratorio della Chiesa Nuova. In ultima analisi, resta da considerare la fecondità del rapporto che in ogni città italiana in cui fu attivo legò Rubens all’ordine religioso la cui influenza fu più importante nello sviluppo del teatro musicale: i gesuiti.

 

Sulla scorta di una felice intuizione di Kurtzmann, si può formulare l’ipotesi che la beatificazione di San Luigi Gonzaga celebrata nel 1605 a Mantova mediante una solenne processione dalla Cattedrale alla Chiesa dei Gesuiti possa aver costituito l’occasione della realizzazione tanto del trittico rubensiano con la Famiglia Gonzaga in Adorazione della Trinità quanto del mottetto di argomento trinitario Due Seraphim di Monteverdi: il mottetto, inserito nel 1610 nell’edizione veneziana dei Vespri della Beata Vergine, è infatti attribuito dal musicologo al periodo in cui il compositore rivestiva la carica di maestro di cappella di Vincenzo Gonzaga.



 

 

 

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