.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

> Storia Contemporanea

.

N. 27 - Agosto 2007

Cosa è cambiato dal 1799: Il resto di niente

Nota a margine del romanzo di Enzo Striano a venti anni dalla scomparsa

di Antonio Pisanti

 

Ad oltre duecento anni di distanza, rimane la separazione tra cultura e potere, anche se la relazione di conflittualità è mimetizzata dall’acquiescenza e dalla partecipazione passiva dell’intellettualità alle scelte della politica dominante. Scarsamente utilizzate le possibilità di promozione civile attraverso i nuovi strumenti di comunicazione di massa.

 

Il 26 giugno scorso ricorreva il ventesimo anniversario della morte di Enzo Striano, autore, tra l’altro, di uno dei migliori romanzi storici del ‘900, “Il resto di niente”. Lo scrittore stava appena iniziando a raccogliere i primi frutti del suo eccellente lavoro e di un successo che sarebbe tardato a venire, ma che avrebbe fatto del libro un classico della nostra letteratura e un motivo di contesa tra vari editori.

 

Più recentemente Antonietta De Lillo ne ha tratto liberamente un film che avrebbe meritato  ben altro sostegno e che ha avuto persino problemi di distribuzione che ne hanno limitato la diffusione nelle sale, sebbene sia stato notevole il consenso del pubblico e della critica che ha destinato al film numerosi e qualificati riconoscimenti.

 

Riflettendo sugli avvenimenti narrati da Enzo Striano, particolarmente in questa fase di grave crisi nella quale sono precipitati Napoli e il Mezzogiorno,  non si può fare a meno di chiedersi cosa sia cambiato nella società meridionale con la Rivoluzione napoletana e quali insegnamenti si possano trarre dalla storia di  quelle vicende.

 

Più di due secoli sono trascorsi dagli anni che segnarono la drammatica separazione dell'intellettualità meridionale da quelle forze di governo che pure ne avevano interpretato le aspettative, identificando talvolta nelle stesse persone uomini di cultura e di potere, chiamati da sovrani illuminati a reggere le sorti dello stato e di istituzioni rinomate a livello europeo.

 

Ma, oltre a segnare tale separazione, determinata dalla svolta involutiva della monarchia borbonica, che da riformista quale aveva ampiamente dimostrato di saper essere tendeva a farsi sempre più illiberale nell'atmosfera di restaurazione che iniziava a percorrere l'Europa, la Rivoluzione napoletana del ‘99  mise impietosamente in luce la separatezza tra cultura e società, dimostrando l'incapacità degli intellettuali e dell'aristocrazia colta del tempo di evitare quella  svolta  e di  incidere nel tentativo di emancipazione dei ceti meno evoluti.

 

La “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino”, approvata dall'Assemblea nazionale francese nel 1789, era diventata il manifesto dei rivoluzionari europei e di quanti nel mondo, pur occupando magari posizioni di privilegio, come molti nobili ed intellettuali, tendevano, ancor prima della rivoluzione francese,  ad abbracciare la causa del riformismo e della democrazia.

 

Tra questi l'elìte dell'intellettualità napoletana che il 21 gennaio 1799, qualche mese dopo la fuga di Re Ferdinando IV e della Regina Maria Carolina a Palermo, proclamò la Repubblica Napoletana, repubblica che fu, tra quelle nate in Italia sul modello francese, la più avanzata e la meno fortunata.

 

L'esperienza della repubblica partenopea, nata tra l'indifferenza del popolo e l'ostilità dei suoi strati meno acculturati e meno abbienti, i quali ricavavano motivi di sussistenza dal paternalismo tardoborbonico, durò appena cinque mesi e comportò il tragico sacrificio di centinaia di "cittadini"  mandati al patibolo, esiliati o imprigionati nelle varie galere del regno.

 

Nel rievocarne i nomi, da Mario Pagano a Gennaro Serra, da Eleonora Pimentel Fonseca a Domenico Cirillo, da Vincenzo Russo a Pasquale Baffi, non si può fare a meno di considerare come la loro sconfitta sia stata anche la sconfitta di una cultura che non riuscì a penetrare nel sociale e a condizionarlo.

