[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 212 / AGOSTO 2025 (CCXLIII)


contemporanea

Reagan e Gorbačëv
Gli storici incontri dei due leader

di Francesco Biscardi

 

Lo scorso 15 agosto 2025 abbiamo assistito ad uno storico incontro ad Anchorage, Alaska, fra i Presidenti di Russia e Stati Uniti, Vladimir Putin e Donald Trump. L’atmosfera solidale fra i due capi di Stato sembra di fatto aver posto fine a quel clima di incertezza, mista a tensione, che perdurava dal febbraio 2022 e che era stata fomentata dalla precedente amministrazione americana.

 

Per quanto la storia non si ripeta mai due volte nella stessa identica maniera, si può, tuttavia, scorgere un parallelismo con quanto accaduto nello scorso secolo fra Ronald Reagan (1911-2004), inquilino della Casa Bianca per due mandati, dal 1981 al 1989, e Michail Gorbačëv (1931-2022), leader sovietico dal 1985 al 1991. Come noto, il periodo che caratterizzò il secondo dopoguerra fu quello della Guerra fredda, secondo la dizione che per primo il giornalista americano Walter Lippmann usò in un suo libro di successo del 1947: non guerra calda e diretta fra le due superpotenze, ma un stato di continuo disaccordo, rivalità politica e corsa agli armamenti.

 

Il primo evento destinato a cambiare il corso degli eventi fu l’elezione del repubblicano Reagan nel novembre 1980. Questi si presentava come un candidato sui generis: era un ex attore hollywoodiano, credente, ma divorziato e risposato, poco propenso alla frequentazione delle chiese (elementi in controtendenza rispetto ai classici valori di stampo puritano amati in Usa). Era altresì un abile manovratore dei media, coniatore di slogan populisti come Let’s make America great again (oggi ripreso da Trump), in grado di trasmettere fiducia ad un popolo che vedeva appannarsi la sua immagine di prosperità a livello mondiale. Per il suo continuo rivolgersi al pubblico fu ribattezzato il “grande comunicatore” o “il Presidente al teflon”.

 

La su prima preoccupazione fu di rilanciare l’economia: all’insegna di quella che fu ribattezzata Reaganomics, inaugurò una politica neoliberista basata su un forte taglio delle tasse, allo scopo di lasciare più soldi nelle mani delle grandi corporations, delle maggiori industrie e dei principali risparmiatori, con l’augurio che avrebbero potuto reinvestire sul mercato, al fine di favorire la circolazione di denaro. Ridusse poi la spesa pubblica, accentuò le politiche antitrust e di deregulation.

 

In politica estera la sua azione fu improntata su una linea di intransigenza nei confronti dei “nemici” dell’America. In particolare, non esitò a definire l’Urss an evil empire, “un impero del male”, destinato ad essere consegnato alle ceneri della storia, mentre avviò ingenti progetti di spesa militare, compresi avveniristici programmi di difesa aerospaziale. Inoltre, sostenne in Afghanistan la guerriglia antisovietica dei mujaheddin, i “combattenti per la fede”. C’è chi parlò di un “ritorno alla Guerra fredda” dopo il clima di affievolimento delle tensioni che si era avuto negli anni precedenti. Ciononostante, alla fine il suo modus operandi non sfociò in alcun conflitto diretto, ma nella pace, grazie anche all’altro protagonista degli anni Ottanta: Gorbačëv.

 

A Mosca, all’inizio di questo decennio, dominava ancora la figura di Leonid Brežnev, anziano leader del Partito comunista sovietico dal 1964. La vittoria di Reagan alle elezioni del 1980 esacerbò la preoccupazione di nuove tensioni, nonostante l’ex presidente Nixon si fosse recato all’ambasciata russa per recapitare il messaggio che il neoeletto, pur essendo un anticomunista bramoso di ridare lustro agli Stati Uniti, era comunque un uomo raziocinante e pragmatico. Tali rassicurazioni non convinsero la leadership sovietica che reagì con messaggi di rabbia e sconcerto. Si temette soprattutto che la nuova presidenza avrebbe tentato di annullare la sostanziale parità strategica fra le due superpotenze, rendendo necessaria una nuova fase di corsa agli armamenti che l’Urss al momento scongiurava per questioni sia interne che esterne: vari erano i problemi economici, come varie le richieste di aiuto da parte dei Paesi satelliti, in un momento in cui l’Occidente stringeva i cordoni della borsa, vivi gli scioperi, come le polemiche per la nascita del sindacato polacco di Solidarność, il non brillante andamento della guerra in Afghanistan.

