N°
173
/ MAGGIO 2022 (CCIV)
attualità
MENZOGNA IDEOLOGICA
SUGLI STRUMENTi DEL REGIME DI PUTIN
di Valerio Acri
Il rapporto tra politica e verità, pur avendo
affascinato l’uomo fin dall’antichità, entrò
prepotentemente al centro dell’indagine storica a
partire dalle riflessioni di Niccolò Machiavelli che
esortava il Principe a considerare la “verità
effettuale” come parametro supremo sul quale
orientare il proprio agire politico. Nella sua opera
più celebre il pensatore fiorentino, considerando la
conflittualità che regola le interazioni sociali
come costante verità della storia, concludeva con la
legittimazione del governare attraverso il comando
razionale della forza.
In epoca moderna è stata soprattutto Hannah Arendt,
attraverso opere come Le origini del
totalitarismo e La menzogna in politica
(in quest’ultima erano contenute alcune ammissioni
segrete del Pentagono sull’inutilità strategica
della guerra americana in Vietnam) a offrire
importanti riflessioni sul complesso rapporto della
politica con la verità. Le analisi della Arendt si
concentrarono particolarmente sui fondamenti della
Germania nazista e dell’Unione sovietica staliniana
attraverso la comparazione di due forme dello stesso
totalitarismo incarnato dalla presenza di un partito
unico sorretto dal terrore e dal pensiero
ideologico. Quest’ultimo, assurto a principio
d’azione, si nutre della menzogna perché è
attraverso essa che “il
regime può creare un mondo fittizio coerente non più
disturbato dalla fattualità”.
È evidente che questa intuizione della Arendt rivela
un’autentica
deriva del concetto machiavelliano di politica come
arte del cambiamento. Non più semplicemente ambito
del contingente e delle cose che possono essere
altrimenti, la politica sorretta dalla menzogna
ideologica è quella che riconosce nella verità un
ostacolo da rimuovere per accrescere lo spazio
d’azione del potere.
Risulta quindi particolarmente interessante
analizzare tutto ciò in relazione all’attuale
aggressione russa all’Ucraina. Il ricorso alla
menzogna è stato uno strumento fondamentale affinché
il regime ultraventennale di Vladimir Putin potesse
mascherare quella brutalità svelatasi agli occhi di
una parte dell’opinione pubblica solamente lo scorso
24 febbraio 2022.
Fin dagli inizi la fede nella completa
fabbricabilità della verità ha guidato il sistema di
Putin attraverso una sorta di annientamento
dell’evidenza. In questo modo su ognuno degli
innumerevoli delitti politici che dal 2000 (anno del
suo insediamento al potere) hanno insanguinato la
Russia è sceso puntualmente un oblio capace di
fagocitare l’opportunità di risalire al mandante e
al tempo stesso di indicare una verità impossibile
da raggiungere.
Un’oscurità nella quale lo spartiacque tra verità e
menzogna è stato reso talmente impervio da non poter
ancora oggi assegnare ai servizi segreti dell’Fsb
(ex Kgb) la paternità degli attentati esplosivi del
settembre 1999 a Mosca e Volgodonsk che causarono
293 morti e legittimarono – essendo stati
ufficialmente attribuiti a terroristi daghestani –
il secondo e risolutivo intervento militare russo in
Cecenia.
Gli indizi del coinvolgimento dell’Fsb, all’epoca
sotto la direzione di un Putin ormai in rampa di
lancio verso il Cremlino, e dei legami tra servizi
segreti e criminalità organizzata morirono insieme a
coloro che li avevano raccolti ovvero, tra gli
altri, Sergei Yushenkov,
Yuri Shchekochikhin e Anna Politkovskaja,
assassinati tra il 2003 e il 2006.
Yushenkov aveva appena registrato il suo partito
d’opposizione Russia Liberale ed era determinato a
istituire una Commissione d’inchiesta indipendente
per far luce sugli attentati del 1999. Shchekochikin
e Politkovskaja erano invece firme autorevoli della
Novaja Gazeta, la testata russa diretta dal
Premio Nobel per la pace Dmitrij Muratov e ispirata
al dovere giornalistico di “raccontare la verità
di ciò che si vede”.
Constatata l’impossibilità di continuare a farlo,
Muratov ha sospeso le pubblicazioni appena un mese
dopo l’inizio dell’attacco militare all’Ucraina, in
una sorta di resa alla logica della menzogna che
vieta, tra le altre, la pronuncia della parola
guerra.
In realtà quello della Novaja Gazeta potrebbe
essere più semplicemente inteso come un impegno a
rifiutare il proprio personale contributo alla
menzogna, ricordando l’appello del 1974 di Alexandr
Solzenitcyn per spezzare il giogo totalitario del
regime sovietico: «Anche se la menzogna domina su
ogni cosa, noi nel nostro piccolo ci impuntiamo: che
non domini per opera mia!».
Un monito che nasceva dalla consapevolezza di come
la fabbricazione sistematica della verità, in quanto
strumento essenziale di ogni totalitarismo, sottenda
al tempo stesso una riduzione di cose e persone a
meri elementi funzionali a un procedimento che li
denigra fino ad annichilirli.
Così scriveva Anna Politkvoskaja parlando di Putin:
«Siamo solo un
mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere e
consolidare il potere personale. Per questo dispone
di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha
voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non
siamo niente».
