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N. 11 - Novembre 2008 (XLII)

RESOLUTION 819
IL FILM SUL MASSACRO DI SREBRENICA

di Leila Tavi

 

Il regista e scrittore Giacomo Battiato ha vinto il premio Marc’Auelio d’oro del pubblico come miglior film al Festival internazionale di Roma con Resolution 819, una storia sul massacro di 8.000 musulmani bosniaci a Srebrenica durante le operazioni di pulizia etnica dei Serbi nel 1995.

La guerra in Bosnia iniziò nel 1992 con l’accerchiamento in aprile delle città bosniache di Sarajevo, Bihac, Gorazde, Zepa e Srebrenica da parte dell’esercito serbo.

Con la risoluzione 819 delle Nazioni Unite le città assediate furono dichiarate territorio protetto e sorvegliato dai contingenti di caschi blu.

I contingenti ONU dovettero fronteggiare dall’inizio di giugno ripetuti assalti dei serbi ai posti di osservazione collocati sul perimetro della città.

L’11 luglio 1995 truppe regolari serbe comandate dal generale Mladić e unità paramilitari serbo-bosniache penetrarono nell’enclave bosniaca di Srebrenica, nella Bosnia occidentale.

I serbi devastarono la città abitata da 40.000 musulmani e prelevarono con la forza uomini e donne, vecchi e bambini, per poi trucidarli e seppellirli in fosse comuni.

L’operazione avvenne sotto lo sguardo inerme dei peacekeeper del battaglione olandese «Dutchbat» e del loro comandante Tom Karremans, costretti ad abbandonare la città senza poter fare alcuna resistenza perché il mandato dell’ONU vietava di sparare, se non per difesa personale.

Migliaia di persone si riversano per la strada in una fuga disperata verso la morte, mentre i serbi bombardavano le loro case e li intimavano ad arrendersi con i megafoni. Arrendersi significò per la maggior parte dei profughi morire.

La lunga colonna umana si allungava e frantumava al ritmo delle bombe serbe, mentre gruppi di persone di volta in volta erano prelevati dalla colonna e massacrati, agli altri non restava che trascinarsi dolorosamente avanti.

Da qui inizia il film di Battiato che, senza grandi pretese di virtuosismo di regia, racconta gli anni successivi al massacro e il lungo e faticoso lavoro per l’identificazione degli scomparsi attraverso una ricostruzione fedele e accurata di luoghi e fatti.

Il protagonista maschile è il commissario francese volontario Jacques Calvez, interpretato da Benoît Magimel e ispirato alla figura di Jean-René Ruez, il poliziotto che ha indagato sul genocidio etnico dei musulmani bosniaci durante gli anni del conflitto.

Grazie all’encomiabile lavoro di Ruez è stato possibile identificare molti dei responsabili del genocidio etnico tra cui: Radovan Karadžić, Radislav Krstić e Ratko Mladić.

Nel film il commissario Calvez è incaricato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia di indagare sui fatti di Srebrenica.

All’apparenza il film sembrerebbe essere una docufiction, in realtà si tratta di una ricostruzione integrale dei fatti attraverso episodi che raccontano le storie di personaggi di finzione ben delineati, come il crudele Momcilo Draganovic a seguito del generale Mladić.

L’azione si svolge nei dintorni di Srebrenica, nell’area tra Konjević Polje and Nova Kasaba e in particolare sulle colline di Kravica, dove tra il 10 e il 29 novembre 1997 è stata scoperta una delle prime fosse comuni.

All’interno del centro di Tuzla, in cui ha sede la Commissione internazionale per le persone scomparse, lavora Klara Gorska, intepretata da Karolina Gruschka, un’antropologa forense polacca che esegue analisi sulle ossa dei cadaveri raccolti nelle fosse per l’identificazione.

Una donna giovane e affascinante che, come Clavez, con coscienza e umanità mette a disposizione la sua professionalità e a rischio la sua vita nel tentativo di dare un’identità alle migliaia di corpi umani torturati e dilaniati dai “cetnici”, come i musulmani bosniaci chiamano i fautori serbi dell’epurazione etnica.

La storia d’amore tra il commissario Calvez e Klara non riesce a trovare lo spazio, come è giusto che sia, tra ossa umane, fetido odore di corpi decomposti e la disperazione di donne in cerca dei loro cari dispersi.

In occasione del primo incontro con Calvez Klara spiega al commissario come siano le ossa a parlare, a raccontare silenziosamente il dramma di una morte cruenta.

La «donna delle ossa», è Klara stessa a definirsi così, è in grado di stabilire da un teschio o da un femore l’età e il sesso del defunto; grazie alle sue analisi è possibile ricostruire la storia della vittima e quella del suo assassino.

