una visione poliedrica
del Medio
Oriente
APEIROGON
di Giovanna
D'Arbitrio
L’irlandese
Colum Mc Cann nel suo libro
Apeirogon (Ed. Feltrinelli) ci offre
la sua particolare interpretazione
del conflitto israelo-palestinese
dopo numerosi viaggi in Terra Santa.
Un apeirogon letteralmente è un
poligono dai lati infinitamente
numerabili e l’autore sceglie questa
metafora per descrivere le svariate
e infinite cause ed effetti, azioni
e reazioni che da tempo stanno
avvolgendo due popoli in una
crescente spirale d’odio.
Colum Mc Cann, nato e cresciuto a
Dublino, ha ricevuto numerosi premi,
inclusi il National Book Award e
l’International Impac Dublin
Literary Award. I suoi lavori sono
stati tradotti in più di 40 lingue.
Insegna all’Hunter College e vive a
New York.
Il libro viene così presentato: «Bassam
Aramin è palestinese. Rami Elhanan è
israeliano. Il conflitto colora ogni
aspetto della loro vita quotidiana,
dalle strade che sono autorizzati a
percorrere, ai checkpoint, alle
scuole che le loro figlie, Abir e
Smadar, frequentano. Sono costretti
senza sosta a negoziare fisicamente
ed emotivamente con la violenza
circostante. Come l’Apeirogon del
titolo, un poligono dal numero
infinito di lati, infiniti sono gli
aspetti, i livelli, gli elementi di
scontro che vedono contrapposti due
popoli e due esistenze su un’unica
terra. Ma il mondo di Bassam e di
Rami cambia irrimediabilmente quando
Abir, di dieci anni, è uccisa da un
proiettile di gomma e la tredicenne
Smadar rimane vittima di un attacco
suicida. Due tragedie speculari, una
stessa perdita insanabile che
permette a Bassam e Rami di
riconoscersi, diventare amici per la
pelle e decidere di usare il loro
comune dolore come arma per la pace.
Nella sua opera più ambiziosa, Colum
McCann crea un romanzo epico che
affonda le sue radici
nell’improbabile, reale amicizia tra
due padri. Partendo dalle storie
personali di questi uomini ne nasce
un’altra, che attraversa secoli e
continenti, cuce insieme arte,
storia, natura e politica. Giocando
con gli ingredienti del saggio e del
romanzo, ci dona un racconto allo
stesso tempo struggente e carico di
speranza».
Senza dubbio un irlandese come Mc
Cann sa cosa significhi dover vivere
in un luogo dove precarietà e paura
rappresentano la quotidianità nel
contesto di guerra e terrorismo e
pertanto si comprende il suo
interesse per il conflitto in Medio
Oriente e per la particolare storia
dell’israeliano Rami Elhanan e del
palestinese Bassam Aramin: il primo,
discendente da un nonno sfuggito in
Ungheria alla Shoah, il secondo
cresciuto con la sua famiglia in una
grotta vicino a Hebron, distrutta
dall’esercito israeliano in una
notte; Bassam (dopo sette anni di
carcere per avere lanciato due
granate contro una jeep militare) si
sposa e ha dei figli tra i quali
Abir, la sua bimba di 10 anni che
viene uccisa davanti alla scuola da
una pallottola di gomma sparata da
un soldato israeliano. Otto anni
dopo la morte di Abir, a Gerusalemme
Smadar, la figlia quattordicenne di
Rami, muore in un attentato suicida
organizzato da Hamas.
Rami e Bassam diventano amici
partecipando alle attività di
“Combattenti per la Pace”,
un’associazione nata nel 2005 per
iniziativa di israeliani e
palestinesi che hanno deciso di
uscire dalla spirale di violenza con
la nonviolenza della parola. In
seguito, entrambi aderiscono
all’associazione “Parents’ Circle
Family Forum” in cui palestinesi e
israeliani, uniti dal dolore,
rifiutano la vendetta e lottano per
dialogo e pace. Oggi Rami e Bassam
stanno portando il loro messaggio in
vari paesi del mondo, spiegando i
loro obiettivi in scuole, centri
culturali e conferenze, coinvolgendo
personaggi politici e perfino il
Papa.
«Da bambino pensavo che essere
palestinese, musulmano, arabo, fosse
una punizione divina. E me la
portavo dietro come un grosso peso
intorno al collo. Da bambino non fai
che chiedere perché, ma da adulto,
di chiedere perché te lo sei ormai
dimenticato. Accetti e basta- ha
affermato Bassan- Ma in prigione
cominciai a riflettere sulle nostre
esistenze, sulla nostra identità, in
quanto arabi, e questo mi portò a
riflettere anche sugli ebrei. E a
quel punto compresi che l’Olocausto
era reale, era successo per davvero.
E cominciai a pensare, all’inizio
con riluttanza, che gran parte della
mentalità degli israeliani doveva
essere scaturita da quello, decisi
così di provare a capire chi fosse
davvero quella gente, quanto avesse
sofferto, e perché nel ‘48 avesse
scaricato la sua oppressione su di
noi, e avesse continuato a farlo,
rubando le nostre case, portando via
la nostra terra, infliggendoci la
nostra Nakba, la nostra catastrofe.
Noi, i palestinesi, eravamo
diventati le vittime delle vittime.
Volevo saperne di più».
Una domenica mattina un gruppo di
israeliani entrò nel villaggio
palestinese di Anata con diverse
auto e si fermò davanti alla scuola
dove Abir era stata uccisa, si
misero al lavoro e dopo qualche
settimana completarono un campo da
basket, primo e unico campo giochi
di Anata. Alla fine dei lavori gli
amici di Rami e di Bassam misero un
cartello sul quale era scritto “Il
giardino di Abir”.
Senz’altro un libro colto e allo
stesso tempo poetico, ricco di
episodi e contributi di amici sparsi
qua e là nel mondo, aneddoti
storici, notizie di cronaca,
immagini, informazioni di ogni
genere.
Araab Aramin, che aveva 14 anni
quando spararono a sua sorella Abir,
ha affermato quanto segue: «Noi non
parliamo della pace, noi facciamo la
pace. Pronunciare insieme i nomi
Smadar e Abir è la nostra semplice,
genuina verità».
Una verità purtroppo oggi poco
condivisa che vede crescere un
conflitto in una pericolosa
escalation.