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N. 11 - Novembre 2008 (XLII)

LA PROTESTA AL TEMPO DELLA CRISI
Se l’Onda sostituisce l’opposizione

di Cristiano Zepponi

 

Mentre l’attenzione del mondo è monopolizzata da una crisi economica tanto prevista quanto prevedibile, in Italia si respira un’aria di pesante contestazione nei confronti degli ultimi provvedimenti del governo in ambito scolastico-universitario. Un settore, questo, che negli ultimi anni era scivolato in una condizione di anonimato e rassegnazione, soprattutto per propri demeriti.

Troppo spesso, negli anni scorsi, la protesta aveva preso cadenza ossessiva ed abitudinaria, si era tramutata in un rito obbligato, ripetitivo ed automatico, svuotato dalla routine ed insieme perennemente alla ricerca di una causa abbastanza nobile - come se non ce ne fossero abbastanza - da giustificare la rinascita di un movimento di massa. Si era fatta, insomma, protesta in sé, dimenticandosi del resto.

Quest’apatica e retorica quotidianità è stata però sconvolta dall’ennesimo intervento governativo in tema di riforma del sistema scolastico, la cui centralità nel moderno sistema post-industriale non è apparsa chiara per diversi anni; oggi, come si conviene in questo sfortunato Paese, si mette mano alla situazione a cose fatte, come a rimettere insieme i cocci scivolati via mentre si celebrava il requiem della cultura nazionale.
In molti, comunque, avrebbero sottoscritto una riorganizzazione del sistema, che a tutti o quasi sembra non funzionare più: negli ultimi dieci anni, infatti, gli alunni sono diminuiti mentre la spesa pubblica per l'Istruzione - il 97% della quale è assorbito dagli stipendi - è cresciuta di oltre dieci miliardi; al contempo, la spesa per alunno è più alta del 10% rispetto alla media OCSE.
Tuttavia, che la scuola italiana costi troppo è decisamente falso: per l'Ocse, mentre la media delle principali economie mondiali investe il 5,8% del Pil nel proprio sistema scolastico, in Italia questa percentuale scende al 4,7%. E ancora, se tra il 1995 e il 2005 gli investimenti nella scuola nell’Ocse sono aumentati del 41%, in Italia l’incremento è rimasto contenuto al 12% (dati OCSE).

Nessuno si aspettava, quindi, una mano così pesante. Eppure il ministro dell’istruzione del III governo Berlusconi, Mariastella Gelmini, si era da subito rivelata una nostalgica dei bei tempi andati.
Indietro tutta, dunque. E così gli alunni delle elementari tornano ad indossare il vecchio grembiule, sia per una questione di ordine e d’appartenenza, sia per eliminare le differenze sociali tra gli scolari che tenderebbero ad emergere in particolare nell'abbigliamento più o meno "griffato". Gli italiani sembrano approvare, come risulta da un sondaggio riportato da “Panorama” (e non potrebbe esserci fonte più autorevole).
Rinfrancata forse da quel 57% che sembrava appoggiarla, la determinata ministra ha spostato allora l’attenzione contro il fenomeno del bullismo, ripristinando la familiare presenza del voto in condotta – l’unico, spesso, dove si ottiene la sufficienza – sulla pagella.
L’estate del 2008 sarà ricordata così, con un paio di misure dall’innegabile gusto retrò, accompagnate dalla restaurazione dei voti – in sostituzione dei mai digeriti giudizi –, dall’incentivo all'insegnamento obbligatorio dell'educazione civica, dalla formazione alle regole della strada ed al rispetto dell'ambiente, dal tentativo di ridurre il “caro-libri” (gli organi scolastici adotteranno libri di testo in relazione ai quali l'editore si sia impegnato a mantenere invariato il contenuto nel quinquennio, salvo le appendici di aggiornamento eventualmente necessarie, da rendere separatamente disponibili; anche l'adozione di libri di testo avrà cadenza quinquennale).


