[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

173 / MAGGIO 2022 (CCIV)


attualità

MENZOGNA IDEOLOGICA
SUGLI STRUMENTi DEL REGIME DI PUTIN

di Valerio Acri

 

Il rapporto tra politica e verità, pur avendo affascinato l’uomo fin dall’antichità, entrò prepotentemente al centro dell’indagine storica a partire dalle riflessioni di Niccolò Machiavelli che esortava il Principe a considerare la “verità effettuale” come parametro supremo sul quale orientare il proprio agire politico. Nella sua opera più celebre il pensatore fiorentino, considerando la conflittualità che regola le interazioni sociali come costante verità della storia, concludeva con la legittimazione del governare attraverso il comando razionale della forza.
 
In epoca moderna è stata soprattutto Hannah Arendt, attraverso opere come Le origini del totalitarismo e La menzogna in politica (in quest’ultima erano contenute alcune ammissioni segrete del Pentagono sull’inutilità strategica della guerra americana in Vietnam) a offrire importanti riflessioni sul complesso rapporto della politica con la verità. Le analisi della Arendt si concentrarono particolarmente sui fondamenti della Germania nazista e dell’Unione sovietica staliniana attraverso la comparazione di due forme dello stesso totalitarismo incarnato dalla presenza di un partito unico sorretto dal terrore e dal pensiero ideologico. Quest’ultimo, assurto a principio d’azione, si nutre della menzogna perché è attraverso essa che “il regime può creare un mondo fittizio coerente non più disturbato dalla fattualità”.
 
È evidente che questa intuizione della Arendt rivela un’autentica deriva del concetto machiavelliano di politica come arte del cambiamento. Non più semplicemente ambito del contingente e delle cose che possono essere altrimenti, la politica sorretta dalla menzogna ideologica è quella che riconosce nella verità un ostacolo da rimuovere per accrescere lo spazio d’azione del potere.
 
Risulta quindi particolarmente interessante analizzare tutto ciò in relazione all’attuale aggressione russa all’Ucraina. Il ricorso alla menzogna è stato uno strumento fondamentale affinché il regime ultraventennale di Vladimir Putin potesse mascherare quella brutalità svelatasi agli occhi di una parte dell’opinione pubblica solamente lo scorso 24 febbraio 2022.
 
Fin dagli inizi la fede nella completa fabbricabilità della verità ha guidato il sistema di Putin attraverso una sorta di annientamento dell’evidenza. In questo modo su ognuno degli innumerevoli delitti politici che dal 2000 (anno del suo insediamento al potere) hanno insanguinato la Russia è sceso puntualmente un oblio capace di fagocitare l’opportunità di risalire al mandante e al tempo stesso di indicare una verità impossibile da raggiungere.
 
Un’oscurità nella quale lo spartiacque tra verità e menzogna è stato reso talmente impervio da non poter ancora oggi assegnare ai servizi segreti dell’Fsb (ex Kgb) la paternità degli attentati esplosivi del settembre 1999 a Mosca e Volgodonsk che causarono 293 morti e legittimarono – essendo stati ufficialmente attribuiti a terroristi daghestani – il secondo e risolutivo intervento militare russo in Cecenia.
 
Gli indizi del coinvolgimento dell’Fsb, all’epoca sotto la direzione di un Putin ormai in rampa di lancio verso il Cremlino, e dei legami tra servizi segreti e criminalità organizzata morirono insieme a coloro che li avevano raccolti ovvero, tra gli altri, Sergei Yushenkov, Yuri Shchekochikhin e Anna Politkovskaja, assassinati tra il 2003 e il 2006.
 
Yushenkov aveva appena registrato il suo partito d’opposizione Russia Liberale ed era determinato a istituire una Commissione d’inchiesta indipendente per far luce sugli attentati del 1999. Shchekochikin e Politkovskaja erano invece firme autorevoli della Novaja Gazeta, la testata russa diretta dal Premio Nobel per la pace Dmitrij Muratov e ispirata al dovere giornalistico di “raccontare la verità di ciò che si vede”.
 
Constatata l’impossibilità di continuare a farlo, Muratov ha sospeso le pubblicazioni appena un mese dopo l’inizio dell’attacco militare all’Ucraina, in una sorta di resa alla logica della menzogna che vieta, tra le altre, la pronuncia della parola guerra.
 
In realtà quello della Novaja Gazeta potrebbe essere più semplicemente inteso come un impegno a rifiutare il proprio personale contributo alla menzogna, ricordando l’appello del 1974 di Alexandr Solzenitcyn per spezzare il giogo totalitario del regime sovietico: «Anche se la menzogna domina su ogni cosa, noi nel nostro piccolo ci impuntiamo: che non domini per opera mia!».
 
Un monito che nasceva dalla consapevolezza di come la fabbricazione sistematica della verità, in quanto strumento essenziale di ogni totalitarismo, sottenda al tempo stesso una riduzione di cose e persone a meri elementi funzionali a un procedimento che li denigra fino ad annichilirli.
 
Così scriveva Anna Politkvoskaja parlando di Putin: «Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere e consolidare il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente».
 
