Reagan e Gorbačëv
Gli storici incontri dei due leader
di Francesco
Biscardi
Lo scorso 15 agosto 2025 abbiamo
assistito ad uno storico incontro ad
Anchorage, Alaska, fra i Presidenti
di Russia e Stati Uniti, Vladimir
Putin e Donald Trump. L’atmosfera
solidale fra i due capi di Stato
sembra di fatto aver posto fine a
quel clima di incertezza, mista a
tensione, che perdurava dal febbraio
2022 e che era stata fomentata dalla
precedente amministrazione
americana.
Per quanto la storia non si ripeta
mai due volte nella stessa identica
maniera, si può, tuttavia, scorgere
un parallelismo con quanto accaduto
nello scorso secolo fra Ronald
Reagan (1911-2004), inquilino della
Casa Bianca per due mandati, dal
1981 al 1989, e Michail Gorbačëv
(1931-2022), leader sovietico dal
1985 al 1991. Come noto, il periodo
che caratterizzò il secondo
dopoguerra fu quello della Guerra
fredda, secondo la dizione che per
primo il giornalista americano
Walter Lippmann usò in un suo libro
di successo del 1947: non guerra
calda e diretta fra le due
superpotenze, ma un stato di
continuo disaccordo, rivalità
politica e corsa agli armamenti.
Il primo evento destinato a cambiare
il corso degli eventi fu l’elezione
del repubblicano Reagan nel novembre
1980. Questi si presentava come un
candidato sui generis: era un
ex attore hollywoodiano, credente,
ma divorziato e risposato, poco
propenso alla frequentazione delle
chiese (elementi in controtendenza
rispetto ai classici valori di
stampo puritano amati in Usa). Era
altresì un abile manovratore dei
media, coniatore di slogan populisti
come Let’s make America great
again (oggi ripreso da Trump),
in grado di trasmettere fiducia ad
un popolo che vedeva appannarsi la
sua immagine di prosperità a livello
mondiale. Per il suo continuo
rivolgersi al pubblico fu
ribattezzato il “grande
comunicatore” o “il Presidente al
teflon”.
La su prima preoccupazione fu di
rilanciare l’economia: all’insegna
di quella che fu ribattezzata
Reaganomics, inaugurò una
politica neoliberista basata su un
forte taglio delle tasse, allo scopo
di lasciare più soldi nelle mani
delle grandi corporations,
delle maggiori industrie e dei
principali risparmiatori, con
l’augurio che avrebbero potuto
reinvestire sul mercato, al fine di
favorire la circolazione di denaro.
Ridusse poi la spesa pubblica,
accentuò le politiche antitrust
e di deregulation.
In politica estera la sua azione fu
improntata su una linea di
intransigenza nei confronti dei
“nemici” dell’America. In
particolare, non esitò a definire
l’Urss an evil empire, “un
impero del male”, destinato ad
essere consegnato alle ceneri della
storia, mentre avviò ingenti
progetti di spesa militare, compresi
avveniristici programmi di difesa
aerospaziale. Inoltre, sostenne in
Afghanistan la guerriglia
antisovietica dei mujaheddin, i
“combattenti per la fede”. C’è chi
parlò di un “ritorno alla Guerra
fredda” dopo il clima di
affievolimento delle tensioni che si
era avuto negli anni precedenti.
Ciononostante, alla fine il suo
modus operandi non sfociò in
alcun conflitto diretto, ma nella
pace, grazie anche all’altro
protagonista degli anni Ottanta:
Gorbačëv.
A Mosca, all’inizio di questo
decennio, dominava ancora la figura
di Leonid Brežnev, anziano leader
del Partito comunista sovietico dal
1964. La vittoria di Reagan alle
elezioni del 1980 esacerbò la
preoccupazione di nuove tensioni,
nonostante l’ex presidente Nixon si
fosse recato all’ambasciata russa
per recapitare il messaggio che il
neoeletto, pur essendo un
anticomunista bramoso di ridare
lustro agli Stati Uniti, era
comunque un uomo raziocinante e
pragmatico. Tali rassicurazioni non
convinsero la leadership sovietica
che reagì con messaggi di rabbia e
sconcerto. Si temette soprattutto
che la nuova presidenza avrebbe
tentato di annullare la sostanziale
parità strategica fra le due
superpotenze, rendendo necessaria
una nuova fase di corsa agli
armamenti che l’Urss al momento
scongiurava per questioni sia
interne che esterne: vari erano i
problemi economici, come varie le
richieste di aiuto da parte dei
Paesi satelliti, in un momento in
cui l’Occidente stringeva i cordoni
della borsa, vivi gli scioperi, come
le polemiche per la nascita del
sindacato polacco di Solidarność, il
non brillante andamento della guerra
in Afghanistan.
Brežnev morì il 10 novembre 1982;
l’eredità che lasciava era
preoccupante: in politica estera il
bilancio era in negativo, pessimi
erano poi i rapporti sia con gli Usa
che con la Cina, mentre gli alleati
del Terzo mondo versavano in
condizioni difficili, e la gestione
dell’energia e delle risorse
mostrava carenze (come provò pochi
anni dopo, nel 1986, la tragedia di
Cernobyl).