Ma, soprattutto, si è stabilito che alle primarie le istituzioni scolastiche (ovvero, i presidi) costituiscano classi affidate ad un unico insegnante (DL 137/2008) funzionante con orario di 24 ore settimanali. Si terrà conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola. In pratica, secondo l'opposizione, si elimina il tempo pieno.


Secondo Rainews 24, “per chi contesta la riforma, il ritorno al maestro unico e all'orario delle 24 ore obbligatorie 'spezza' la continuità didattica con le rimanenti 16 ore per arrivare alle famose 40. Parte di queste ore verranno sì affidate ad un altro docente o allo stesso maestro unico che accetterà di allungarsi l'orario di lavoro. Ma si tratterà di un tempo scuola aggiuntivo e non più unitario ai fini del programma. Insomma, un riempitivo”. O ancora: “per realizzare il tempo pieno con la riforma Gelmini le istituzioni scolastiche (Provveditorati e presidi) potrebbe applicare la legge Moratti, che prevede un tempo scuola fino alle 40 ore, escludendo la compresenza degli insegnanti. In questo modo, l'adozione del maestro unico potrebbe significare circa 7mila cattedre in meno ogni anno.


Nella scuola media le attuali 33 ore di orario settimanale potrebbero diventare 27 o 29. Il tempo prolungato qui potrebbe subire tagli maggiori: a rischio 20mila posti fra i docenti.
Per i licei e gli istituti professionali per ora resta valida l'impostazione della riforma Moratti, che prevede comunque una riduzione degli organici e una semplificazione degli indirizzi (oggi sono circa 900 includendo le sperimentazioni nazionali e autonome), con le modifiche per gli istituti tecnici e professionali introdotte dall'ex ministro Fioroni; tutte le sperimentazioni saranno bloccate. I licei dovrebbero funzionare con un massimo di 30 ore settimanali (ma gli artistici e i musicali ne faranno qualcuna in più). Tecnici e professionali passerebbero a 32 ore settimanali. Questa riduzione porterà al taglio di almeno 13mila cattedre”.
Il decreto legge 137/2008 è entrato in vigore il 1 settembre prima della conversione in legge affidata al Parlamento con la 'blindatura' della questione di fiducia.

Anestetizzati com’erano dall’ex Fioroni, spossati dalle mobilitazioni contro la vituperata Moratti, umiliati dal successo mediatico del Pontefice in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza, gli studenti ed i professori sembravano mansueti al punto da incassare una pesante riforma senza fiatare. Mariastella Gelmini, intanto, conduceva la sua personalissima crociata in nome del merito – un concetto che mostrò di aver afferrato all’epoca della “discesa a Reggio Calabria”, dove aveva sostenuto l'esame di abilitazione alla professione di avvocato, dato che la percentuale degli ammessi sembra fosse pari ad oltre il triplo rispetto a Brescia – ostacolato a suo dire da «forti disincentivi alla capacità individuale». Lapalissiano, per tutti.

Il ‘maestro unico’, in particolare, ha riscosso la genuina antipatia dei sindacati, degli insegnanti, dei genitori e di buona parte dei pedagogisti. Il team (tre insegnanti che operano su due classi) ha portato la scuola elementare italiana ai primi posti nelle classifiche internazionali. Secondo “Repubblica”, una serie di "operazioni", come quella del maestro unico o la riduzione delle ore di lezione alla media ed alla superiore, consentiranno all'esecutivo di tagliare 87 mila e 400 cattedre e 44 mila e 500 posti di personale Ata, amministrativo, tecnico ed ausiliario. Saranno i 240 mila docenti precari delle graduatorie provinciali a pagare il salatissimo prezzo della "razionalizzazione" delle risorse.