Klara si trova davanti a una quantità enorme di ossa, appartenenti a persone dai sette ai settanta anni, non solo combattenti, ma gente comune.

Quando l’antropologa si trova tra le mani i resti di bambini trucidati la pervade un senso di impotenza e di angoscia.

Sono ossa che «urlano» il massacro, ne sono testimoni come macabri oggetti da esposizione, attraverso cui è stato possibile rinvenire 8.000 morti e identificarne 4.100.

Il commissario Calvez lavora senza tregua, scavando insieme agli altri, per scoprire la verità, per riportare alle famiglie almeno i resti dei loro cari, così da poter dare loro una degna sepoltura.

Durante la sua indagine incontra pericoli e difficoltà burocratiche in un paese ancora in guerra, dove regna la legge dell’ oko za oko (occhio per occhio) e la disperazione.

I protagonisti rimangono sgomenti davanti all’orrore delle fosse comuni, della terra che senza tregua sputa fuori pezzi umani, disseminati tra un campo e l’altro; corpi grossolanamente sezionati e le cui parti sono state seppellite in fosse diverse, nel tentativo di sviare le tracce.

In una scena del film Calvez assapora avidamente il profumo dei fiori di una pianta vicino alla fossa in cui stanno scavando, non riesce ad abituarsi all’odore dei cadaveri.

Klara mette il piede su una mina e, nella lunga attesa della squadra di sminatori americani, confessa a Calvez di non essere abbastanza coraggiosa per il lavoro che le hanno affidato, almeno non quanto sua nonna, un’ebrea polacca che è ha avuto la forza di liberarsi quando i nazisti la hanno inchiodata incinta alla sua porta di casa per andare alla ricerca del corpo di suo marito, fucilato nel bosco di Katyn dai soldati russi.

Il racconto della nonna di Klara è un paradosso, uno di quei paradossi che la storia ci ha insegnato essere normali rappresentazioni della guerra.

Degna di nota è la ricostruzione fatta da Battiato della strage di Kravica, della resa di 2.000 uomini a Mladić, di come sono stati caricati su camion, trasportati per ore sotto il sole e poi fucilati nella notte nei pressi di Bratunac a poco a poco, in gruppi di poche persone.

Un testimone di questo massacro è riuscito a sopravvivere, fingendosi morto tra i cadaveri, riuscendo a sfuggire solo dopo ore. Nel film questo superstite è una ragazza, che il fratello fa travestire da uomo nel tentativo di salvarla dagli stupri dei soldati serbi.

La ragazza vede morire il fratello tra le sue braccia e a Calvez potrà solo urlare di come era forte e nauseante l’odore di urina ed escrementi, stipata e nascosta tra gli altri, prima che i soldati aprissero il fuoco.

Battiato in Resolution 819 racconta la disperazione di donne e ragazze rimaste sole, costrette a fuggire con pochi effetti personali, a viaggiare in convogli presi d’assalto da gruppi paramilitari serbo-bosniaci, che obbligano le donne a farsi consegnare denaro e valori per poter proseguire il viaggio verso il confine.

Alcune di loro, le più giovani, hanno un destino segnato, vittime di violenze di gruppo, come la piccola suonatrice di fisarmonica, costretta a impiccarsi con la sua stessa cinta davanti agli occhi pieni di scherno dei soldati che l’hanno appena violentata e la fotografano mentre muore.

Calvez tiene una foto con il primo piano della ragazza appesa a un albero nel suo ufficio; in quell’istantanea non si legge solo la sofferenza, ma il disonore che accompagna una donna musulmana stuprata, qualcuno che per la sua stessa famiglia non ha più diritto di vivere.

Il film riesce a trasmettere al pubblico la sofferenza dei musulmani di Bosnia negli anni della guerra con il rispetto e la sensibilità a cui ognuno si dovrebbe attenere quando decide di documentare una strage come quella di Srebrenica, consumata in un paese europeo appena tredici anni fa.

Il film privilegia nella svolgimento della storia la sofferenza della gente comune, accennando appena ai lavori del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia e ai compromessi diplomatici che accompagnano da sempre la risoluzione di conflitti.

Per il regista il filo conduttore della storia è chiaramente sin dalle prime immagini il coraggio e l’amore con cui le vedove e orfane di Srebrenica hanno cercato e, ancora cercano, le ossa dei loro mariti e dei loro padri morti. Uomini morti due volte.

Un morto per la religione musulmana non può ricevere sepoltura senza il corpo; Battiato ha voluto dare una testimonianza forte di questo atto di coraggio di coloro che hanno permesso che fossero i familiari delle vittime e non i loro carnefici a dare sepoltura ai morti di Srebrenica.

È per questa sua forza morale che ha meritato il premio del pubblico.

 

 

 

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