Una denuncia che in fondo richiamava al tempo stesso
la necessità di opporsi al principio, già rivelato
dalla Arendt, secondo cui a decidere della verità e
della realtà è l’ideologia di chi sta al potere,
intesa come pretesa di dominare anche ciò che sfugge
a ogni dominio, ovvero il divenire storico, quello
che per esempio da più di trent’anni ha separato
l’Ucraina dalla Russia.
In questo modo, la surrealtà ideologica di
un’operazione militare speciale per “denazificare”
un Paese il cui Presidente è ebreo ha preteso di
rimpiazzare la realtà autentica di un’aggressione
spietata a uno Stato la cui sovranità è avvertita da
Putin come una dissidenza.
Un dissidente lo era anche Alexandr Litvinenko,
colui che probabilmente più di ogni altro ha saputo
svelare il potere criminale di Putin. Negli scritti
dell’ex agente del Kgb, poi esiliato in Gran
Bretagna e assassinato nel 2006 con un avvelenamento
da polonio, ci sono accuse circostanziate su come i
servizi segreti russi siano divenuti
progressivamente un’organizzazione paramilitare,
legata alla criminalità organizzata e alle
dipendenze di Putin, a partire dalla messinscena
degli attentati esplosivi del 1999.
Per il suo omicidio la Corte Europea dei diritti
umani ha stabilito, con una sentenza del 2021, la
responsabilità del governo russo “al di là di
ogni ragionevole dubbio” traendo conclusioni
anche dal rifiuto del Cremlino di fornire i
fascicoli dell’inchiesta interna.
Eppure per il portavoce russo Dmitrij Peskov anche
le accuse di un tribunale internazionale, come
quelle di Litvinenko e di numerosi altri oppositori,
erano infondate, erano cioè una realtà da negare con
tutta la forza di un regime abituato a decidere
arbitrariamente cosa è vero e cosa è falso.
In questo senso, è significativa anche la
conclusione di un’indagine condotta negli ultimi
anni da analisti e studiosi del cosiddetto Soft
Power a livello internazionale su come il
concetto di influenza, nella Russia di Putin,
privilegi nettamente la componente della
sopraffazione e dell’inganno. Una dialettica
incisiva capace, almeno fino al 24 febbraio scorso,
di spegnere o comunque tenere a bada ogni clamore
mediatico, non solamente sulla lunga serie di
irrisolti delitti politici degli ultimi ventidue
anni ma anche, per esempio, sul rapporto Mclaren del
2016, una dettagliata relazione della Wada
(l’agenzia mondiale anti-doping) sul doping di Stato
curato dal Ministero dello Sport russo con la
supervisione dei servizi segreti che ha consentito
manomissioni di provette e insabbiamento delle
positività di atleti russi in molte delle recenti
rassegne sportive.
La capacità di sopraffare la distinzione tra vero e
falso reinventando continuamente la realtà a proprio
piacimento consentì inoltre a Putin, tra il 2013 e
il 2016, di
ergersi a importante protagonista della crisi in
Siria predicando dapprima la non ingerenza negli
affari interni di uno Stato sovrano per porre il
veto (insieme alla Cina) alle risoluzioni Onu,
quindi accreditando il successivo intervento
militare russo come liberatore dalle milizie
terroriste dell’Isis nel frattempo apparse sulla
palude di una rivoluzione sfociata in guerra civile.
In questo modo riuscì a portare a termine una
rilevante prova di forza distorcendo la realtà di
un’operazione volta a salvare la dittatura
ventennale del protetto Bashar Al Assad per
conservare un prezioso alleato mediterraneo nella
lotta alle rivolte contro i dispotismi.
Certamente il caos degli avvenimenti siriani, a
partire dallo scoppio della cosiddetta Primavera
araba fino a oggi, intervento russo compreso, si è
prestato a letture disparate, offrendo un esempio,
per dirla ancora con Hannah Arendt, dell’”impossibilità
di constatare dei fatti senza interpretarli”.
A conclusione di una siffatta analisi, è necessario
cioè non ignorare la complessità della nozione di
verità e della sua ambita indipendenza dalle
opinioni e dalle interpretazioni. Di fronte però
allo sforzo giornalistico che ha consentito, quasi
in tempo reale, di documentare le atrocità
dell’esercito russo a Bucha, immancabilmente negate
da Putin, lo spazio di opinione e interpretazione si
restringe per non offuscare la sua demarcazione con
il fatto, rendendo quest’ultimo non manipolabile e
al riparo dal vortice di un interminabile gioco
interpretativo.
Riferimenti bibliografici:
H. Arendt, Le origini del totalitarismo,
traduzione di Amerigo Guadagnin, Einaudi, Torino
2009.
H. Arendt, La menzogna in politica,
traduzione di Veronica Santini, Marietti Editore,
Bologna 2018.
A. Politkovskaja, La Russia di Putin,
traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, Milano
2005.
A. Litvinenko, Perché mi hanno ucciso, a cura
di Maxim Litvinenko, Luca Salvatori, Aiep Editore,
San Marino 2009.
A. Dell’Asta, Storia culturale della dissidenza,
in La fine del comunismo in Europa, Regimi e
dissidenze 1956-1989 a cura di Tito Forcellese,
Giovanni Franchi, Antonio Macchia, Rubbettino,
Soveria Mannelli (Cz) 2016.