Una denuncia che in fondo richiamava al tempo stesso la necessità di opporsi al principio, già rivelato dalla Arendt, secondo cui a decidere della verità e della realtà è l’ideologia di chi sta al potere, intesa come pretesa di dominare anche ciò che sfugge a ogni dominio, ovvero il divenire storico, quello che per esempio da più di trent’anni ha separato l’Ucraina dalla Russia.
 
In questo modo, la surrealtà ideologica di un’operazione militare speciale per “denazificare” un Paese il cui Presidente è ebreo ha preteso di rimpiazzare la realtà autentica di un’aggressione spietata a uno Stato la cui sovranità è avvertita da Putin come una dissidenza.
 
Un dissidente lo era anche Alexandr Litvinenko, colui che probabilmente più di ogni altro ha saputo svelare il potere criminale di Putin. Negli scritti dell’ex agente del Kgb, poi esiliato in Gran Bretagna e assassinato nel 2006 con un avvelenamento da polonio, ci sono accuse circostanziate su come i servizi segreti russi siano divenuti progressivamente un’organizzazione paramilitare, legata alla criminalità organizzata e alle dipendenze di Putin, a partire dalla messinscena degli attentati esplosivi del 1999.
 
Per il suo omicidio la Corte Europea dei diritti umani ha stabilito, con una sentenza del 2021, la responsabilità del governo russo “al di là di ogni ragionevole dubbio” traendo conclusioni anche dal rifiuto del Cremlino di fornire i fascicoli dell’inchiesta interna.
 
Eppure per il portavoce russo Dmitrij Peskov anche le accuse di un tribunale internazionale, come quelle di Litvinenko e di numerosi altri oppositori, erano infondate, erano cioè una realtà da negare con tutta la forza di un regime abituato a decidere arbitrariamente cosa è vero e cosa è falso.
 
In questo senso, è significativa anche la conclusione di un’indagine condotta negli ultimi anni da analisti e studiosi del cosiddetto Soft Power a livello internazionale su come il concetto di influenza, nella Russia di Putin, privilegi nettamente la componente della sopraffazione e dell’inganno. Una dialettica incisiva capace, almeno fino al 24 febbraio scorso, di spegnere o comunque tenere a bada ogni clamore mediatico, non solamente sulla lunga serie di irrisolti delitti politici degli ultimi ventidue anni ma anche, per esempio, sul rapporto Mclaren del 2016, una dettagliata relazione della Wada (l’agenzia mondiale anti-doping) sul doping di Stato curato dal Ministero dello Sport russo con la supervisione dei servizi segreti che ha consentito manomissioni di provette e insabbiamento delle positività di atleti russi in molte delle recenti rassegne sportive.
 
La capacità di sopraffare la distinzione tra vero e falso reinventando continuamente la realtà a proprio piacimento consentì inoltre a Putin, tra il 2013 e il 2016, di ergersi a importante protagonista della crisi in Siria predicando dapprima la non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano per porre il veto (insieme alla Cina) alle risoluzioni Onu, quindi accreditando il successivo intervento militare russo come liberatore dalle milizie terroriste dell’Isis nel frattempo apparse sulla palude di una rivoluzione sfociata in guerra civile. In questo modo riuscì a portare a termine una rilevante prova di forza distorcendo la realtà di un’operazione volta a salvare la dittatura ventennale del protetto Bashar Al Assad per conservare un prezioso alleato mediterraneo nella lotta alle rivolte contro i dispotismi.
 
Certamente il caos degli avvenimenti siriani, a partire dallo scoppio della cosiddetta Primavera araba fino a oggi, intervento russo compreso, si è prestato a letture disparate, offrendo un esempio, per dirla ancora con Hannah Arendt, dell’”impossibilità di constatare dei fatti senza interpretarli”.
 
A conclusione di una siffatta analisi, è necessario cioè non ignorare la complessità della nozione di verità e della sua ambita indipendenza dalle opinioni e dalle interpretazioni. Di fronte però allo sforzo giornalistico che ha consentito, quasi in tempo reale, di documentare le atrocità dell’esercito russo a Bucha, immancabilmente negate da Putin, lo spazio di opinione e interpretazione si restringe per non offuscare la sua demarcazione con il fatto, rendendo quest’ultimo non manipolabile e al riparo dal vortice di un interminabile gioco interpretativo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

H. Arendt, Le origini del totalitarismo, traduzione di Amerigo Guadagnin, Einaudi, Torino 2009.

H. Arendt, La menzogna in politica, traduzione di Veronica Santini, Marietti Editore, Bologna 2018.

A. Politkovskaja, La Russia di Putin, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, Milano 2005.

A. Litvinenko, Perché mi hanno ucciso, a cura di Maxim Litvinenko, Luca Salvatori, Aiep Editore, San Marino 2009.

A. Dell’Asta, Storia culturale della dissidenza, in La fine del comunismo in Europa, Regimi e dissidenze 1956-1989 a cura di Tito Forcellese, Giovanni Franchi, Antonio Macchia, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2016. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]