A succedergli alla guida dell’Urss
fu Jurij Andropov, un uomo energico,
ex presidente del Kgb, un pensatore
pragmatico, in grado di rassicurare
i sovietici in caso di minaccia.
Restò in carica per soli 14 mesi, 8
dei quali passati in gravi
condizioni di salute. Dopo di lui fu
la volta di Kostantin Černenko,
anch’egli anziano, ma dal carattere
più mite e debole rispetto al
predecessore. Anche la sua fu una
breve “parentesi”, visto che morì il
10 marzo 1985, dopo neanche un anno
di dirigenza. Fu così che venne
nominato Segretario generale del
Partito comunista sovietico Gorbačëv,
un politico più giovane,
cinquantaquattrenne, appartenente ad
una generazione che non aveva
vissuto direttamente lo stalinismo.
Anatolij Sergeevič Černjaev,
personaggio di spicco a Mosca,
subito dopo i funerali di Černenko,
lucidamente si domandò: "Cosa ci
aspetta? Abbiamo bisogno di una
“rivoluzione dall’alto”. Nulla di
meno, altrimenti non andremo da
nessuna parte. Michail [Gorbačëv] lo
capisce?". Possiamo dire che lo
comprese: il nuovo leader legò il
suo nome alla perestrojka,
“ristrutturazione”, proponendo una
serie di interventi nel segno della
liberalizzazione e facendosi
promotore di una Costituzione che
lasciava spazio ad un limitato
sistema di candidature plurime, le
quali consentirono l’elezione, anche
se su lista unica, di esponenti del
dissenso (impensabile fino a qualche
anno prima). Nel contempo attaccò le
strutture portanti dell’Urss e avviò
un processo di liberalizzazione
interna all’insegna della
glasnost, “trasparenza”, e
approvò un nuovo Parlamento, il
Congresso dei deputati del popolo
dell’Unione sovietica, che nel
dicembre 1988 mutò nome in Soviet
supremo.
In coerenza e in conseguenza delle
aperture interne, Gorbačëv rilanciò
il dialogo con l’Occidente, trovando
un interlocutore interessato in
Reagan, desideroso di condurre
positivamente il suo secondo mandato
e di mostrare al mondo come la sua
ostentazione di forza non doveva
portare necessariamente a nuove
tensioni. Il primo summit fra
i due si tenne a Ginevra nel
novembre 1985: qui, per la prima
volta da decenni, le due
superpotenze si trovarono d’accordo
sul tema della pace. Fu il
presidente statunitense a far
scrivere che una guerra nucleare
“non poteva essere vinta da nessuno
e non doveva essere combattuta”,
mentre il leader russo aggiunse
l’asserzione che uno scontro tra le
due forze doveva essere
necessariamente impedito.
A questo primo incontro seguì una
distensione fra le due nazioni: la
speranza era di un solidale
condominio planetario Usa-Urss.
Sebbene quest’ultimo disegno si
infranse a causa del collasso
sovietico, la portata storica di
questi incontri rimane fuori di
dubbio. Dopo Ginevra, Reagan e
Gorbačëv si videro di nuovo a
Reykjavik nel 1986, a Washington
l’anno seguente, dove raggiunsero un
fondamentale accordo di concertato
smantellamento missilistico, e,
infine, a Mosca nel maggio 1988. In
quest’ultimo incontro, che fu
vissuto trionfalmente, capitò un
fatto mediaticamente significativo
in grado di suggellare
simbolicamente la fine
dell’antagonismo bipolare: un
turista chiese al commander in
chief americano se reputasse
ancora quello sovietico “un impero
del male” e questi rispose: "No!
Parlavo di un’altra epoca!".
La distensione che chiuse la Guerra
fredda può farci nutrire fiducia su
come il ritrovato clima di
cordialità fra Stati Uniti e Russia,
inaugurato ad Anchorage, possa
rappresentare un primo significativo
passo verso la fine del conflitto in
Ucraina, delle morti e delle
devastazioni che si susseguono da
anni, nell’agognata speranza di
un’età di concordia planetaria
simile a quella aperta da Reagan e
Gorbačëv.
Riferimenti bibliografici:
R. Bartlett, Storia della Russia.
Dalle origini agli anni di Putin,
Mondadori, Milano, 2014.
Borgognone G., Storia degli Stati
Uniti. La democrazia americana dalla
fondazione all’era globale,
Feltrinelli, Bergamo, 2016.
Dale I. (a cura di), The
Presidents. 250 Years of American
Political Leadership, Hodder &
Stoughton, London, 2021.
Graziosi A., L’Urss dal trionfo
al degrado. Storia dell’Unione
Sovietica. 1945-1991, Il Mulino,
Bologna, 2008.
Testi A., Il secolo degli Stati
Uniti, Il Mulino, Bologna, 2022.