[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

176 / AGOSTO 2022 (CCVII)


contemporanea

IL RINASCIMENTO CONTRO LE DONNE

MISOGINIA E ANTIFEMMINISMO
di Marco Fossati

 

Il Medioevo è considerato il periodo più oscuro della storia europea tanto che l’aggettivo “medievale” è diventato sinonimo di negatività; al contrario se si parla di Età moderna o Rinascimento si evoca automaticamente un periodo positivo e dinamico. Una ricerca storica più approfondita ha dimostrato come tali concezioni (e periodizzazioni), sebbene abbiano un fondo di verità, debbano essere comunque ridimensionate.

Un esempio viene offerto dalla cosiddetta storia di genere, più precisamente dalla storia delle donne. «A volte il pensiero progressivo, soprattutto negli studi sulla condizione femminile tende a immaginare un’ininterrotta evoluzione dei diritti delle donne che approda felicemente al suo più alto grado nella società occidentale contemporanea» (Lazzari 2010).

In realtà la condizione femminile nel corso dei secoli non ha avuto un percorso lineare; vi furono sviluppi positivi in alcuni periodi e sensibili arretramenti in altri: il lasso di tempo che contraddistingue il cosiddetto Rinascimento (secoli XIV-XVI) ricade sicuramente tra i periodi meno positivi. Non a caso nel 1977 la storica statunitense Joan Kelly, pubblicò un saggio il cui titolo poneva una domanda provocatoria: «Le donne hanno avuto un Rinascimento?».

La risposta fu negativa; ovvero se le donne hanno avuto un “rinascimento”, inteso come miglioramento della propria condizione all’interno della società questo, secondo Kelly, non è avvenuto nei secoli rinascimentali. Certo se si guarda alla storia politica non si può negare che vi furono in quell’epoca figure femminili decisamente importanti, ma non si deve commettere l’errore di giudicare la situazione delle donne del tempo prendendo esempio da qualche sovrana, nobildonna o scrittrice. Queste furono delle «donne-alibi» che hanno indotto a parlare di parità tra i sessi e, soprattutto, «hanno nascosto la condizione reale dell’immensa maggioranza delle donne dell’epoca. La promozione di alcune fra loro non significò assolutamente un’emancipazione globale» (Delumeau 1979).

Secondo la psicanalisi, l’ostilità tra le due componenti del genere umano è sempre esistita; alla base di ciò vi sarebbe un impulso inconscio sulle cui cause esiste un ampio dibattito. È certo che tale condizione sia stata influenzata dall’atavica paura dell’uomo nei confronti dell’altro sesso. Una paura che nasce anch’essa da vari fattori tra i quali la maternità è forse il principale. In passato era un evento avvolto nel mistero e pertanto, sin dalle epoche più remote, fonte di inquietudini, miti, riti e tabù. Inoltre l’attrazione esercitata dalla donna (fisica ma soprattutto psicologica) è sempre stata vissuta dall’uomo come una minaccia alle proprie facoltà mentali e una limitazione alle, secondo lui superiori, qualità fisiche.

Alcuni storici hanno ipotizzato che nelle società preistoriche, esistesse una relativa parità di genere e fosse largamente diffuso il matriarcato; quella struttura sociale in cui eredità e potere si trasmettono attraverso la linea materna e pertanto le donne godono di diritti e privilegi che bilanciano quelli maschili. La crescente conflittualità tra i gruppi umani, il sempre maggior ricorso alla guerra e alla violenza, con il prevalere di qualità particolari come la forza fisica, pare abbiano lentamente costretto il genere femminile in una posizione di inferiorità sociale. Sebbene tale tesi sia stata più volte contestata è evidente come la donna, nel corso dei secoli, sia sempre stata relegata ai margini della società (salvo rari casi tipo l’Antico Egitto e alcune civiltà mediterranee), in una condizione di soggezione o sottomissione, nei confronti dell’uomo.

Aristotele (384-322 a.C.), uno dei principali pensatori del mondo antico, rielaborando le speculazioni filosofiche e scientifiche del suo tempo, sostenne la cosiddetta teoria emogenetica per cui la donna è l’elemento passivo nella generazione della specie umana. Nel trattato filosofico-naturalistico, Generazione degli animali, affermava: «La femmina è un maschio mancato»; ovvero un difetto della natura utile per la riproduzione della specie. Mentre nel saggio Parti degli animali, scriveva: «Tra gli animali, l’uomo ha il cervello più grande in rapporto alle sue dimensioni; tra gli uomini i maschi l’hanno più grande delle femmine».