Al tempo stesso, per rastrellare alcune centinaia di posti di dirigente scolastico, bidello e personale di segreteria il ministro Gelmini ha imposto alle regioni di mettere mano ai Piani di dimensionamento delle rete scolastica. Secondo i calcoli effettuati dai tecnici di viale Trastevere, una consistente fetta delle 10.766 istituzioni scolastiche articolate in quasi 42 mila plessi scolastici va tagliata; così, circa 2.600 istituzioni scolastiche autonome rischiano di essere smembrate e accorpate ad altri istituti, e lo stesso vale per circa 4.200 plessi con meno di 50 alunni.

Ce ne sarebbe già per un paio di “autunni caldi”, se non fosse che il governo è riuscito nell’impresa di peggiorare la situazione.
La legge 133 sui precari, infatti, stabilisce che sessantamila cervelli nostrani che fino ad oggi hanno lavorato presso università ed enti di ricerca rischiano di essere accantonati, se gli enti da cui dipendono non riusciranno a stabilizzarli entro il 30 giugno 2009 (vedi il testo).
Contemporaneamente, la legge prevede la riduzione annuale, fino al 2013, del Fondo di finanziamento ordinario ed un taglio del 46 per cento sulle spese di funzionamento. Si tagliano di colpo 1,4 miliardi di euro, facilitando prevedibilmente la trasformazione degli Atenei (adeguatamente dissanguati) in Fondazioni, più ricettive verso i capitali privati. Si aziendalizza a più non posso, insomma.

Il cosiddetto ‘modello americano’ trionfa. “In attuazione dell'articolo 33 della Costituzione, nel rispetto delle leggi vigenti e dell'autonomia didattica, scientifica, organizzativa e finanziaria, le Università pubbliche possono deliberare la propria trasformazione in fondazioni di diritto privato. La delibera di trasformazione è adottata dal Senato accademico a maggioranza assoluta ed è approvata con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. La trasformazione opera a decorrere dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello di adozione della delibera."
Sono eliminate le problematiche finanziarie che potrebbero rendere più complessa la ‘metamorfosi’: “le fondazioni universitarie subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio dell'Università. Al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie è trasferita, con decreto dell'Agenzia del demanio, la proprietà dei beni immobili già in uso alle Università trasformate."
Né la trasformazione è disincentivata da considerazioni di ordine fiscale, dato che "gli atti di trasformazione e di trasferimento degli immobili e tutte le operazioni ad essi connesse sono esenti da imposte e tasse."


Si sottintende, quindi, la sostituzione del finanziamento delle università da parte dello Stato a quello privato: "i trasferimenti a titolo di contributo o di liberalità a favore delle fondazioni universitarie sono esenti da tasse e imposte indirette e da diritti dovuti a qualunque altro titolo e sono interamente deducibili dal reddito del soggetto erogante. Gli onorari notarili relativi agli atti di donazione a favore delle fondazioni universitarie sono ridotti del 90 per cento."


Il meccanismo converrebbe ad entrambi: da un lato le donazioni sarebbero percepite integralmente (poiché esenti da tasse e imposte) dalle neonate fondazioni. Dall'altro la deducibilità totale delle somme dal reddito imponibile incentiva efficacemente le donazioni private. Et-voilà.

Inoltre, "resta fermo il sistema di finanziamento pubblico; a tal fine, costituisce elemento di valutazione, a fini perequativi, l'entità dei finanziamenti privati di ciascuna fondazione"; ovvero, si otterrebbe a prescindere dagli sforzi o dal pubblico (che deve garantire la perequazione) o dal privato (che ha tutto l’interesse a dedurre le tasse, sempre che scelga vie legali in materia). Che meravigliosa parolina, perequazione; se ne sta lì, come capitata per caso.

Per finire, la legge decreta la mutilazione del turnover, dato che ogni cinque professori universitari che andranno in pensione nei prossimi anni gli atenei potranno assumere un solo ricercatore; addio, insomma, al (timido) miraggio di entrare stabilmente nel mondo universitario per migliaia di precari già impegnati negli atenei.