 

Brežnev morì il 10 novembre 1982; l’eredità che lasciava era preoccupante: in politica estera il bilancio era in negativo, pessimi erano poi i rapporti sia con gli Usa che con la Cina, mentre gli alleati del Terzo mondo versavano in condizioni difficili, e la gestione dell’energia e delle risorse mostrava carenze (come provò pochi anni dopo, nel 1986, la tragedia di Cernobyl).

 

A succedergli alla guida dell’Urss fu Jurij Andropov, un uomo energico, ex presidente del Kgb, un pensatore pragmatico, in grado di rassicurare i sovietici in caso di minaccia. Restò in carica per soli 14 mesi, 8 dei quali passati in gravi condizioni di salute. Dopo di lui fu la volta di Kostantin Černenko, anch’egli anziano, ma dal carattere più mite e debole rispetto al predecessore. Anche la sua fu una breve “parentesi”, visto che morì il 10 marzo 1985, dopo neanche un anno di dirigenza. Fu così che venne nominato Segretario generale del Partito comunista sovietico Gorbačëv, un politico più giovane, cinquantaquattrenne, appartenente ad una generazione che non aveva vissuto direttamente lo stalinismo.

 

Anatolij Sergeevič Černjaev, personaggio di spicco a Mosca, subito dopo i funerali di Černenko, lucidamente si domandò: "Cosa ci aspetta? Abbiamo bisogno di una “rivoluzione dall’alto”. Nulla di meno, altrimenti non andremo da nessuna parte. Michail [Gorbačëv] lo capisce?". Possiamo dire che lo comprese: il nuovo leader legò il suo nome alla perestrojka, “ristrutturazione”, proponendo una serie di interventi nel segno della liberalizzazione e facendosi promotore di una Costituzione che lasciava spazio ad un limitato sistema di candidature plurime, le quali consentirono l’elezione, anche se su lista unica, di esponenti del dissenso (impensabile fino a qualche anno prima). Nel contempo attaccò le strutture portanti dell’Urss e avviò un processo di liberalizzazione interna all’insegna della glasnost, “trasparenza”, e approvò un nuovo Parlamento, il Congresso dei deputati del popolo dell’Unione sovietica, che nel dicembre 1988 mutò nome in Soviet supremo.

 

In coerenza e in conseguenza delle aperture interne, Gorbačëv rilanciò il dialogo con l’Occidente, trovando un interlocutore interessato in Reagan, desideroso di condurre positivamente il suo secondo mandato e di mostrare al mondo come la sua ostentazione di forza non doveva portare necessariamente a nuove tensioni. Il primo summit fra i due si tenne a Ginevra nel novembre 1985: qui, per la prima volta da decenni, le due superpotenze si trovarono d’accordo sul tema della pace. Fu il presidente statunitense a far scrivere che una guerra nucleare “non poteva essere vinta da nessuno e non doveva essere combattuta”, mentre il leader russo aggiunse l’asserzione che uno scontro tra le due forze doveva essere necessariamente impedito.

A questo primo incontro seguì una distensione fra le due nazioni: la speranza era di un solidale condominio planetario Usa-Urss. Sebbene quest’ultimo disegno si infranse a causa del collasso sovietico, la portata storica di questi incontri rimane fuori di dubbio. Dopo Ginevra, Reagan e Gorbačëv si videro di nuovo a Reykjavik nel 1986, a Washington l’anno seguente, dove raggiunsero un fondamentale accordo di concertato smantellamento missilistico, e, infine, a Mosca nel maggio 1988. In quest’ultimo incontro, che fu vissuto trionfalmente, capitò un fatto mediaticamente significativo in grado di suggellare simbolicamente la fine dell’antagonismo bipolare: un turista chiese al commander in chief americano se reputasse ancora quello sovietico “un impero del male” e questi rispose: "No! Parlavo di un’altra epoca!".

La distensione che chiuse la Guerra fredda può farci nutrire fiducia su come il ritrovato clima di cordialità fra Stati Uniti e Russia, inaugurato ad Anchorage, possa rappresentare un primo significativo passo verso la fine del conflitto in Ucraina, delle morti e delle devastazioni che si susseguono da anni, nell’agognata speranza di un’età di concordia planetaria simile a quella aperta da Reagan e Gorbačëv.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

R. Bartlett, Storia della Russia. Dalle origini agli anni di Putin, Mondadori, Milano, 2014.

Borgognone G., Storia degli Stati Uniti. La democrazia americana dalla fondazione all’era globale, Feltrinelli, Bergamo, 2016.

Dale I. (a cura di), The Presidents. 250 Years of American Political Leadership, Hodder & Stoughton, London, 2021.

Graziosi A., L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Il Mulino, Bologna, 2008.

Testi A., Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2022.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]