Teorie ovviamente frutto di scarse conoscenze, ma anche di un radicato sentimento di avversione verso l’altro sesso, che diventarono comunque il paradigma scientifico dell’antichità. Di conseguenza la presunta inferiorità intellettuale e fisica delle donne ne comporta la totale esclusione dalla vita sociale, politica e religiosa. Una condizione di "apartheid" e sottomissione che rimase più o meno immutata fino al Medioevo.

Anche la diffusione del Cristianesimo non modificò molto la situazione. Nonostante nei Vangeli, per quanto riguarda la parità di genere, vi siano aspetti rivoluzionari, saranno proprio i pensatori cristiani a porre le basi per la misoginia dei secoli successivi.

Già nell’opera di San Paolo (I secolo d.C), che riflette la cultura greco romana, si trovano alcuni passaggi chiaramente antifemministi (che verranno in seguito fin troppo enfatizzati) come nella Prima lettera ai Corinzi: «Né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo»; o il famoso passaggio della lettera agli Efesini: «Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore [...] siano soggette ai loro mariti in tutto».

Nei secoli successivi i toni saranno molto più espliciti e duri. Tertulliano agli inizi del III secolo si rivolge così alle donne: «Non sai che anche tu sei Eva [...] tu sei la porta del diavolo. Tu hai toccato l’albero di Satana e sei stata la prima a violare la legge divina». Mentre Sant’Ambrogio (IV secolo) afferma: «È stata la donna autrice del peccato per l’uomo, e non l’uomo per la donna».

Queste sono solo alcune delle fonti sulle quali si basa la vasta produzione filosofico-letteraria dei secoli medievali, dove la donna è descritta come incline al peccato (accomunata a Eva), pertanto guardata con diffidenza e sospetto. Bisogna però ricordare come tale produzione fosse in gran parte opera di religiosi, a uso e consumo di altri religiosi; ovvero si rivolgeva a un ambiente particolare ed essenzialmente chiuso. Tant’è che tra V e X secolo tali considerazioni ebbero uno scarso impatto nella società. Inoltre, dallo stesso ambiente ecclesiastico provenivano atteggiamenti in un certo senso contraddittori. Ad esempio nelle parole di Sant’Agostino (354-430): «Dalla donna la morte, dalla donna la vita». Soprattutto nell’esaltazione della figura di Maria come in San Gerolamo (V secolo): «Morte da Eva, vita da Maria».

Infatti il pensiero cristiano prevedeva per le donne la possibilità di riscattare la loro condizione attraverso la vita religiosa e la consacrazione a Dio (la Madonna ne era il riferimento ideale). Aspetto importante nei primi secoli medievali, dato che il convento offriva la possibilità di uscire dalla famiglia, evitando il matrimonio e una relativa indipendenza seppur all’interno delle strutture religiose; la possibilità, inoltre, di ricevere un’educazione di alto livello.

Molti monasteri femminili, almeno fino al XI secolo, furono rinomati centri culturali. In questo periodo, la ormai secolare convivenza con la tradizione nordica delle popolazioni barbariche, dove la considerazione della donna era molto meno negativa, contribuì a sensibili innovazioni. Sono numerose le leggi che pur nel contesto di una società a prevalenza maschile, tentarono di migliorare alcuni aspetti della vita materiale femminile.

A partire dal 543 con le leggi di Giustiniano si iniziano a prendere in considerazione, per quanto riguarda il diritto ereditario, anche la linea di discendenza femminile; «La parentela giuridica non era più solo quella che derivava dal padre e dai suoi ascendenti ma anche quella che legava i nuovi nati alla madre e al suo gruppo familiare d’origine» (Lazzari 2010). Nei domini longobardi comparvero norme che tutelavano le donne dalle molestie sessuali e offrivano, in alcuni casi, la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale. Nei regni visigoti si tentò di porre un freno alla pratica delle spose bambine e dei matrimoni combinati.