"Questo governo sembra essere un governo di sinistra per come ha a cuore i bisogni della gente", aveva detto in precedenza il ministro Gelmini, nel corso di un intervento al convegno della fondazione 'Magna Carta' a Norcia.
Perfettamente affine ai princìpi della sinistra, in effetti, appare l’altro provvedimento che ha scatenato le polemiche di questi giorni: la mozione della Lega (mozione 1-00033 Cota ed altri - Camera dei deputati - 14/10/2008) che prevede la creazione di classi differenziate per gli alunni stranieri, "rei" di rallentare i processi di apprendimento degli alunni nostrani (che, com’è noto, sono invece particolarmente acuti), sottoposti ad una «penalizzante riduzione dell'offerta didattica».
La contestatissima norma è stata difesa dal Presidente del Consiglio: "non è dettata da razzismo ma da buonsenso. Conoscere la lingua italiana è necessario".
Sarà, ma solo in questo Paese hanno parlato apertamente di «apartheid» il leader del Pdci Oliviero Diliberto, Fabio Evangelisti dell’Idv e Claudio Grassi di Rifondazione comunista.
Saranno di parte, diranno alcuni; ma ecco che le critiche piovono anche dalla Chiesa: il cardinale Angelo Scola non ha esitato a precisare di «non essere favorevole» alla soluzione ideata dal Carroccio. «Laddove ci sono degli educatori capaci, questa varietà di provenienza, equilibratamente scelta, si sta rivelando un’autentica ricchezza”.
Che poi la Chiesa abbia contribuito attivamente al successo di questi signori – ne sono prova i cori di piazza San Pietro contro il governo Prodi, gli attacchi quotidiani alla Roma di Veltroni, le pressioni esercitate su Mastella – è un’altra storia. Meglio tardi che mai, comunque.

Da tutto questo deriva la massiccia mobilitazione d’ottobre, che ha assunto in breve proporzioni notevoli, e – cosa più importante – è riuscita a strappare l’attenzione dei media. Lezioni all’aperto davanti a Montecitorio, all’ombra della statua di Vittorio Emanuele II a Piazza Duomo (Milano), l'occupazione di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche dell'università di Torino, di Palazzo Giusso a Napoli ed anche delle facoltà di Lettere, Fisica, Ingegneria e Scienze Politiche della “Sapienza”, il funerale dell’università pubblica di Genova, le proteste sotto il Senato e negli innumerevoli vicoli che abbracciano Piazza Navona, l’enorme mobilitazione in occasione dello sciopero del 30 del mese (di fronte al quale, per la prima volta, il governo ha dovuto ammettere che a protestare non sono state “poche migliaia di persone”, ma – valutando i dati del ministero e dei sindacati – rispettivamente dal 57% al 70% dei lavoratori del settore), per non parlare delle centinaia di facoltà e di licei a vario livello d’agitazione. Gli studenti, dal Nord al Sud, rifiutano di pagare quello che chiamano “il conto della crisi”, approvato dal Senato il 29 di ottobre.


"La mia vita attuale è questa”; a parlare è Luca, monzese di 23 anni, un'ottima laurea in lettere a Milano, venuto a Roma per specializzarsi in filologia romanza: “studio come un pazzo per finire in fretta e bene, lavoro in un call-center, dormo in una camera a 500 euro al mese. E sopporto pure che un Padoa - Schioppa o un Brunetta o una Gelmini mi diano del bamboccione o del fannullone. Ma non che taglino i fondi all'università per fare affari con l'Alitalia, aiutare la Fiat o le banche dei loro amici. La crisi io non la pago. Questa settimana di proteste è stata la più bella esperienza di questi anni. Si respira, si parla, si discute dei sogni, del futuro. Penso sia un mio diritto. Ai vostri tempi era magari diverso. I corsi universitari duravano mesi, avevi sempre gli stessi compagni, gli stessi professori. In ufficio o in fabbrica eri solidale con l'altro operaio o impiegato. Ora io seguo decine di corsi dove non incontro mai le stesse persone e poi lavoro in un call-center dove il mio vicino di scrivania cambia sempre, a ogni turno, senza contare che abbiamo tutti le cuffie e non c'è neppure la pausa caffè. In questi giorni ho alzato la testa, mi sono guardato intorno, ho conosciuto studenti da tutta Italia, mi sento vivo".