      

Sebbene i rivoluzionari napoletani avessero mostrato attenzione ed impegno politico per il miglioramento dei ceti popolari, la loro azione incontrò notevoli ostacoli da parte del popolo che non tardò ad ingrossare le file del  Cardinale Ruffo  e  partecipò con  accanimento all’annientamento dei perdenti, di quelli che pure intendevano farsi sostenitori del suo riscatto civile e sociale.

 

Castel Sant'Elmo, dove nel giugno 1799 ebbe luogo l'ultima resistenza di un manipolo di combattenti repubblicani, diventò così il simbolo della sconfitta di una rivoluzione importata, sconfitta  che,  per quanto gloriosa possa essere definita,  sempre  tale rimane,  contrassegnando quel divario tra cultura e società, tra cultura e potere, che nel Mezzogiorno d'Italia sembra essere immutabile attraverso i secoli.

 

Molti evidenziano il peso pur rilevante che su quella sconfitta ebbe l'atteggiamento delle potenze straniere,  per ridimensionare le possibilità di successo che in  tale contesto avrebbero potuto avere intellettuali e politici illuminati e per riaffermare la propria fiducia nel valore fondante della cultura per il rinnovamento dell'assetto politico e sociale del Mezzogiorno e per la sua rinascita civile e  sociale.

 

E' infatti dallo stesso fervore culturale, ora come allora a livello di rinomanza internazionale, e dallo stesso impegno, tuttora testimoniato in centri di eccellenza che portano in Europa e nel mondo i segni  di vitale combattività della cultura e della  ricerca meridionale, che  molti si attendono le spinte decisive per un' inversione di tendenza indispensabile per salvare Napoli e il Mezzogiorno dalle condizioni di degrado che attualmente li affliggono.

 

Ma oggi, come ieri, non sembrano essere aumentate le possibilità di incidenza nel sociale da parte degli uomini di cultura, nonostante la sopraggiunta disponibilità di numerosi e vari strumenti di comunicazione. Oggi come ieri, restano inascoltati  appelli e proclami, mentre intellettuali ed uomini di ingegno sembrano volersi  collocare, nella migliore delle ipotesi, su posizioni di non intervento nelle vicende politiche e sociali.

 

Eleonora Pimentel Fonseca e i suoi amici rivoluzionari avevano cercato inutilmente di affidare ad alcuni giornali, come il "Monitore napoletano", e persino alle parlate dialettali, la diffusione delle loro idee, di eventi e programmi. Ma in un contesto di diffuso analfabetismo tali strumenti potérono servire a  poco, mentre  ben diversa potrebbe essere oggi la capacità di penetrazione della stampa e dei mezzi audiovisivi negli strati di popolazione dove, a fronte di un ridotto analfabetismo strumentale,  persiste però un preoccupante, crescente analfabetismo civile.

 

Del resto, la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa sembra oggi orientata più verso logiche di profitto e di assopimento socioculturale che verso progetti di rinascita civile e politica. La televisione tende ad essere più una "cattiva maestra" che uno strumento di promozione culturale e di educazione permanente.

 

Gli intellettuali, non solo quelli meridionali, sembrano oggi, tranne che per qualche eccezione, più disponibili ad aggirarsi nei palazzi e nei salotti (siano questi pure televisivi) che ad affrontare le difficoltà di una comunicazione mal sostenuta e malvista dal potere, di scomodi di network e di testate a livello locale, con conseguenti immaginabili circoli viziosi nel decadimento  della qualità e dell'efficacia.

 

I rivoluzionari del '99, che non potevano contare su strumenti di comunicazione di massa, ma avevano solo salotti di nobiltà e di regalità a loro disposizione, vollero abbandonare quei salotti e  cercarono di scendere tra la gente per far valere una dimensione pedagogica della cultura e della politica.

 

La loro fu più un progetto di rivoluzione che una rivoluzione vera e propria; ebbe più le caratteristiche di una cospirazione che quelle  di una insurrezione e, in quanto tale, rimase isolata in un Mezzogiorno antirivoluzionario per eccellenza e che ha continuato, come allora, a preferire l'ossequiosa "vicinanza" al potere di turno al coraggio del rinnovamento.

 



 

 

 

 COLLABORA

scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 215/2005 DEL 31 MAGGIO]

.

.