Nel IX secolo la riforma scolastica introdotta dai Carolingi in gran parte dell’Europa, consentiva anche alle ragazze (almeno quelle delle classi sociali più elevate) un più facile accesso all’istruzione. Per quanto riguarda il lavoro, specie tra le classi sociali inferiori e nell’ambito di un’economia di sussistenza, le donne non sembravano avere, pur con mansioni diverse, particolari restrizioni. Non godevano però di libertà giuridica e dovevano essere sotto la tutela di un uomo (marito, padre o autorità locale). Condizione simile a quella dei servi e dei semiliberi; situazione che dipendeva solo in parte dal genere dato che era conseguenza del complicato sistema di rapporti e legami consuetudinari, che caratterizzava la società feudale.

Nei secoli alto medievali quindi vi furono dei segnali (seppur minimi) di un relativo miglioramento della condizione femminile. Il quadro, però, cambia sensibilmente intorno al XII secolo quando, nella società europea, iniziano una serie di trasformazioni che interessano le principali istituzioni dell’epoca. Se da un lato l’Impero perde il suo potere sul territorio (in sostanza un processo di svuotamento), dall’altro lato la Chiesa, subisce una trasformazione opposta. Essa rafforza in modo spropositato la propria funzione di guida politico-sociale plasmando, in pratica, la società a sua immagine. Non a caso in questo periodo si inizia a usare il termine Cristianità per indicare l’Europa centro-occidentale; un’idea essenzialmente religiosa che condiziona ovviamente l’immaginario collettivo. In questo modo teorie e idee ma anche inquietudini e ossessioni delle autorità ecclesiastiche, si diffondono all’intera società.

L’aspetto religioso portato al parossismo provoca una visione dualistica del mondo, ovvero una contrapposizione tra bene e male. Se il bene è la Cristianità, il male, l’avversario, è chi si oppone a essa. Pertanto la donna che per secoli nelle speculazioni dei teologi è stata accomunata al peccato quindi al male, diventa automaticamente non solo nemica della Chiesa ma dell’intera società. In definitiva tale processo ebbe una precisa conseguenza: «Ciò che nell’ Alto Medioevo era argomento monastico è diventato in seguito, per l’allargarsi progressivo dell’uditorio, avvertimento spaventato a uso di tutti i cattolici, che furono invitati a confondere vita dei chierici e vita dei laici, sessualità e peccato, Eva e Satana» (Delumeau 1979). Senza dimenticare che intorno al XII secolo viene riscoperta la filosofia greca, in particolare l’opera di Aristotele; adattata da Tommaso d’Acquino al pensiero cristiano contribuisce di fatto a formare il modello scientifico dell’Occidente. Pertanto anche le teorie antifemministe dell’antichità si ripropongono come rispettate tesi scientifiche.

Non è un caso che proprio negli ultimi secoli medievali si assista a una crescente discriminazione nei confronti delle donne. Ad esempio nel XIII secolo, con l’emergere delle Corporazioni, in un’economia sempre più orientata verso un sistema precapitalista, iniziarono i primi provvedimenti tesi a limitare il lavoro femminile. Tant’è che dopo il XIV secolo, le donne impiegate nelle organizzazioni artigiane e commerciali, diventarono un’esigua minoranza. In ambito ecclesiastico i monasteri femminili persero il loro potere sul territorio a seguito di norme come l’istituzione della clausura, del 1298 e videro ridotto anche il loro prestigio culturale a scapito delle Università. Queste ultime, dominate dai chierici, erano proibite alle donne, che non potevano né insegnare né predicare (in base all’interpretazione di un passo dell’opera di San Paolo).

Provvedimenti discriminatori e oppressivi, si moltiplicano in tutta Europa; imposti sia dalle autorità religiose che da quelle civili. Ad esempio, in Francia, nel corso del XIV secolo si fissarono le norme che impedivano alle donne di regnare e vietavano di trasmettere la corona per via ereditaria femminile. Sempre in Francia un regio decreto del 1556, obbligava le ragazze nubili a denunciare le gravidanze alle autorità e, in caso di decesso del bambino prima del battesimo, si prevedeva la pena di morte per la madre che non aveva seguito tale obbligo.