Anche per questo il 21 di ottobre sul sito dell’università di Palermo si leggeva questo comunicato: “Il Senato Accademico dell’Università di Palermo, rinnovando il proprio impegno per una profonda innovazione del sistema universitario italiano, ha in più occasioni espresso forti preoccupazioni sui numerosi provvedimenti legislativi che negli anni si sono succeduti, volti a ridurre drasticamente e indiscriminatamente le disponibilità degli Atenei statali sia in termini finanziari che di risorse umane.
Il Senato Accademico ha quindi condiviso le argomentazioni dell’Assemblea della CRUI, che ha prefigurato a breve un collasso dell’intero sistema universitario, con gravissimo pregiudizio delle capacità innovative e della crescita scientifica e culturale del Paese.
Il Senato Accademico ribadisce la sua contrarietà nei confronti di ogni ipotesi di trasformazione dell’Università di Palermo in una Fondazione e, per quanto riguarda le previsioni della L. 133, conferma l’allarme già oggetto di numerosi interventi della CRUI, del CUN, del CNSU, nonché degli stessi organi di Governo dell’Ateneo.


Il Senato Accademico ritiene necessario, per ristabilire una base di discussione serena e costruttiva, la revoca della citata L. 133 e la reale attivazione del tavolo interistituzionale annunciato dal Ministro Gelmini, dal quale fare partire una consultazione ampia e partecipata volta alla individuazione di percorsi che indirizzino, con un adeguato processo di valutazione, verso comportamenti virtuosi tanto dei singoli che degli Atenei.
Il Senato Accademico prende atto dei documenti approvati dal Consiglio di Amministrazione, dai Consigli di Facoltà di Ingegneria, Scienze della Formazione, Scienze MM.FF.NN. e dall’Assemblea di Ateneo, e ne condivide le espressioni di grave preoccupazione.
Autorizza il Rettore a disporre l’oscuramento del sito dell’Università di Palermo per l’intera giornata del 21 ottobre, con la sola pubblicazione della presente mozione”.

La prima preoccupazione dell’Onda anomala, come il movimento ha scelto di farsi chiamare, è stata quella di non apparire influenzata e manovrata dalla sinistra (dovunque essa riposi); e gli esponenti della maggioranza proprio su questo punto hanno attaccato, come prevedibile, senza interrogarsi sul profondo malessere che anima la mobilitazione, senza neanche affacciarsi su un mondo che fa paura, perché non nulla ha da perdere: e, proprio per questo, sembra disposto a tutto. L’irrazionale equazione protesta=sinistra (con l’eventuale corollario di droga, capelloni e punkabestia) funziona sempre, pare.

Come sempre hanno affibbiato sbuffando l’etichetta di “marionetta” ad un’intera generazione, rinfacciandogli di “fare politica” come fosse una colpa imperdonabile nel desolante panorama del conformismo acritico, prospettandogli le salutari manganellate che - come il ceffone rifilato ad un figlio, per il suo bene - potrebbero farla rinsavire, schernendo il loro desiderio di orizzonti lontani, certezze e stabilità, accusandoli d’impreparazione, ingenuità ed idealismo, liquidandoli senza voltarsi.
Il Presidente del Consiglio, per primo, ha mostrato scarsa comprensione verso gli studenti ed i giovani in generale – che, a seconda del sesso, si è capito veda bene o in Publitalia o in caccia d’un fidanzato danaroso. "Non permetterò l'occupazione delle università. L'occupazione di luoghi pubblici non è la dimostrazione dell'applicazione della libertà, non è un fatto di democrazia, è una violenza nei confronti degli altri studenti che vogliono studiare", ha dichiarato il 22 del mese.

“Parole molto gravi, parole che possono essere cariche di conseguenze; il premier soffia sul fuoco, il disagio sociale non è una questione di ordine pubblico: mi chiedo se in questo Paese è ancora possibile dissentire”, ha replicato Walter Veltroni, leader del principale partito d’opposizione.

"La realtà di questi giorni” - ha detto ancora il premier – “è la realtà di aule piene di ragazzi che intendono studiare e i manifestanti sono organizzati dall'estrema sinistra, molto spesso, come a Milano, dai centri sociali e da una sinistra che ha trovato il modo di far passare nella scuola delle menzogne e portare un'opposizione nelle strade e nelle piazze alla vita del nostro governo".

Che poi ai protestanti si uniscano intelligenze internazionalmente invidiate (tra cui quella dell’oncologo Umberto Veronesi, critico nei confronti dei previsti tagli al fondo ordinario per l'università: "non so che cosa vorranno dire alla fine per l'università questi tagli, ma sono molto preoccupato […] finiranno con il pesare soprattutto sulla ricerca in un momento nel quale si dovrebbero invece raccogliere le forze per lo sviluppo"), non conta affatto.
Il malcelato timore che trapela dalle parole del premier - che i fatti di questi giorni costituiscano il preludio ad un altro ’68 o ad un nuovo ’77 - appare tuttavia infondato, tanto diversi appaiono motivazioni, collegamenti partitici, forme di protesta, radicamento territoriale; “altra storia”, come scrive Maltese: “l'arrivo alla facoltà occupata è confortante o deludente per chi ha in mente e negli occhi la Sapienza delle assemblee oceaniche sessantottine o il teatro di guerra della cacciata di Lama. C'è un gran silenzio”.
In comune, a nostro parere, c’è solo quell’attitudine delle destre a menar le mani che il più delle volte si reprime, e talvolta si sfoga. Montanelli, per primo, ammetteva l’errore di aver creduto che la gente potesse andare a destra “senza il manganello”.


Ora il manganello si agita apertamente, invece; riposa tranquillo nelle fondine solo quando i provocatori del Blocco Studentesco (i professionisti dal volto coperto appartenenti ad un organizzazione d’estrema destra) arrivano il 29 del mese a Piazza Navona con un camioncino-armeria, s’armano di cinte, caschi e tavolini, circondano e pestano qualche studente di passaggio (con il corollario del dirigente di polizia il quale, agli studenti di Roma Tre che protestano, risponde che “quelli sono di sinistra”, per poi smentire un minuto dopo, come si conviene) e ci sputano in faccia il ricordo di quel maledetto G8 di Genova in cui i carabinieri ignoravano gli agitatori, e si concentravano contro i pacifisti; ma si agita feroce, come se non aspettasse altro, quando a tiro capita qualche “capellone” in protesta: una salutare bastonata paterna, chissà che non rinsaviscano.
Pasolini avrà pure avuto ragione, ma questa tecnica ricorrente avrebbe forse esacerbato anche lui.

Altre argomentazioni. Se è vero che in molti intendono continuare a studiare – vuoi perché non si possono permettere il lusso di protestare, vuoi perché si disinteressano degli esiti, vuoi perché non condividono le altrui lamentele – e ne sono temporaneamente impediti (se non danneggiati), è anche vero che stavolta protagonista della mobilitazione è stata una larga fetta dei soggetti più laboriosi, costanti e preparati delle nostre università, a partire dai ricercatori. “E' un movimento pacifico, gli studenti chiedono di investire nella scuola, è gente che chiede di studiare di più e meglio", per citare Epifani. Niente in comune con scontri generazionali e velleità rivoluzionarie, da queste parti.


“E' un rivolta di bravi ragazzi, della nostra meglio gioventù. Non è una rivolta contro i padri, come furono le altre, ma di giovani che prendono sul serio le parole dei padri”, per usare ancora le parole di Maltese. è una rivolta, aggiungiamo noi, di giovani che hanno ascoltato le loro lezioni, e imparato dalle loro sconfitte.

 

 

 

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