Leggi analoghe furono introdotte nei regni inglesi e in gran parte degli stati tedeschi. Il re d’Inghilterra Enrico VIII nel 1543 proibì la lettura della Bibbia a tutte le donne, escluse quelle appartenenti alla nobiltà che comunque potevano leggerla solo in privato e non ad altre persone. In Italia dopo il Concilio di Trento, nel 1563, era proibito in tutti i monasteri femminili suonare strumenti musicali tranne l’organo, con la seguente motivazione: «Poiché la musica è sommamente dannosa per la modestia che è propria del sesso femminile». Tant’è che nel Seicento, alle donne in generale fu proibito ricevere un’educazione musicale da parte di un uomo.

Nel 1580 nell’Elettorato di Sassonia, la metà delle parrocchie avevano autorizzato scuole di lingua tedesca per maschi, solo il 10% le aveva autorizzate per le femmine. Comunque, oltre alle evidenze delle molte discriminazioni di genere c’è un fenomeno molto più inquietante che ha caratterizzato la prima età moderna europea: la cosiddetta caccia alle streghe.

Sul sorgere delle credenze circa magia e stregoneria, soprattutto sulla sua repressione, influirono numerosi fattori, ma quello che qui interessa sottolineare è come tutto ciò abbia interessato soprattutto le donne. Alcune statistiche circa la distribuzione per sesso degli accusati di stregoneria nell’Europa centro occidentale, evidenzia come la percentuale delle donne coinvolte oscillasse, da una regione all’altra, tra il 60% e il 90% sul totale delle persone processate. «Poiché la paura della donna – considerata la metà sovversiva dell’umanità – aveva avuto il suo culmine in Occidente, agli inizi dei tempi moderni, non c’è da meravigliarsi se la caccia alle streghe assunse allora una violenza stupefacente» (Dolumeau 1979).

Per quanto riguarda la repressione il testo di riferimento fu il famigerato Malleus Maleficarum (Martello delle streghe). Scritto da due monaci domenicani, venne pubblicato in Germania nel 1486 e, fino al Seicento, ebbe decine di riedizioni in tutta Europa. Nell’opera l’avversione per il genere femminile è ampiamente diffusa: «Una donna, quando pensa da sola, pensa cose malvagie. [...] Se non ci fosse la malizia delle donne, [...] il mondo sarebbe liberato di innumerevoli pericoli. [...] È più amara della morte, vuol dire che è più amara del diavolo; [...] la morte è naturale e uccide solo il corpo, ma il peccato che è cominciato con la donna uccide l’anima». L’associazione donna-strega fu quasi naturale e la caccia alle streghe divenne in pratica un’arma di genere.

Tutto ciò non poteva essere causato solo dalla paura della donna; c’era anche l’avversione e il disprezzo (misoginia), estremamente diffusi in ogni ambito della società. Ad esempio uno dei principali filosofi del Cinquecento, Jean Bodin (1523-1523), in merito alla diffusione della stregoneria fra le donne scrive: «Ciò accade, a mio avviso, non per la fragilità del sesso [...] è la forza della cupidigia bestiale ad aver ridotto la donna agli estremi [...] e sembra per questo motivo che Platone metta la donna fra l’uomo e la bestia bruta [...] le teste degli uomini sono più grosse di molto, e di conseguenza essi hanno più cervello e prudenza delle donne».

Sulla scarsa considerazione del genere femminile si può trovare un riscontro esemplare anche ne Il Principe (1513) di Machiavelli il quale, trattando il tema della Fortuna, afferma: «Perché la Fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla».

Anche tra gli uomini di legge le idee erano simili. Nel 1632 il Consigliere di Stato francese, Le Bret, affermava: «L’esclusione delle donne e dei maschi discendenti in linea femminile è conforme alla legge di natura, la quale, avendo creato la donna imperfetta debole e fragile, tanto fisicamente che spiritualmente, l’ha sottomessa alla potenza dell’uomo». Sulla stessa linea il cardinale Richelieu (1585-1642): «Bisogna ammettere che, dal momento che il mondo è stato perduto per colpa di una donna, nulla è più capace di nuocere agli Stati di questo sesso».

In campo medico-scientifico l’atteggiamento e le conoscenze, erano conformi alle teorie aristoteliche; pertanto il medico personale di Enrico III di Francia, Laurent Joubert, nel 1578 poteva tranquillamente sostenere che: «Il maschio è più degno, eccellente e perfetto della femmina [...] la quale è come un difetto, quando non si può far meglio». L’intellettuale e politico Thomas Smyth, nel saggio dedicato alla società e alle istituzioni inglesi, De Republica Anglorum (1583), in merito alle donne, sentenziava in modo netto: «La natura le ha create perché si occupino del focolare [...] e non perché si occupino delle funzioni in una città o in una comunità nazionale». Mentre un secolo dopo, in un trattato sul diritto artigiano molto diffuso in Germania, il giurista Adrien Beier, scriveva: «Normalmente nessuna donna può esercitare un mestiere anche se ha le stesse capacità dell’uomo».

Si può affermare pertanto, che il periodo compreso tra XIV e XVII secolo, non fu particolarmente positivo per quanto riguarda la condizione femminile. Ma oltre alla discriminazione (sebbene in alcuni luoghi vi furono provvedimenti che attenuavano tale situazione) quello che colpisce maggiormente è proprio la misoginia; forse mai così radicata e diffusa come in questo periodo. Un aspetto di cui si accorsero anche i contemporanei. Christine de Pizan, una delle poche scrittrici che riuscirono ad affermarsi nel Rinascimento, nell’opera Cité des Dames (1405), oltre a interrogarsi sulla natura della donna si chiedeva il perché suscitasse tale odio. Domande che in molti iniziarono a porsi tant’è che dal XV secolo si diffusero numerosi saggi aventi come oggetto la donna e il suo ruolo nella società (quella che più tardi verrà chiamata "querelle des femme", disputa sulle donne o dei sessi).

In pratica, grazie alla diffusione della stampa, si contrapposero le tesi misogine e antifemministe di quanti continuavano a sostenere l’inferiorità naturale e l’inadeguatezza del sesso femminile, a coloro che iniziavano a pensare in modo opposto e quindi introducevano i primi concetti relativi alla parità di genere. Una prosecuzione di quella critica che aveva già interessato (in ambito umanistico) il filone letterario del cosiddetto amor cortese il quale, se in teoria esaltava la donna, in pratica ne proponeva un modello stereotipato, modellato sull’immaginario maschile; diffondendo oltretutto opere dal contenuto misogino come il Roman de la Rose (1280) di Jean De Meun.

È nel Cinquecento comunque che la querelle ha il suo apice con opere violente contro le donne come: De legibus connubialibus (1513) del giurista francese Tiraqueau; Il primo squillo di tromba contro la mostruosa moltitudine delle donne (1558), del riformatore scozzese John Knox, fino alla Disputatio nova contra mulieres, pubblicata anonima nel 1595, dai contenuti talmente forti da essere messa all’Indice anche dalla Chiesa cattolica. Nel corso del secolo però iniziarono a moltiplicarsi i saggi a favore del genere femminile: Della eccellenza et dignità della donna (1525), del politico milanese Galeazzo Flavio Capra; De nobilitate et praecellentia foeminei sexus (1529), del filosofo tedesco Cornelius Agrippa; La Parfaite Amie (1542), dello scrittore francese Antoine Heroet.

Nel secolo successivo inizia inoltre una difesa di genere da parte delle stesse donne; ebbero notevole diffusione le opere delle scrittrici veneziane Moderata Fonte, Lucrezia Marinelli, Angela Tarabotti e il breve saggio: Egalite des hommes et des femmes, dell’intellettuale francese Marie de Gournay, del 1622.

In conclusione, proprio l’aver individuato l’esistenza di un problema sui rapporti di genere all’interno della società è forse l’unico aspetto positivo (seppur fondamentale) per quanto riguarda la condizione femminile nel periodo rinascimentale. Tema che sarà lasciato in eredità ai secoli successivi dove lentamente verrà preso in maggiore considerazione (non solo sul piano teorico), sebbene per la sua, parziale, risoluzione bisognerà attendere il XX secolo.


Riferimenti bibliografici:

J. Delumeau, La paura in Occidente, SEI - Società Editrice Internazionale, Milano 1979;
T. Lazzari, Le donne nell’Alto Medioevo, Mondadori, Milano 2010;
M. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna, Einaudi, Torino 2003.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]